30 Righe di Raffaele Bonanni

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Blocco dei licenziamenti solo un analgesico senza le riforme

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Nell’ambito degli incontri degli Stati Generali, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha annunciato che che le aziende che già hanno esaurito per intero le 14 settimane di ammortizzatori sociali introdotti a causa della emergenza Covid con decreto dl di marzo e rifinanziato dal dl Rilancio, potranno fruire delle ulteriori 4 settimane, anche per i periodi antecedenti al primo settembre. Provvedimenti assolutamente indispensabili, che hanno dovuto fare fronte al lockdown che ha interessato il 70% delle aziende, soprattutto le piccole e le medie, che come si sa, generalmente rappresentano la più grande parte dell’apparato produttivo italiano, ma anche la porzione più debole dell’apparato industriale e dei servizi. Infatti queste aziende, insieme alle altre, hanno risentito della forte contrazione della domanda interna ed estera, ma che sono state costrette anche alla ristrutturazione difficile ed onerosa della riorganizzazione del lavoro aziendale, stravolta nelle modalità di impegno lavorativo e dalle distanze ritenute indispensabili per la sicurezza.

Dunque gran parte delle imprese italiane sono al momento, e lo saranno ancora per molto, messe fortemente alla prova dalla forte esposizione debitoria provocata dalla impossibilità di produrre e offrire prodotti, nel mentre dovranno riprepararsi ad un accentuato cambiamento nel modo di produrre che comporterà disporre di più ampi spazi aziendali, attrezzature nuove per la sicurezza, inevitabili rallentamenti dei tempi di lavorazioni, materie prime più costose in prospettiva. Ma se la situazione è questa, e tutto ciò che fa da contesto alle nostre produzioni dovessero rimanere così come sono, la cassa integrazione o il blocco dei licenziamenti che auspica il leader della Cgil Landini, diventeranno come un analgesico in un corpo in preda ad una metastasi cancerogena incalzante. Per questa ragione, il Governo, oltre a monitorare strettamente la esigenza di liquidità delle imprese e disporsi al soccorso più efficace per evitare l’irreparabile, deve concentrarsi sulle riforme che l’Europa chiede insistentemente all’Italia.

La presidente della Commissione Ursula Von Leyen, proprio sabato scorso, intervenendo al meeting di Roma, ha insistito sulla leva anticiclica delle opere pubbliche, su riduzioni di tasse per imprese e persone fisiche per vivacizzare il mercato interno e per provocare investimenti esteri e nazionali, sulla profonda riforma della giustizia, riduzione e riforma burocrazia, investimenti sul digitale, su istruzione e formazione, sulla economia verde, tassazione di vantaggio per i territori svantaggiati. Ecco proprio su questi punti programmatici il paese finalmente potrà svoltare; dunque su questi temi il governo dovrà concentrarsi. Chiunque abbia buon senso, dovrebbe sapere che le casse integrazioni ed il blocco dei licenziamenti, non potranno rappresentare che una prospettiva di brevissimo tempo: quanto basta a riprendere un cammino ad andatura veloce per riguadagnare quello che si è perso. L’occupazione, la solidità dell’apparato produttivo, la salute economica italiana, si gioca in tutt’altro modo: con il coraggio di mettersi alle spalle il comportamento di cicale ed adottare il comportamento delle formiche.

Raffaele Bonanni

Le riforme l’antidoto migliore alla ristrutturazione del debito

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L’Italia cammina sul filo del rasoio rischiando da tempo la propria sicurezza economica e sociale, incurante della salute della propria economia, vivendo al di fuori di regole e cognizioni che necessariamente un paese tradizionalmente presente nell’agone della competizione di mercato deve assolutamente considerare. Ma bisogna ammetterlo, sinora tutto va avanti come se nulla fosse. Nel paese si parla d’altro. Bastano poche informazioni false provenienti da piattaforme digitali occulte autoctone o straniere, e il depistaggio rispetto alla consapevolezza della condizione economica esplosiva in cui ci troviamo viene messa in second’ordine. Fa male constatarlo, ma questa situazione si trascina da molto tempo, e non viene corretta dalla politica, intenta com’è alla continua ricerca del consenso offrendo all’elettorato l’esatto contrario di quello che occorre. Tutti i fattori economici sono in rosso fuoco da molti anni, ed anziché curarli con politiche virtuose per crescere il reddito nazionale, sul fuoco, generalmente, si continua a buttare la benzina con sprechi dello Stato, delle Regioni, dei comuni, con relative baracche e burattini. Fatto sta che il rapporto debito pubblico/Pil ha raggiunto la punta record del 160%, mentre la produzione industriale si è progressivamente indebolita a causa di condizioni dei fattori di sistema in gran parte sottosopra, a partire da tasse incompatibili per un paese Impegnato nel regime di concorrenza internazionale, di costo per unità di prodotto al di fuori di ogni parametro di paese Ocse, di spesa pubblica pressoché piegata alla improduttività.

Insomma se l’Italia non avesse ancora un apparato industriale e di servizi importanti e fino a qualche tempo fa un avanzo primario positivo, ci avrebbero già da tempo imposto la ‘ristrutturazione’ del nostro debito. In questo momento però ci troviamo nell’occhio del ciclone: la pandemia ci ha indeboliti ancor più di come lo eravamo, ed in alcuni ambienti finanziari internazionali e cancellerie europee c’è la preoccupazione di un possibile terremoto italiano e delle sue ricadute sulle altre economie. Per questa ragione in più d’uno, sostiene la necessità di ristrutturare il drasticamente il debito italico, sancito magari da una conferenza internazionale, per arginare il più possibile le rovine che ne potrebbero derivare. Una soluzione del genere, seppur giustificabile sul piano della scuola economica, scatenerebbe, ad esempio una tempesta distruttrice del sistema bancario nazionale, il quale detiene nella propria pancia almeno 700 miliardi di titoli del debito. Dunque l’effetto che ne deriverebbe rischiererebbe di diventare l’equivalente di una cura molto potente, ma con effetti pericolosamente debilitanti sul corpo economico e produttivo italiano, già fortemente devastato, e peraltro senza avere la certezza di riuscire ad ottenere il risultato sperato. Ecco perché la migliore soluzione non può che essere quella di concorrere tutti a promuovere un nuovo clima culturale e morale, orientato a prendere coscienza collettiva della nostra condizione, utile a decidere efficaci politiche economiche virtuose di sviluppo.

Infatti senza riforme immediate la sorte d’Italia è segnata; basterà che nei prossimi giorni e mesi, le scelte siano orientate ancora una volta alle solite politiche stravaganti, e ci ritroveremo ben presto come è accaduto alla Grecia con l’obbligo della ristrutturazione del debito pubblico, con guai annessi e connessi. Arrivati a questo punto, se potenzialmente le condizioni del cambiamento di mentalità sono in atto, lo capiremo dal linguaggio e dalle indicazioni che si daranno già agli Stati Generali che il governo sta tenendo in questi giorni. In quel importante consesso, dove la classe dirigente si esprimerà sul da farsi, si capirà subito che clima avremo. Gli analisti economici e politici infatti lo capiranno se ci dovessero essere idee chiare su come qualificare la spesa pubblica, su quali settori si intenderà investire, se si dovesse annunciare che le tasse per gli investimenti potranno essere ridotti sensibilmente. Un vecchio adagio dice: “Il bel giorno si vede di mattina presto”. Gli Stati Generali che si tennero a Versailles nel 1789, voluti da Luigi XVI aveva il proposito di sanare la condizione di potenziale bancarotta in cui versava la Francia, ma mentre l’economista più autorevole dell’epoca il ginevrino Necker, reclutato dal “Capeto”, raccomandava di cessare gli sprechi e di ridurre le tasse, il re propugnava l’aumento delle tasse, rovinando ancor più il regno. Sappiamo come andò a finire. Gli Stati Generali italiani potrebbero spingere alcuni poteri economici forti internazionali a voler imporre la ristrutturazione del debito, oppure se si dovessero annunciare riforme concrete e chiare, a dare ancora fiducia nel “calabrone” Italia.

Raffaele Bonanni

Ponte sullo Stretto, l’eterno ritorno

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Alla domanda posta sulla fattibilità del ponte sullo Stretto, il presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte ha risposto con diplomazia, affermando che non ha pregiudizi e che ne discuterà in seguito, anche se le opere da fare in altre zone d’Italia sono altrettanto importanti. Ma la verità è che si è già scatenata la contrarietà al ponte a partire da Beppe Grillo, che qualcosa pur conterà nel MoVimento 5 Stelle. La questione della costruzione del ponte è stata riaperta giorni fa da Matteo Renzi, dopo che negli anni, ciclicamente, ogni volta che la questione è stata ripresentata, puntualmente si è visto costituire un “rassemblement” agguerrito di oppositori: ognuno con una motivazione diversa e che comunque ha portato l’opera fuori da ogni orbita di impegno governativo. Tra i contrari, alcuni hanno sentenziato che le opere necessarie per la Sicilia, la Calabria e il Sud sono altre, e che bisogna evitare sprechi. Ma nel Sud, isole comprese, non si investe da quando si è rimossa la Cassa del Mezzogiorno. Poi ci sono quelli che paventano le mani della mafia sulla eventuale costruzione, ma è la posizione più incredibile: equivale a dire che il meridione non dovrà esistere.

Poi ci sono i cinici, e bisogna ammettere che sono tra i più sfacciati: affermano che l’opera è tecnicamente non realizzabile e comunque rischiosa. Insomma per analizzare ogni faccia della avversione, richiederebbe tempo e potrebbe portare a conclusioni che forse è meglio non sviluppare qui, per non arrivare a conclusioni non facilmente dicibili. Penso che, passati tanti anni senza risultato, si può affermare senza timore alcuno che il tema è solo uno: quando c’è di mezzo un investimento al Sud, tutto congiura per non fare nulla. Insomma è una storia vecchia come il tempo passato dall’unita d’Italia ad oggi. Non è stato così per le ferrovie? E i porti? Poi possiamo citare le autostrade, gli acquedotti, gli elettrodotti, la banda larga, etc, etc, etc. Basti vedere nell’ultimo trentennio quante opere sono state realizzate a nord e a sud per capire che qualcosa non va. E intanto in qualsiasi altra parte del mondo le cose si fanno eccome! In condizioni normali, i popoli nella storia sono portati ad intraprendere grandi realizzazioni in ogni epoca. Venti anni fa si è potuto realizzare il più lungo ponte d’Europa che collega la capitale danese Copenaghen con la città svedese Malmoe; in Brasile si è collegata la terra ferma con l’isola di Florianopolis.

A Istanbul circa trenta anni fa si è edificato un grande ponte che ha collegato le due sponde turche dall’Asia all’Europa; il Golden Gate bridge di San Francisco ha unito le due punte della sua baia, per circa 3 km di ponte, solo per citare alcuni. Eppure la Sicilia ha un mercato di 5 milioni di abitanti ed è la porta del nord Africa; 2 milioni ne ha la Calabria e altri 10 milioni il Sud continentale, che potrebbe incrementare significativamente i propri flussi commerciali. Vorrei fare un esempio: Il ponte che collega Svezia e Danimarca interessa 15 milioni di persone. Ci vogliamo domandare del perché lì scatta la spinta del fattore economico e nello stretto italiano no? A questa domanda bisognerà pur dare risposta, soprattutto in questi particolari frangenti che stiamo vivendo. Si dice che questo è un tempo straordinario e che bisogna saper reagire cambiando le rotte infauste seguite nell’ultimo ventennio; allora si realizzi il Ponte sullo stretto che ci potrà riportare nel novero dei popoli che sanno osare. Lo si compia anche perché quell’area vasta del nostro paese ha bisogno di tornare nella logica dello sviluppo, ed è proprio quello che occorre per la economia nazionale che vede una distanza economica sempre più profonda tra nord e sud. Ma a pensarci bene, il solo fatto di sfidarci con una opera ardita, di per sé basta e avanza per dimostrare di essere ancora capaci di affrontare con fiducia il futuro che dipende proprio da noi.

(ITALPRESS).

Si riparla di flat tax, ed è subito polemica

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Si riparla di flat tax, ed è subito polemica. Appena due anni fa la Lega l’annuncio’ come suo impegno di governo, dopo che Forza Italia ne aveva fatta già una bandiera di partito; ma con il primo governo Conte, dei soldi di cui dispose (a debito), furono tutti impiegati per il reddito di cittadinanza e per quota 100. A distanza di tempo non si può certamente dire che quelle decisioni furono opportune per la economia, che intanto continua grandemente a zoppicare, nonostante quelle decisioni furono presentate agli italiani come iniziative fortemente espansive. In verita poi abbiamo avuto modo di constatare che di espansione si è ottenuto il raggiungimento record del rapporto Pil debito, arrivato pericolosamente al 160%. Bisogna ricordare che i molti che avevano creduto ad una svolta fiscale con la flat tax, ci rimasero male.
Ritennero che la tanto agognata riduzione fiscale fosse a portata di mano, percepita come imminente, anche per le notizie provenienti dal ‘nuovo mondo’, che grazie all’attivismo di Trump le tasse scesero rapidamente dal 25 al 17% per persone fisiche ed imprese: con l’intento di riportare le produzioni industriali negli States dopo decenni di delocalizzazioni in estremo oriente. Una politica economica che ha sensibilmente innalzato il numero degli occupati statunitensi, ritraslocando l’economia reale in patria, e che ha allargato i consumi nel mercato interno, a ragione di una conseguente disponibilità maggiore di reddito per lavoratori e ceti medi. Insomma gli USA, allora, hanno adottato la ricetta classica degli Stati, quando usano il volano della bassa tassazione, per far girare in più investimenti, che fanno introitare nelle casse più denari di quelli che teoricamente si perdono con la riduzione, perdipiu’ stimolando la domanda interna.

Una scossa che ora soprattutto farebbe un gran bene all’Italia che da decenni peggiora di anno in anno tra crescita della spesa pubblica improduttiva, perdita di produzioni e di spazi nei mercati internazionali per scarsa capacità competitiva, crescita del debito pubblico che richiede costantemente un aumento delle tasse, strangolando così ogni attività economica. Un circuito infernale che brucia progressivamente il nostro posizionamento nella economia internazionale. Dunque la flat tax intesa come riduzione di tasse per chi investe e per lavoratori e ceto medio per dare tono ai consumi e’ l’unica carta che ci è rimasta per un reset generale nel paese. Si dice che operazioni così condotte andrebbero contro i poveri, ma in verità i governi sinora non hanno voluto scomodare gli sterminati punti di spesa pubblica improduttiva, locali e centrali, che non possiamo più permetterci, pena la completa rovina in prospettiva. Certamente i poveri vanno aiutati senza se e senza ma, però spesso sono stati invocati dalla politica per mantenere lo status quo ! Stiamo attraversando un momento molto impegnativo e ci vuole coraggio. Proprio ora bisogna osare, muovendo ogni ingranaggio per lo sviluppo, partendo dalle tasse. Dunque flat tax non per questa categoria o quell’altra come si va sentendo dalle dichiarazioni stampa, ma chiaramente per famiglie ed imprese per rimettere in moto un motore spento, in verità già da molto tempo.
(ITALPRESS).

Aspettando con ansia una (vera) fase nuova

Nessuno può negare che i periodi infecondi per la cultura e le arti, per le grandi realizzazioni della tecnica, delle infrastrutture, della architettura, della economia, corrispondano ai tempi in cui l’uomo perde la cognizione di se stesso, della sua identità, della sua storia, del suo legame con il Creatore. Ad esempio, guardiamo con profondità e attenzione a questo ultimo ventennio italiano. Non sono state realizzate grandi opere infrastrutturali, e addirittura si sono trascurate persino quelle costruite in altre epoche nelle necessarie manutenzioni; non si è manifestato un sufficiente rinnovamento nelle numerose arti; le attività economiche e produttive sono indietreggiate a causa del difficoltoso ricambio delle leadership; le tradizioni ed i principi della nostra spiritualità, spina dorsale di ogni popolo, sono vacillanti e privi di sufficienti custodi coraggiosi ed ispirati; la democrazia è alimentata da tossiche contrapposizioni che trascendono i bisogni delle persone. Insomma, per ora, non abbiamo ancora segni che annunciano una fase (che aspettiamo con grande speranza) di ‘riinizio’ che come è sempre accaduto nella storia dell’uomo, si avvera quando ci si riconcilia con il Creatore. Quando questo avviene, l’uomo forte dello spirito che lo spinge verso il superamento del suo stato, supera ogni ostacolo, viene pervaso da una tale volontà ed intelligenza da ottenere l’ingegno da cui nascono quelle meravigliose realizzazioni che trasmettono alla ruota della storia l’energia per girare vorticosamente. In questi giorni mi sono trovato a rileggere l’avvincente storia riguardante la cupola del Brunelleschi del Duomo di Firenze, che proprio quest’anno commemora i sei secoli dall’inizio dei lavori di costruzione.

Ebbene quella cupola, per le conoscenze tecniche di quel tempo, non poteva stare fisicamente in piedi; ma Brunelleschi, ispirato fortemente dai primi segni di rinnovamento dello spirito di quel tempo, la realizzò edificando un’opera ancora non eguagliata per qualità architettoniche ed ingegneristiche, che nel passare dei secoli nessuno più ha osato sfidare. Ancora adesso i tecnici più ardimentosi del mondo che costruiscono opere analoghe tra le più moderne del mondo, si inchinano alle soluzioni trovate dal genio fiorentino che attraverso vari accorgimenti giunse a dare alla cupola un equilibrio fisico in modo che si reggesse esclusivamente con la sua stessa capacità ‘autoportante‘ del peso. Ebbene, a distanza di tanti secoli, viene ancora studiata per trovare spunti per le attuali moderne realizzazioni. La prodigiosa costruzione di Filippo Brunelleschi infatti, fu senza dubbio il primo più importante segno del risveglio culturale e morale italico, che culminò nel rinascimento italiano che ha ispirato ogni civiltà nel mondo impegnata alla esaltazione dell’ingegno umano.

Ma ritornando a noi, a questo infecondo tempo; quando potremo di nuovo scorgere i segni di una fase nuova della nostra storia che tanti di noi attendono con speranza? Penso che la ruota della nostra storia tornerà a girare quando avremo più coraggio, quando ci ispireremo alle nostre migliori tradizioni, quando sostituiremo il recriminare con la collaborazione e pace con gli altri, quando sapremo sostituire la paura con la speranza, quando abbandoneremo idolatria delle cose futili e invece riporremo pienamente fiducia nello spirito del Creatore. L’Italia, per rigenerarsi, avrà bisogno di ritrovare se stessa.

28 anni fa la morte di Falcone, ma sembra ieri

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Ormai si è arrivati alla ventottesima ricorrenza della morte di Giovanni Falcone, ma l’attentato sembra avvenuto ieri, tanto profondo resta quell’evento nella coscienza del paese con il dramma della sua morte. Ho conosciuto Falcone a Palermo già prima che diventasse noto, e poi l’ho frequentato ancora fino a quando fu trasferito, nel febbraio del 1991, presso il ministero della Giustizia, anno in cui anche io arrivai a Roma a dirigere il Sindacato nazionale dei lavoratori delle costruzioni. Un uomo che innovo’ immediatamente la iniziativa antimafia, non limitandosi a indagare sugli affari loschi e cupi della piovra Siciliana, ma che coraggiosamente e tenacemente, e per primo, indagò sulle piste criminali di oltreoceano, in collaborazione con i giudici americani, fin dove arrivavano i suoi tentacoli.
Dunque, non si limitò a perseguire i manovali della organizzazione criminale; gran parte della sua fruttuosa attività, fu rivolta a scoprire le piste più intricate che portavano ai piani alti: i ‘colletti bianchi’; quelli che comandavano davvero il traffico di droga e di armi.
Ormai era troppo esperto per non sapere che spesso era la stessa organizzazione criminale a scaricare i piccoli mafiosi ritenuti bruciati o traditori. La pista principale che uso per incastrare i mafiosi, era dunque quella del crimine di cosa nostra degli ‘States’, che riteneva il punto di vera triangolazione tra i produttori degli stupefacenti, la gestione del mercato illegale nordamericano e quello europeo, che i criminali siciliani sostenevano con approdi sotto il loro controllo della merce da distribuire per l’Europa. La sua pista per arrivare a stringere nella rete ‘cosa nostra’ fu una strategia all’epoca del tutto inusuale.
La sua cultura di operatore di giustizia, garante (nel senso più autentico) dello Stato di diritto, e la grande popolarità ed autorevolezza presto raggiunta, ben presto suscitò risentimenti di varia natura contro di lui. Infatti, era lontano da certa antimafia, troppo intrisa di speculazione politica. Infatti va ricordato che in più di un caso, con le sue analisi fatte in pubblico, sconfessò alcuni di quei teoremi confezionati ad arte per interessi oscuri o politici, che in qualche caso, più che colpire la mafia, colpivano anche servitori dello Stato, che hanno impiegato decenni per dimostrarsi innocenti. Ma proprio per la sua limpida azione autonoma di Giudice a tutto tondo, libero dalla politica e da ogni altro interesse, gli procurò delle amarezze ed attacchi diretti ed indiretti, le cui finalità tutt’ora non sono state ancora chiarite. Infatti accettò la proposta del Ministro di Giustizia dell’epoca Claudio Martelli, proprio perché, nonostante i suoi successi contro la mafia, fu palesemente ostacolato a dirigere la Procura della Repubblica di Palermo, città che amava tantissimo.
La sua opera, più passa il tempo, più splende come esempio di servitore dello Stato nella realtà della giustizia. Tant’è che ha dimostrato come un giudice può esercitare limpidamente l’autonomia in ossequio al principio costituzionale, come un magistrato si può impegnare rifuggendo le esposizioni mediatiche, come si può lottare la mafia con una opera di coordinazione intelligente tra polizie e giudici a livello internazionale.
(ITALPRESS).

Basterebbe poco per risvegliare l’Ue

È proprio vero che nei momenti di grandi difficoltà per i popoli possono succedere accadimenti impensabili in tempi ordinari. Appena giorni fa, alcuni, anche in Italia, paventavano conseguenze gravissime fino alla perdita di sovranità per chi avrebbe dovuto per necessità ottenere linee di credito. Altri ancora, soprattutto nei paesi del nord Europa, facevano sbarramento contro qualsiasi credito senza garanzia, nel timore di assumere obblighi finanziari per i paesi del sud Europa ritenuti ‘pigs’.

Ma ora ecco che avviene il colpo di scena provocato proprio dalla cancelliera Angela Merkel che in un incontro con il presidente francese Emmanuel Macron, è sembrato ai più attenti osservatori, di voler progettare l’emissione di bond europei comuni per ben 500 miliardi. Il piano sarebbe quello di distribuire le risorse ai paesi più colpiti dalla pandemia per sostenerli nel rilancio economico con risorse a fondo perduto per investire nei settori strategici, tesi a migliorare la capacità competitiva nei mercati internazionali nel digitale, nell’investimento di fonti energetiche pulite, nell’ambiente. Certamente un piano così importante avrà come oppositori gli olandesi, gli austriaci, i danesi e gli svedesi. Ma se la Germania si è decisa, salvo colpi di scena sempre da mettere in conto, le cose andranno bene.

Lo scenario più importante per questo eventuale varo di eurobond, risiede nella indispensabile premessa che ci sia in qualche modo uno strumento finanziario di bilancio che lo garantisca. Peraltro, il fondo perduto, premette che chi lo dispensa faccia davvero parte della medesima entità statale: che insomma abbia stessa appartenenza comunitaria, stessi diritti, stessi doveri, sia legato allo stesso destino economico e politico. Insomma, queste condizioni le può garantire esclusivamente chi mette in comune i propri proventi fiscali; in parte quando non interamente. Se gli eventi dovessero volgere in questa nuova dimensione, si innescherebbero nella politica italiana ed europea, elementi di cambiamento davvero notevoli. Un embrione di meccanismo comune fiscale, porrebbe le basi per un continente, il nostro, di configurarsi come una definitiva entità statuale. Si giungerebbe a capacità di assumere i connotati di vera entità Statuale con ricadute prodigiose sul ruolo europeo, che da soggetto pallido e inconsistente cambierebbe gli equilibri nel mondo. Si dirà che simili considerazioni sono velleitarie, ma a ben riflettere basterebbe ben poco per risvegliare il vecchio continente da un sonno privo di ambizioni, che dura dal dopoguerra ai giorni nostri.

E allora possiamo dire che proprio le incertezze sanitarie ed economiche che stiamo vivendo, senza le pressioni di Trump per disgregare l’Unione, senza l’interesse di Putin verso gli euroscettici, senza l’incalzare dei cinesi sulla economia, difficilmente troveremmo la forza d’animo per superare incrostazioni e piccoli interessi europei, assolutamente inadatti a vivere in un mondo come quello odierno.

Commercio, grandi problemi da saper gestire

Un grido di dolore e di allarme è stato rassegnato alla politica ed alla economia dalla Confcommercio, la confederazione degli imprenditori del terziario. Il presidente, Carluccio Sangalli, ha messo in guardia circa il rischio che sta correndo il paese, per la contrazione dei settori chiave dei servizi e del commercio, decisivi per la economia italiana. Ma racconta anche di una difficolta mai più conosciuta, almeno dal dopoguerra, da piccole, medie e grandi imprese del settore e dei loro lavoratori, che rischiano di dare forfait per i consumi scaraventati nel fondo più buio dalle conseguenze della pandemia. Il dato drammatico rassegnato da Confcommercio relativo al mese di aprile scorso riguardo l’arretramento di consumi ad aprile, è del 44,6% al confronto con i consumi dello stesso mese di aprile dell’anno scorso; dopo che sempre a marzo di quest’anno, all’inizio del lockdown, già si era registrato un improvviso calo del 30,01%. Sangalli chiede, come stanno ripetendo tutti i capi delle associazioni imprenditoriali, indennizzi più robusti e liquidità subito fruibili.

In effetti i settori del terziario già venivano da una forte debilitazione dei consumi interni a causa di una crisi economica come quella di dodici anni fa mai smaltita in Italia, appesantita da un aumento progressivo delle imposizioni fiscali dirette ed indirette in carico ai cittadini sempre più spinti a ridurre spese per le loro famiglie. Peraltro, generalmente nel settore terziario, la rivoluzione digitale applicata alle vendite, alla intermediazione, e ai servizi, aveva già indebolito fortemente le strutture saldissime commerciali ed economiche che eravamo abituati a conoscere.

Non è un caso che la tradizionale pressione dei commercianti sui governi, ha riguardato costantemente due interventi: la riduzione fiscale sulle aziende per reggere la concorrenza on line quando non la vendita molto diffusa in nero, la riduzione del carico fiscale per i cittadini per irrobustire i consumi interni, la tassazione delle grandi holding internazionali on line, che nei fatti accrescono a proiezione geometrica la sfera di influenza commerciale, forte del sostanziale vantaggio di non pagare tasse.

Dunque l’appello è accorato, per il rischio reale per centinaia di migliaia di piccoli operatori economici di non riuscire ne a procurarsi più un reddito, ne in questi tempi di pandemia e di contrazione dei volumi di affari, a poter provvedere agli impegni economici degli affitti, delle utenze, degli obblighi verso i dipendenti. Quindi un aiuto per potersi riavviare nelle attività, un aiuto concreto ed immediato, soprattutto per tutto il settore del tempo libero, che come si sa, sarà il settore che tornerà alla ‘semi normalità’ più tardi di altri, ma che comunque dovrà già prepararsi a volumi inferiori di guadagni per la contingentazione necessaria degli utenti per i servizi e a spazi ed attrezzature costose per la sicurezza. Dunque davvero grandi problemi da saper gestire per garantire a queste attività una rinnovata prosecuzione è una vitale stabilità da raggiungere.