30 Righe di Raffaele Bonanni

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Con Trump gli States saranno più severi con l’Europa

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di Raffaele Bonanni

ROMA (ITALPRESS) – Non è certo usuale che Donald Trump ritorni alla presidenza degli Stati Uniti dopo il mandato di Joe Biden, esponente del Partito Democratico, che ha governato negli ultimi quattro anni. Un simile scenario indica che l’insieme delle dinamiche interne agli Stati Uniti e il contesto internazionale hanno influito significativamente sul successo del tycoon. Negli Stati Uniti, i suoi consensi sono cresciuti tra i lavoratori e la classe media delle aree urbane, che una volta erano saldamente nelle mani dei democratici, e ha visto un’espansione dei voti anche nelle aree rurali, tradizionali feudi repubblicani. Già dalla prima elezione si era notato uno spostamento, che ora si conferma con consensi ancora più ampi tra i lavoratori, a cui si è aggiunto anche il ceto medio. Questo cambiamento clamoroso è dovuto a diversi fattori. L’inflazione, infatti, è notevolmente aumentata, con i ceti meno abbienti che ne pagano il prezzo più alto. I salari sono erosi dall’aumento dei prezzi, mentre l’accesso al credito per le famiglie è reso più difficile dai tassi di interesse elevati. La contrazione dei consumi interni, a sua volta, ha avuto effetti negativi sull’economia. Ed è proprio per questo che questi ceti hanno cambiato orientamento, percependo i democratici come lontani dalle loro preoccupazioni, ormai concentrati sul mantenimento di uno status quo che favorisce soprattutto i ceti agiati e le grandi aziende tecnologiche.
Potrà sembrare paradossale che un miliardario come Trump, sostenuto dal super miliardario Elon Musk e dal potente Jeff Bezos, riceva il consenso di queste categorie, ma il risentimento per il tradimento percepito è un sentimento forte. A ciò si aggiunge la difesa delle libertà individuali, che Trump ha sempre promesso di tutelare, contrariamente a un potere politico e sociale che sembra sempre più in declino. L’affermazione dei repubblicani al Senato e l’elezione presidenziale potrebbero portare a importanti cambiamenti nella politica interna ed estera, ma non è il caso di aspettarsi sconvolgimenti clamorosi. Non bisogna dimenticare che negli Stati Uniti, a differenza di quanto avviene in altri Paesi, il potere esecutivo deve convivere con altri poteri statali autorevoli e autonomi, come è tipico di una vera Repubblica. Di conseguenza, è improbabile che ci siano stravolgimenti radicali. Piuttosto, è prevedibile che ci sarà un maggiore rigore nelle politiche immigratorie, una spinta per ridurre la spesa pubblica e politiche fiscali che favoriscano le imprese e le persone fisiche, mirando a una riallocazione della produzione all’interno del Paese.
I rapporti commerciali saranno riorganizzati per raggiungere un pareggio negli scambi internazionali, anche attraverso l’uso di dazi doganali, e ci sarà un riordino delle alleanze nei vari scenari geopolitici globali. In merito ai rapporti con l’Europa, è noto il punto di vista degli americani, e Trump è ancor più drastico al riguardo. Gli Stati Uniti ritengono che il bilancio commerciale sia troppo favorevole all’Europa e non sono più disposti a farsi carico dei costi della sicurezza, principalmente quelli legati alla NATO. Pretendono amicizia, ma senza gli obblighi che ne derivano. Può sembrare che gli Stati Uniti siano troppo puntigliosi, ma a mio parere gli europei non sempre sembrano aver compreso appieno come funziona il mondo oggi.

– Foto Agenzia Fotogramma –

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Ue, che fine ha fatto la proposta di Draghi sul rilancio della competitività?

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ROMA (ITALPRESS) – Che fine ha fatto la proposta di Mario Draghi per il rilancio della competitività europea? Il valore della proposta non è stato negato dai governi dei paesi aderenti alla UE, ma sembra che la loro preoccupazione sia più rivolta a non compromettere gli equilibri dei loro poteri nazionali piuttosto che a risollevare le loro economie. Infatti, nelle loro priorità non c’è ancora la consapevolezza delle nuove egemonie politico-economiche che minacciano il vecchio continente.
Il rapporto di Draghi, voluto dalla Commissione europea, affronta le sfide che l’industria e le aziende del Mercato Unico devono considerare nei loro programmi di consolidamento. Questo rapporto contribuirà al lavoro della Commissione su un nuovo piano per la prosperità sostenibile e la competitività dell’Europa. Sottolinea l’importanza di investimenti mirati nelle regioni meno sviluppate per migliorare infrastrutture, istruzione e capacità tecnologiche, con l’obiettivo di creare un’economia più inclusiva.
Inoltre, il piano evidenzia la necessità di affrontare le sfide demografiche, come l’invecchiamento della popolazione e la riduzione della forza lavoro, attraverso politiche che supportino tassi di natalità più elevati e attraggano immigrati qualificati. Insomma, una proposta che tende a riportare i popoli europei al realismo che da tempo sembra smarrito.
Nei prossimi mesi si prospetta una nuova guerra dei dazi ancora più accesa del passato; i paesi concorrenti investono nelle nuove tecnologie digitali e nell’intelligenza artificiale, perfezionano i loro piani energetici, varano programmi massicci a sostegno dell’educazione per migliorare cultura e competenze del capitale umano. Chi non ha già un equilibrio demografico sufficiente, lo programma per ottenere manodopera qualificata; si occupano intensivamente di innovazione e ricerca in quest’epoca di cambiamenti tecnologici; sono attenti a non aumentare i carichi fiscali e a frenare il debito pubblico.
Si può dire che le classi dirigenti europee si cullano ancora sulle vecchie certezze, ignare del rischio ormai altissimo del loro declino, qualora non si dovesse intraprendere un nuovo cammino verso la competitività dei propri sistemi industriali e servizi. Tali auspici dovrebbero essere moltiplicati per tre per l’Italia. Tant’è che, pur avendo la demografia più preoccupante dell’Europa, non si investe per le famiglie se non con qualche bonus precario. I nostri giovani laureati, sia del sud che del nord, scappano in paesi più generosi di salario e più meritocratici. Un eventuale e necessario piano di immigrazione di manodopera specializzata viene sostituito da un insensato dissidio tra chi è contrario e chi è favorevole all’immigrazione, a prescindere da ciò che ci occorre. La scuola, l’università e la ricerca sono in gran parte lontane dagli obiettivi che un paese evoluto e trasformatore necessita. Energia, infrastrutture materiali e immateriali si gestiscono alla giornata.
E allora, per la classe dirigente del nostro paese è giunto il tempo della consapevolezza e della responsabilità. Ma anche i nostri cittadini dovrebbero probabilmente tornare più costantemente all’impegno civico.

– foto: Agenzia Fotogramma –
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Le sfide delle piattaforme digitali per le imprese

di Raffaele Bonanni

ROMA (ITALPRESS) – Lo sviluppo delle nuove frontiere tecnologiche ci spinge a un impegno costante e coerente, offrendoci l’opportunità di progredire come individui e comunità. Tuttavia, se trascuriamo o rifiutiamo queste innovazioni, rischiamo di essere emarginati dai mercati e dal benessere. È quindi essenziale porre queste innovazioni al centro delle nostre priorità, coinvolgendo tutti gli stakeholder e i cittadini.
Le tecnologie digitali, incluse l’intelligenza artificiale generativa, richiedono infrastrutture capaci di organizzare, elaborare, archiviare e diffondere enormi quantità di informazioni. Tuttavia, i data center necessitano di molta energia stabile, consumando circa 200 terawattora di energia all’anno a livello globale. È quindi necessaria una strategia di decarbonizzazione sostenibile per ridurre le emissioni di CO2 e aumentare l’efficienza energetica.
Negli Stati Uniti, multinazionali come Google, Amazon e Microsoft hanno firmato accordi per alimentare i loro data center con mini-reattori modulari nucleari, garantendo centinaia di megawatt di energia rinnovabile pulita e continua. In Italia, è previsto un piano di investimenti di 15 miliardi di euro entro il 2028 per la realizzazione di data center, che promette di rilanciare l’economia e aumentare l’occupazione diretta e indiretta, soprattutto in Lombardia. Le aziende che investono nelle infrastrutture digitali devono affrontare diverse sfide. Prima di tutto, è necessario un quadro normativo chiaro e di supporto, poiché il settore dei data center non è attualmente riconosciuto a livello regolatorio e viene considerato un generico edificio industriale. Questo porta a una mancanza di chiarezza normativa e all’assenza di procedure specifiche per l’apertura di nuovi data center, con tempi lunghi e rapporti complessi con le istituzioni.
Un’altra sfida è la carenza di figure professionali qualificate, soprattutto nelle discipline di progettazione e costruzione. Per colmare il divario tra domanda e offerta di lavoro nel settore digitale, è necessario investire nella formazione di competenze adeguate, collaborando tra istituzioni, università e imprese.
La questione energetica è un’altra sfida fondamentale. I data center necessitano di energia elettrica continua, e le fonti eoliche e fotovoltaiche, per la loro intermittenza e dipendenza da costosi sistemi di stoccaggio, non sono sufficienti. Gli operatori devono quindi affidarsi a tecnologie rinnovabili più stabili, come la geotermia e il nucleare, se questa fonte di energia tornasse disponibile nel nostro Paese.
Infine, lo sviluppo dei data center influisce sull’infrastruttura di rete. I centri con una potenza superiore ai 10 MW richiedono l’allacciamento all’alta tensione, non sempre disponibile. Saranno quindi necessari investimenti per potenziare la rete elettrica. Lo sviluppo di questi temi hanno bisogno consapevolezza dei cittadini, stimolata e sostenuta dalle forze politiche e sociali. Le autorità dovranno decidersi a programmare gli interventi ed a provvedere ogni strumento necessario alle attuazioni. Una paese evoluto fa questo, non si perde in storie futili e perenni divisioni sul nulla. Dunque basterà un approccio nuovo sulle cose che contano e l’Italia potrà cambiare.
(ITALPRESS).

 

Foto: Agenzia Fotogramma

Le disuguaglianze fanno regredire il mondo

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di Raffaele Bonanni
ROMA (ITALPRESS) – Il mondo è in subbuglio, e molti accadimenti segnalano che le motivazioni di tale malessere sono diffuse e profonde. Un malessere concomitante a uno sviluppo tecnologico prodigioso, della conoscenza e del benessere materiale senza precedenti nella storia dell’umanità, che comunque è un segno importante della vitalità dell’uomo ispirato dal trascendente. Ma questi beni non hanno una diffusione uniforme. Anzi, le sperequazioni tra i popoli e tra le singole persone aumentano ancor di più che in epoche passate. La potenza che scaturisce dalle invenzioni feconda inevitabilmente chi è già avanti e gode del vantaggio competitivo accumulato nel tempo, a discapito di chi è già tanto indietro. Allora l’umanità dovrà porsi il tema essenziale per il suo progresso: come potrà essere possibile nel prossimo futuro progredire con persone in pace con altre persone? Sfiducia e frustrazione, risentimento, odio e violenza maturano in ambienti in grande difficoltà. Bisogna considerare che spregiudicati avventurieri che mirano ad assumere potere sono sempre pronti a sfruttare le ingiustizie per condurre i popoli alla violenza e comunque a servirsi di atti esecrabili per raggiungere i loro scopi.
E così, alla povertà si aggiungono altri guai: quelli di essere condotti in avventure come è accaduto con le dittature rosse e nere del Novecento, ma anche in questi tempi ambigui in Medio Oriente e nell’occupazione russa ai danni degli ucraini. Anche nei paesi tradizionalmente evoluti, pochi uomini possiedono beni che superano quelli posseduti da molti Stati, e con essi sbiadiscono i poteri democratici per sostituirvisi. Vanno alla ricerca di poteri unici attraverso il pensiero unico, richiedendo di far tramontare le tradizioni secolari che rappresentano l’identità di un popolo. Ma va ricordato che la storia è sempre stata maestra: quando le persone perdono la speranza perché oppresse dalla miseria, dalla mancanza di dignità e identità, il mondo regredisce e muore. La Terra vive attraverso la vitalità dei suoi abitanti, che si nutre di libertà. Un’opportunità per riaffermare queste verità ci viene dal Giubileo del prossimo anno voluto dal Papa. L’Anno Santo si celebra nel nome della Speranza: la Speranza di risolvere conflitti con la pace; di promuovere la dignità di ogni persona; di rispettare tutto il creato; di ridare senso alla vita donataci da Dio, riportandola al centro del Creato.
Un’opportunità grande per superare la paura che molti provano per tante ingiustizie e la possibilità di ridare alle persone la bussola per la convivenza pacifica. Il Giubileo nasce nella tradizione ebraica nel segno della necessità di prosperare attraverso la fratellanza, affinché la pace fosse sempre viva tra le persone. In considerazione degli errori in cui cadono gli uomini, sia per volontà di dominio che per incuria e deresponsabilizzazione, le leggi ebraiche ispirate dal Vecchio Testamento prescrivevano che ogni 50 anni chi possedeva schiavi era comandato a liberarli, chi aveva debiti gli venivano prescritti, e chi aveva avuto beni sequestrati a causa di debiti non saldati. Una prescrizione logica che, se riflettiamo, ci porta alla conclusione che anche ai più fortunati costano più i conflitti, la mancanza di quella che oggi chiamiamo coesione sociale, e l’esposizione a essere soggiogati dagli stakanovisti della violenza, che rinunciare alle ricchezze accumulate rendendo poveri e schiavi gli altri. Mosè, raggiungendo la terra promessa, affidò, attraverso le tribù, terreni in parti uguali a ogni persona affinché ognuno potesse sostenersi con il proprio lavoro, costruendo responsabilità, dignità e libertà di ciascuno. In definitiva, anche oggi le situazioni dovrebbero essere riportate alle stesse condizioni per ottenere una Terra che prosperi attraverso i valori universali che ha sognato ogni generazione.

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I venti di guerra e l’Onu da riformare

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di Raffaele Bonanni
ROMA (ITALPRESS) – I venti di guerra che soffiano sul Medio Oriente e sull’Ucraina sconcertano l’opinione pubblica occidentale e la dividono sulle opzioni da adottare per una rapida uscita dai conflitti. Nel frattempo, le piazze delle capitali dei paesi democratici si riempiono di pacifisti. Nei paesi autocratici, invece, la realtà è completamente diversa: chi governa non ha limiti nelle sue scelte, può manovrare la repressione e l’informazione. La propria opinione pubblica è non di rado abituata ad apprezzare le conquiste ai danni degli altri, anziché il buon vicinato con altri popoli. Considerando questi aspetti, si può affermare che ciò che muove guerra e pace dipende molto dalla forma di governo di un paese. In Ucraina, ad esempio, Putin ha agito come ha voluto e potuto contro un paese sovrano e democratico. Prima ha tramato per farne un paese satellite, come avviene con la Bielorussia, ma quando le manifestazioni “arancioni” si sono sviluppate in tutta l’Ucraina e sono riuscite a cacciare il governo fantoccio eterodiretto da Mosca, Putin ha occupato e annesso la Crimea alla Federazione Russa contro ogni legge internazionale e trattato stipulato dagli stessi russi.
Poi, dopo 8 anni, Putin ha occupato l’Ucraina, ha annesso altre due regioni ucraine e minaccia l’uso dell’atomica qualora si dovesse resistere ancora alle sue mire. In Medio Oriente, invece, c’è un’altra autocrazia che muove le fila della guerra attraverso gli Houthi, Hamas ed Hezbollah: la Repubblica Islamica dell’Iran, governata dagli Ayatollah. Li ha incitati al terrorismo, li ha riforniti di missili da sparare su Israele, li ha spinti a mettere in crisi i governi del Libano, dello Yemen e della Palestina. Questo quadro della situazione è stato costruito sapientemente dal regime sciita di Teheran per diventare egemone nel Medio Oriente e mettere fuori gioco Israele, e non solo. Anche altri paesi musulmani sunniti nutrono avversione per il regime di Teheran. Infatti, da tempo, i musulmani sunniti, in larga maggioranza rispetto agli sciiti, sono palesi o occulti alleati di Tel Aviv, tanta è l’avversione per gli ayatollah iraniani. Ed allora, come conquistare la pace in situazioni così complesse, se si vogliono evitare in origine gli scontri armati dei violenti? L’ONU va profondamente riformata in modo da agire a garanzia della pace sostenuta dalla maggioranza qualificata delle Nazioni con iniziative armate a difesa dei trattati internazionali e dunque di chi è illegalmente aggredito.
Bisogna togliere il diritto di veto a Cina, Russia, USA, Regno Unito e Francia. Ad esempio, se l’Ucraina viene aggredita contro le leggi internazionali, l’ONU dovrà ripristinare la legalità. Ma se la Federazione Russa dispone del diritto di veto, è evidente che bloccherà l’ONU e questa ingiustizia spinge altri nel mondo ad aggredire i deboli. Dunque, tutti i pacifici del mondo devono unirsi a riformare gli organismi internazionali di garanzia. Diversamente, avremo sempre più guerre, perché i violenti riusciranno persino ad utilizzare il più nobile sentimento di pace come risorsa per travisarne il senso e consumare impuniti i loro crimini.

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Lavoro, serve education orientata alle qualificazioni alte e medie

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ROMA (ITALPRESS) – Sulla mancanza di lavoro, sulla precarietà nel lavoro, sulla perdita di lavoro, si sprecano fiumi di parole ed allarmi senza fine. Gran parte della classe dirigente italiana, le usa esclusivamente indicando strumenti del passato, privi di senso per le dinamiche che oggi interessano le persone e le attività produttive. Il vicolo cieco, ad esempio, lo troviamo nelle iniziative abrogative del jobs act, nelle decontribuzioni degli oneri previdenziali per ottenere più occupati, nelle richieste di salari minimi, nei bonus una tantum per lavoratori. Proposte sbagliate e pannicelli caldi costosi, però redditizi per coloro in politica e nel sociale intendono catturare a piene mani consenso a buon mercato facendo leva sulla paura; costosissimi per le finanze pubbliche, e responsabili dei ritardi che provoca ai danni dello sviluppo. Dunque si perde tempo su soluzioni inidonee e nel contempo si rifiuta ogni scelta che costa fatica impegno, realismo e responsabilità. Si continua perciò a mostrare indifferenza o peggio ad osteggiare ogni legge ed ogni soluzione della contrattazione collettiva riconducibili all’obiettivo di adeguarsi alle organizzazioni del lavoro orientate alle nuove tecnologie digitali.
Esse vengono bollate inesorabilmente ed irresponsabilmente come portatrici di precarietà. Da troppi anni il lavoro italiano ha sofferto di ritardi e limitazioni, suggerite dal pregiudizio verso la modernità. Ma intanto i paesi nostri concorrenti non hanno indugiato, la loro produttività è aumentata, cosi come la stabilità del lavoro ed i salari, al contrario nostro che subiamo bassa produttività e bassi salari. Ed allora dovremo convincerci che le qualificazioni dovranno assumere i connotati idonei per il tempo che viviamo, ed ottenere riconoscimenti meritocratici. Ai criteri di misurazione oraria del lavoro ai fini delle retribuzioni, dovranno integrarsi quelli della ponderazione dei carichi di lavoro da assegnare ad ogni lavoratore, certamente più efficienti per misurare i risultati orientati alla produttività in ambienti assai avanzati tecnologicamente e nel lavoro agile. Un cambiamento tale che a quel punto ci farà superare la condizione di precarietà nel lavoro prodotta dai ritardi gravi, come quelli accumulati, proprio per averlo contrastato.
Chissà poi perché la battaglia senza quartiere non la si fa l’education orientata alle qualificazioni alte e medie per sostenere il cambiamento digitale applicato alle produzioni. Sappiamo che ormai non disponiamo di enormi quantità di qualificazioni occorrenti. Mancano più di centomila laureati itc, mancano un altrettanto numero di ingegneri, come quelli ad alta qualificazioni iscritti alle its, cosi tante altre medie qualificazioni adeguate alle tecnologie digitali. D’altronde gli italiani senza alcuna confidenza con il digitale sono 15 milioni, il 37% della popolazione. Ma se facciamo il confronto con la popolazione spagnola con il solo 12 %, comprendiamo di essere ultimi in Europa. Si può dire che il tempo straordinario di cambiamento del mondo, da noi viene vissuto male. Tant’è che assumiamo, in questi casi, comportamenti che sarebbero sconsigliabili anche nei tempi ordinari. Otterremmo una rivoluzione se il governo ponesse in cima al suo programma il riadeguamento del sistema dell’education in ogni ordine e grado della istruzione, formazione e percorsi universitari, riorientandoli alla visione dello sviluppo necessario. Ed anche coinvolgendo in una lunga e profonda discussione sulla istruzione e formazione, tutti gli steakholder, imprenditori e sindacati compresi. E poi spiegasse a tutti come stiamo usando i 60 miliardi stanziati dal PNRR per l’adeguamento tecnologico.
Sappiamo che dei 60 miliardi, 10% va destinato alla preparazione del nostro patrimonio umano, ma chissà cosa sta accadendo, datosi che il tema non è presente in alcun dibattito. Però si annunciano per la cosiddetta legge di bilancio 2025, come consuetudine, nuove decontribuzioni per aumentare l’occupazione soprattutto al sud, che tutti sanno non porterà occupazione, ed anzi sprecherà più di una decina di miliardi ai danni dell’equilibrio dei conti previdenziali, ma utili solo a dimostrare che il governo sta facendo qualcosa. Ma il Paese, e soprattutto il sud, aspettano un cambiamento che veda le forze politiche e sociali finirla con slogans e vecchie dispute sul nulla, osando di collaborare per scelte magari faticose, ma capaci di usare il motore Italia a pieni giri per garantire finalmente un futuro alla occupazione, ai salari ai tanti giovani del sud di preparare per fecondare il sistema produttivo e civile dei loro territori.

foto: Agenzia Fotogramma

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Digitalizzazione, Pnrr occasione irripetibile per recuperare i ritardi

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ROMA (ITALPRESS) – Per le persone, una buona educazione, cioè l’istruzione, la formazione universitaria e l’apprendimento permanente, è essenziale per la nostra vita lavorativa e civile. Essa è sinonimo di crescita personale, autonomia e indipendenza economica. Una persona così formata può raggiungere l’eguaglianza per i ceti meno abbienti, qualora si mettesse a frutto la fatica dello studio. Questa verità vale in qualsiasi tempo ordinario, ma soprattutto nel tempo che stiamo vivendo, influenzato da rapidissimi cambiamenti tecnologici che modificano profondamente il modo di pensare, lavorare e organizzare ogni aspetto della nostra esistenza. L’importanza di stare al passo con il cambiamento è oggi 100, 1000 volte maggiore.
Per questa ragione, Mario Draghi, incaricato dalla Commissione Europea, ha indicato come programmare la necessità di recuperare i gap competitivi con un piano di grande impatto su tutti i fattori di sviluppo.
Al momento, è bene ribadirlo in ogni occasione, stiamo perdendo terreno nella competizione internazionale dei mercati. Tale situazione, se non corretta, produrrà un arretramento economico con gravi conseguenze sull’occupazione, sui salari e sul welfare. Il possesso delle tecnologie è importante, ma senza una adeguata cultura digitale dei lavoratori di ogni età, degli imprenditori e dei cittadini tutti, ogni programmazione risulterà vana.
Per questo motivo, il PNRR ha previsto un piano ben dettagliato per la digitalizzazione. È un’occasione irripetibile per recuperare i ritardi nelle attrezzature e nella preparazione digitale del nostro patrimonio umano. Si tratta, giustamente, del secondo investimento per consistenza economica, con ben 40 miliardi di euro, di cui 6 miliardi destinati allo sviluppo della cultura digitale e professionalità degli italiani. Purtroppo, siamo gli ultimi cittadini europei per conoscenza dei rudimenti della cultura digitale, con il 37% che dichiara di non avere alcuna padronanza nel gestire anche le più semplici tecnologie digitali applicate agli elettrodomestici, ai mezzi di trasporto e alle app per l’accesso ai servizi pubblici e privati.
Gli spagnoli contano solo il 13% dei propri cittadini in questa difficoltà; i francesi il 21%. Dunque, 15 milioni di italiani così lontani dalla modernità vanno coinvolti nell’alfabetizzazione digitale, nel loro interesse e nell’interesse del Paese. Così come le nostre piccole attività commerciali, industriali e dei servizi, che denunciano che solo meno del 3% di loro è sufficientemente digitalizzato, a fronte della media europea che si attesta quasi all’8%.
L’altro nodo è quello della preparazione professionale dei lavoratori. Scarseggiano le lauree tecniche al punto che occorrerebbero ben 140 mila nuove lauree ITC, 80 mila nuovi partecipanti ai corsi ITS e qualche decina di migliaia in più di ingegneri informatici e specialisti nella sicurezza. La circostanza inquietante della mancanza di circa mezzo milione di alte specializzazioni che le imprese non trovano nel mercato del lavoro italiano, costrette a rivolgersi all’estero, fa ben comprendere la gravità del caso italiano.
Sarebbe allora necessario aprire una forte discussione su questo fronte, ben più delle discussioni inutili che da tempo distolgono l’attenzione dei cittadini. È necessario un grande progetto di coinvolgimento dell’opinione pubblica sulle urgenze e indicare gli step verificabili per raggiungere gli obiettivi. Dei piani della digitalizzazione del PNRR nessuno li conosce; neanche a che punto si trovano e quali sono gli stakeholder coinvolti. Università, sistema scolastico, soggetti pubblici e privati della formazione, imprese e sindacati dovrebbero essere i soggetti da coinvolgere per esercitare controllo e stimolo per le istituzioni e per cambiare anche se stessi. Non vedo altri modi di occuparsi di un tema così importante per il nostro futuro. Gli appelli all’occupazione e allo sviluppo saranno vuoti se poi tali progetti si affidano al caso e si sprecano, avvolti dalle nebbie dell’indifferenza, o peggio da pratiche non conducenti.

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L’ambientalismo va liberato dall’ideologia

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di Raffaele Bonanni

ROMA (ITALPRESS) – Negli ultimi decenni stiamo osservando l’emergere di fenomeni che ostacolano lo sviluppo economico sostenibile a livello globale. La disinformazione ambientale è in aumento, la sindrome del Nimby (Not In My Back Yard) causa danni alle comunità, e l’ambientalismo ideologico si oppone apertamente alla scienza, all’innovazione tecnologica e all’economia responsabile. Questi fenomeni condividono l’idea che la natura e l’uomo siano entità separate e diverse, accompagnata da una visione catastrofista del futuro. Papa Francesco, nella sua enciclica “Laudato si’”, esprime preoccupazione per questa visione: “Non c’è un’ecologia senza un’adeguata antropologia”. Ad esempio, all’interno del movimento Fridays for Future, che ha mobilitato molti giovani su temi ambientali, è nato nel Regno Unito il gruppo “Birth Strike”, che sostiene che smettere di avere figli sia una delle misure più efficaci per ridurre le emissioni di CO2. Un’idea simile si è diffusa negli Stati Uniti con il gruppo “Green Inclination No Kids”. Inoltre, una circolare del Ministero dell’Istruzione di qualche anno fa promuoveva una forma di biocentrismo, affermando che l’uomo è solo uno dei tanti organismi viventi e che la natura è ciò che conta.
È chiaro che la tutela della biodiversità e dell’ambiente può essere realizzata solo attraverso una relazione positiva e stretta tra l’uomo e la natura. Le attività legate alla produzione di energia, ai trasporti, alle industrie, all’agricoltura e alla gestione dei rifiuti devono migliorare e innovarsi, seguendo un modello economico sostenibile e responsabile, come l’economia circolare, e puntando sulla neutralità tecnologica per la decarbonizzazione dei sistemi economici. L’idea che l’ambiente debba rimanere intoccato è un errore. Se l’ambiente non fosse coltivato e curato dall’uomo, la Terra diventerebbe invivibile. È quindi necessaria un’azione positiva da parte dell’uomo e una visione culturale che eviti l’approccio ideologico dei Fridays for Future e dell’ambientalismo catastrofista o negazionista. Inoltre, è importante sottolineare che la sostenibilità non significa solo proteggere l’ambiente, ma anche garantire che le risorse naturali siano utilizzate in modo efficiente e responsabile.
Questo implica investire in tecnologie verdi, promuovere l’educazione ambientale e incoraggiare pratiche di consumo sostenibile. Solo attraverso un approccio integrato che consideri sia le esigenze dell’uomo che quelle della natura, possiamo sperare di costruire un futuro più sostenibile e prospero per tutti.

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