Il Forum della Pubblica Amministrazione al Palazzo dei Congressi di Roma, è stato un produttivo confronto di opinioni sulla situazione non certo semplice della Pa italiana. In tale contesto, la discussione non poteva che giungere alle considerazioni che ormai fanno parte della preoccupazione d’obbligo in ogni ambiente culturale, socio-politico ed economico. Il cruccio principale su questi ambiti riguarderebbe almeno due aspetti: se sarà l’uomo in grado di dominare ancora la macchina, oppure se la macchina sarà tanto evoluta da dominare essa stessa l’uomo. L’altro dilemma, assai in voga, sarebbe quello della sicura disgrazia in cui incapperebbero i lavoratori perdendo il “posto” a causa dell’incontenibile pervasività dell’intelligenza artificiale. Ma si potrebbe affermare che sotto il sole non c’è nulla di nuovo. Ogni qual volta una grande invenzione si affaccia al balcone della nostra vita, subito c’è chi va a guardare solo il possibile risvolto negativo. Quando siamo al cospetto di ciò che non conosciamo, si fanno avanti grandi dubbi, subito amplificati da chi cerca consenso a buon mercato. Penso alla nota rivolta degli operai inglesi di fine ‘700. Essi distrussero i primi telai meccanici nelle fabbriche per evitare che si sostituissero a loro. Furono istigati da Ned Ludd, da cui derivò l’appellativo di movimento luddista. Dopo due secoli e più, il loro mantra risuona ancora, rinnovando l’ostilità verso lo sviluppo tecnologico nel lavoro. Ma al contrario di quell’epoca, l’avversione antimoderna non si esprime con propositi di distruzione delle macchine, ma con richieste di risarcimento dello Stato per chi correrebbe il rischio di perdere il lavoro. Infatti, il guru dell’IA Geoffrey Hinton, nella conferenza di Roma, ha proposto un reddito universale garantito per proteggere i lavoratori dall’impatto sull’organizzazione del lavoro dell’intelligenza artificiale, che sottrarrebbe al lavoro umano molto spazio per la produttività, che aumenterebbe fino a cinque volte in più. Insomma, di fronte al calcolo fatto in conferenza del surplus, nella sola pubblica amministrazione sarebbe di oltre 200 mila impiegati su circa 3 milioni di addetti. Stante a queste ipotesi, a detta di Hinton, lo Stato dovrebbe comunque garantire uno stipendio ai suoi dipendenti per supplire ad evenienze quali quelle succitate. Anch’io penso che in questi frangenti il potere pubblico debba in qualche modo intervenire, ma il sostegno da offrire ai lavoratori con i soldi dei contribuenti dovrebbe riguardare il loro aggiornamento professionale per cambiare la loro predisposizione alla rivoluzione in corso. Anzi, occorreva intervenire molto prima in tale modo. Diversamente, come già accaduto con il reddito di cittadinanza, l’aiuto con un mero salario di sopravvivenza deresponsabilizzerebbe i fruitori di assistenza, privandoli di una vita libera e dignitosa; ne soffrirebbero il mercato del lavoro, le aziende e i contribuenti. L’umanità, nella sua storia, ha affrontato mille volte i cambiamenti e ha compreso che per evitare il costo dell’inadeguatezza a gestire lavori nuovi con le vecchie modalità, è necessario prepararsi, studiare, applicarsi fino a giungere al dominio delle nuove tecnologie. Più è veloce l’acquisizione di nuove abilità professionali, più agevole è il passaggio dal vecchio lavoro al nuovo. Il mondo che abitiamo ha potuto progredire sempre in tale modo, nonostante i dubbi e i freni degli onnipresenti antimoderni sempre in agguato.
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Ia e mondo del lavoro, rischi e opportunità
Servono nuove regole nel rapporto tra politica e affari
Le crescenti campagne di denuncia di singoli fatti incresciosi di casi di corruzione o ritenuti tali, raramente portano alla luce i presupposti su cui fondano le loro dinamiche. Pare che l’unico aspetto che interessa sia quello di screditare l’avversario politico, anche se il giorno successivo gli stessi fatti possono accadere nel proprio campo. Ma intanto continua il gioco pericoloso che scredita politica e istituzioni, ma non a riparare le maglie larghe da riparare affinchè finiscano i comportamenti sleali verso la comunità. A ben vedere l’area economica in questione è pericolosamente estesa e riguarda per volume parte della spesa pubblica e privata italiana. Ad esempio, gli appalti pubblici nelle sue variegate forme, con l’anomalia di decine di migliaia di minuscole stazioni appaltanti (unico caso nel mondo), che però possono affidare quatti quatti a professionisti privati collegati a imprese, progettazioni e controlli sulle stesse opere commissionate, in assenza di proprio ufficio pubblico di progettazione e di direzione delle opere.
Come gli affidamenti degli Enti locali alle cosiddette multiservizi e l’area vastissima delle concessioni grandi e piccoli che vanno dalle autostrade ai camposanti. Anche le convenzioni e autorizzazioni nell’ambito della sanità, dei trasporti e di tanti altri settori economici, come le autorizzazioni delle costruzioni abitative dei Comuni, e quelle commerciali piccole e grandi. Dunque tutti questi ambiti, e di tanti altri che rientrano nella sfera delle autonomie locali, necessitano di profonde riforme rivolte alla efficienza tecnica e operativa raggiungibile alla condizione di economie di scala di ridisegno degli assetti amministrativi. Deteniamo il pessimo primato di un groviglio di entità decisionali istituzionali che non hanno pari per numero e poteri non confrontabili con i grandi paesi federali 20-30 volte più estesi e più popolosi dell’Italia. Ma oltre alla revisione dell’assetto istituzionale e tecnico operativo degli enti pubblici, occorrerebbe regolare il rapporto tra politica e affari. Non giova a nessun leader politico che si possano finanziare le campagne elettorali per amministratori locali o nazionali dalle imprese impegnate in lavori decisi dalle amministrazioni pubbliche. Ne vale la loro autorevolezza e onorabilità rispetto alla opinione pubblica. Occorre che si concludano definitivamente le campagne scandalistiche utili solo a occasionali disfide nel sistema politico per contendersi il potere. Se possono essere utili agli scontri tra parti, sicuramente compromettono ogni credibilità delle istituzioni in assenza di soluzioni definite e convergenti. Insomma bisogna fare presto a dismettere la musica suonata senza spartito, eseguita a orecchio senza senso, irrispettosa dei cittadini. Ma in questa storia, è difficile negarlo, ritroviamo i mali che sempre più spesso attaccano gli interessi dei lavoratori. Oltre alla corruzione, ai colpi inferti al sistema della concorrenza tra imprese, alla infezione inoculata nei centri nevralgici della pubblica amministrazione, ritroviamo la spiegazione del perché, nell’area economica governata da decisioni politiche, la sicurezza i bassi salari sono all’ordine del giorno. La ragione è semplice: se oltre i conti economici del guadagno d’impresa, del costo dei materiali da impiegare e delle maestranze, si aggiungono anche quelli di chi vuol farsi pagare le frequenti campagne elettorali per l’elezioni che interessano il rinnovo delle rappresentanze elettive dei troppo numerosi livelli istituzionali, a pagarne le spese sarà meno sicurezza del lavoro, minore salario, minore qualità della produzione dell’impresa.
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Lavoro, l’ideologia non ha imparato la lezione
di Raffaele Bonanni
ROMA (ITALPRESS) – Nel mondo sta accadendo di tutto, ma mezza politica italiana si dedica prioritariamente alla soppressione del Jobs Act che peraltro lei stessa ha ideato dieci anni fa per modernizzare il lavoro italiano, già allora in forte ritardo di allineamento rispetto agli altri paesi OCSE. Qualche mese fa la stessa agitazione politica aveva riguardato la fallimentare questione del salario minimo. Sembrava fosse la soluzione ad ogni problema dell’Italia e dei suoi cittadini, e così si diffusero molti dati improbabili per comprovare le proprie tesi e clamori scatenati da taluni casi ristretti che avrebbero dovuto rappresentare soluzioni da applicare per tutti. Tali iniziative politiche però segnalano la inadeguatezza della classe dirigente ad affrontare tempi nuovi e diversi da quelli vissuti nel passato anche prossimo. Molti sono gli errori madornali che tali approcci indicano nel farli diventare prioritari nel confronto politico. Utilizzando addirittura l’istituto referendario, come per il caso della richiesta di abrogazione del Jobs Act.
O come si è fatto con la richiesta di una legge, persino in contrasto con le direttive UE, come per il caso del cosiddetto salario minimo. Un errore è quello di voler riportare indietro le lancette della storia. Infatti facendo così si mette la testa nella sabbia per non vedere le nuove dinamiche di produzione per raggiungere la efficienza necessaria per la competitività nella conquista dei mercati dei prodotti. L’illusione che si alimenta riguarda la falsità disastrosa che i temi del reddito dei lavoratori e della economia del Paese non dipenda dal riposizionamento generale dei fattori che hanno influenza sulla capacità di ben posizionarsi nell’agone della divisione internazionale del lavoro, ma essenzialmente dalle leggi che si varano o no nel Parlamento. Il clima di frustrazione che deriva dai fallimenti gravi che provengono dalla inapplicabilità di questi approcci economici costituisce una delle ragioni delle gonfie vele del populismo. Deriva proprio dal deragliamento di tragitto su cui insiste gran parte della politica nella sua caparbia volontà di rimanere nel posizionamento ideologico già sconfitto nel passato.
Eppure le parole di Draghi pronunciate per conto della Commissione europea qualche settimana fa a Bruxelles per fare il punto sulle sfide necessarie per il continente erano tutte concentrate sul raggiungimento della competitività in ogni settore riguardante lo sviluppo dell’Europa. Parole orientate alla competitività europea e dunque ad esplorare le nuove frontiere della prospettiva di costruzione di una compiuta istituzione politica continentale, all’education, della finanza, alla ricerca applicata alle produzioni, alla transizione alle fonti fossili a quelle rinnovabili per la conquista della indipendenza energetica. E allora ci si chieda con onestà se il cambiamento che richiede la realtà complessa mondiale, delle guerre dichiarate o non dallo schieramento sempre più evidente costituito da paesi autocratici, possa farsi con il ritorno al passato o attraverso forzature misere orientate ad alleanze improbabili.
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Sull’energia del futuro l’Italia deve cambiare davvero rotta
di Raffaele Bonanni
Nei giorni scorsi presso la reggia di Venaria si è svolto l’incontro sui temi ambientali ed energetici con la partecipazione dei rappresentanti dei paesi del G7, ma anche di delegazioni della Commissione Europea e di alcuni Paesi esterni. Si è trattato della prima occasione per i Paesi delle sette economie più forti del mondo di sedersi allo stesso tavolo per discutere su quali debbano essere le prossime mosse da mettere in atto per promuovere nuove politiche ambientali ed energetiche. Il punto cruciale è stato come accelerare il processo di decarbonizzazione nei vari settori economici, pur dovendo soddisfare la crescente domanda elettrica domestica e quelle delle produzioni che ne hanno accresciuto l’esigenza a causa del boom delle nuove tecnologie digitali, rese ancora più pervasive in ogni attività umana dal mercato dell’intelligenza artificiale. Dopo serrati dibattiti e approfondimenti scientifici, i rappresentanti delle economie più avanzate del pianeta hanno sottoscritto una dichiarazione finale comune. L’orientamento adottato ha rivolto l’interesse al raggiungimento del “phase out” dell’utilizzo energetico del carbone (ad eccezione di quelle infrastrutture dotate di sistemi di cattura della CO2) entro il 2030. Entro il 2040, in tutte le altre regioni, in via di sviluppo, si è considerata la programmazione dell’aumento considerevole della produzione elettrica da fonti rinnovabili con relativa capacità degli accumuli, la promozione di iniziative di ricerca e di sviluppo sull’utilizzo dell’energia nucleare, comprese quelle da fusione. Insomma, si vuole cogliere il risultato della riduzione del 75% delle emissioni globali, rendendo progressivamente superfluo l’utilizzo delle fonti fossili reso necessario dai ritardi della tabella di marcia per risolvere i nodi ambientali, così come provvedere a uscire definitivamente dalla dipendenza del gas con le implicazioni di ordine economico e della sicurezza. La guerra ibrida del gas freddamente mossa per assoggettare gli europei, alimentare inflazione e scombussolare le economie dei Paesi europei, spingono verso scelte più razionali e cooperative per un piano rivolto alla ricerca per la produzione delle tecnologie del fotovoltaico ed eolico, investimenti nel nucleare quale energia stabile per sostituire il gas ed altre energie fossili. Il G7 ha dedicato attenzione anche alla drammatica crisi idrica globale e al rafforzamento del modello di economia circolare, fondamentale per ridurre la pressione sulle risorse primarie. Dunque dalla reale azione futura su questi propositi, si giocano le partite più importanti per l’ecologia, ma anche della solidità economica e sicurezza del mondo libero. Troppi sono i segnali di un assedio dalle varie connotazioni alle nostre comunità nazionali, programmato da parte di alcuni Paesi produttori di energie fossili e la risposta non potrà mancare. Soprattutto l’Italia dovrà rivedere molti comportamenti autolesionisti. Ad esempio cancellare l’errore grave della dismissione della energia nucleare. Unici tra i Paesi industriali a dismetterla, ci siamo esposti alla perdita di competitività, al rialzo esorbitante dei costi del gas, dell’inflazione, della sicurezza nazionale. L’esperienza fatta si spera ci spinga stavolta a cambiare davvero rotta.
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Primo Maggio, serve un patto per il Paese
di Raffaele Bonanni
ROMA (ITALPRESS) – Si celebra il primo Maggio, e l’Ocse rassegna ancora dati incoraggianti per l’Italia. Gli occupati aumentano, così anche il tasso di attività ormai molto simile alla media europea. Aumentano ancora i contratti a tempo indeterminato, anche se i giovani che né studiano né lavorano sono ancora molti nel Sud, come il dato di coinvolgimento delle donne nel mercato del lavoro è ancora scarso. Anche il lavoro nero nel Sud resta a livelli allarmanti con salari bassi, zero contibuzioni sociali e livelli di concorrenza tra imprese compromessi. Una situazione penosa che toglie ossigeno all’Italia e che occorre cambiare. Il governo ha incontrato i sindacati per annunciare alcuni provvedimenti per il lavoro dipendente ed imprese che possono ancor più migliorare le cose: un bonus tredicesima di un centinaio di euro che si incasserebbe a gennaio per chi non supera i 28 mila euro ed ha almeno coniuge ed un figlio a carico; si confermerebbero dopo qualche incertezza tasse al 5% per le somme percepite fino a 3 mila euro per l’incremento della produttività; benefici fiscali e contributivi per le imprese che assumono giovani donne con contratti a tempo indeterminato, che nel periodo precedente hanno incrementato assunzioni; aumenti importanti di badget per i fondi di coesione e penalizzazioni per coloro che non li utilizzano o li usano male.
Nel giudicare questi provvedimenti con il metro usato con quelli fatti da altri governi, si potrebbe dire che sono persino più definiti. Ma il tema è quello di concepire un qualcosa che susciti la cooperazione di tutti per un piano che rilanci il paese in una visione di insieme sulle tasse, sullo sviluppo che si vuole ottenere, sui rami da tagliare, sulla education che ci serve, sulla necessaria pacificazione nel Paese. Per questa ragione i sindacati e le imprese, insieme, devono offrire una proposta all’altezza delle sfide di questa epoca. Dovrà essere una proposta non per promuovere divisioni ma per unire i migliori che sono presenti in ogni forza politica. Questo è quello che serve al Paese ed il Primo Maggio si spera sia all’altezza di tali ambizioni e valori per il mondo del lavoro e per gli italiani.
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25 Aprile, in molte piazze si è riaffermata l’intolleranza
ROMA (ITALPRESS) – E’ stata significativa la dichiarazione esaustiva e chiara della Presidente del Consiglio fatta in occasione della commemorazione della festa della Liberazione all’Altare della Patria. Alla presenza del Capo dello Stato Sergio Mattarella, Giorgia Meloni ha ricordato che con la fine del fascismo si è riaffermata la Democrazia. Poi ha precisato di essere contro tutti i regimi autoritari: quelli di ieri e quelli di oggi. In Europa e nel mondo, ha ribadito, intendiamo avversarli con coraggioso impegno. Ha concluso dicendo che
difenderà la democrazia per un’Italia finalmente capace di unirsi sul valore della libertà. Si può dire che le parole pronunciate sono dense di significato sia per il passato che per il presente e si prestano a molti interrogativi ai quali dobbiamo saper dare risposte immediate. Però mentre Meloni si pronunciava per una libertà che richiede unità, in molte piazze, come negli anni scorsi, si è riaffermata l’intolleranza, e così si è tradito clamorosamente lo spirito essenziale della resistenza al nazifascismo.
L’Unità di popolo è stato elemento costitutivo per la lotta contro gli oppressori, senza di essa non ci saremmo riscattati dalle colpe passate. Non avremmo neanche potuto gettare le basi per la nuova Italia Democratica con la nostra Costituzione che ha continuato a unire tutti coloro che amavano la libertà al prezzo delle torture, della vita. L’amore per la libertà spinse alla guerra partigiana persone di ogni filosofia politica che come unica demarcazione per la collaborazione, vedevano l’adesione piena alla costruzione dell’Italia Democratica. Dunque monarchici, repubblicani, democristiani e socialisti comunisti e liberali vollero collaborare nell’interesse principale di valori democratici che garantiscono la libertà. Come è possibile che nelle commemorazioni del 25 aprile ci si possa appropriare impunemente di una gloriosa storia che non appartiene a nessuna fazione politica ma a tutti i democratici di allora e di oggi?
Come è possibile che si possano discriminare le associazioni ebraiche le cui infamie subite in quegli anni terribili convinsero molti italiani della necessità di abbattere il fascismo con la lotta armata? I nuovi fascismi nel mondo di oggi hanno il solito volto delle dittature del ‘900. Essi in ogni continente ed in ogni epoca hanno torturato, imprigionato, ucciso i democratici, per privare le persone del bene più prezioso: la libertà di unirsi in associazioni, per far vivere l’idea che ogni persona è uguale all’altro di fronte alla legge, che attraverso il proprio lavoro si conquista la propria autonomia e personalità. Queste gravi situazioni sono ancora oggi presenti in vari luoghi del mondo e questo ci chiama a reagire in nome dei diritti naturali delle persone. Questa convinzione ci fa progredire, ed invece le oscure lusinghe, i tradimenti dei collaborazionisti, i ricatti della diabolica disinformazione degli infiltrati nelle nostre Democrazie, nascondono le stesse insidie che nel 900 hanno condotto l’Europa nel baratro. Tali fatti si potranno di nuovo riprodurre per la fine delle Democrazie e dunque delle nostre libertà individuali e collettive.
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Ue, la ricetta di Draghi per uscire dalle illusioni
di Raffaele Bonanni
ROMA (ITALPRESS) – Mario Draghi ritorna a indicare soluzioni avanzate con la sua consueta capacità leggere il mondo com’è e come dovrà essere in futuro. Lo fa in Belgio delineando la filosofia di fondo del report sulla competitività che gli è stato richiesto dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen. Ha illustrato senza veli i punti di debolezza dell’Europa e le possibilità di ottenere soluzioni, in una visione di insieme finora raramente affrontata con coraggio e franchezza. In questa occasione si è potuta constatare la sua autorevolezza e chiara conoscenza dei presupposti economici e di potere mondiali. Ha sciorinato quesiti a cui dare seguito, e immediate soluzioni per correggere il più possibile i nodi aggrovigliati nel tempo che deprimono l’Europa. Una visione di insieme che collega la coesione sociale alla capacità di governare realtà complesse. La sua indicazione ha riguardato l’assoluta priorità di regolare ogni fattore economico in chiave unitaria europea, per affrontare le dinamiche e sfide che provengono da nuovi ed antichi grandi paesi protagonisti nella attuale economia mondiale.
Le priorità sottolineate hanno riguardato l’autonomia energetica pulita e rinnovabile nella sicurezza e per ridurre i costi per la competitività, quella delle componenti per le nuove tecnologie in una economia di scala, come quella della ricerca, degli investimenti a sostegno delle politiche industriali su larga scala, quella della finanza continentale. Queste politiche sono necessarie per difenderci dalle strategie industriali cinesi che tendono a fagocitare gli interessi europei, e anche dal protezionismo statunitense. Insomma, l’Europa deve cambiare radicalmente per saper dominare i grandi cambiamenti in atto. Dovrà imporsi grandi discontinuità rispetto al passato se vuole davvero assolvere al compito di proteggere i suoi interessi e la sua indipendenza futura. Draghi ha insistito sulla necessità di affrontare le attuali turbolenze in vari scacchieri geopolitici assai prossimi all’Europa, con il consolidamento della UE nella sua naturale vocazione di Istituzione continentale federale, con una propria diplomazia, un unico esercito per la difesa, un proprio bilancio.
E infatti la cultura sociale europea, unica nel mondo, con la considerazione della persona come centro nella comunità con le proprie libertà civili individuali e collettive, vanno salvaguardate in un mondo con Stati autocratici sempre più aggressivi. Ormai sfidano le democrazie promuovendo destabilizzazioni nei paesi liberi, guerre ibride e guerreggiate. Dunque non si può che sperare in una veloce e concreta evoluzione di questo pensiero per realizzare un’Europa forte. E’ questo il modo vero di costruire la pace. Non si costruisce la convivenza tra i popoli non considerando la forte diversità esistente tra paesi liberi e paesi sottomessi ad autocrati. Quelli liberi hanno una pubblica opinione che oltre al voto influenza giornalmente il potere politico ed economico. Si esprimono liberi dallo Stato nel regime di concorrenza. In quegli altri paesi lo Stato è controllato interamente dall’autocrate. Lo Stato domina l’economia e l’apparato militare, ed ogni atto che compie insegue la logica del dominio interno ed esterno. Dunque la convivenza e la pace vanno costruite considerando tali aspetti, se non si vuole involontariamente incitare a tentazioni di infiltraggio nei nostri gangli vitali economici, provocati anche dalle nostre debolezze e ingenuità. Per queste ragioni le tesi di Draghi sono preziose e utili per svegliarci dalle illusioni e saper abitare nel mondo odierno, che ha bisogno di una istituzione continentale all’altezza della nostra civiltà, che possa offrire ai popoli europei un futuro di libertà e prosperità.
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Serve un nuovo approccio per la sicurezza sul lavoro
ROMA (ITALPRESS) – Il problema degli infortuni mortali sembra non avere sosta, testimoniando l’esistenza di nodi mai sciolti. Serve quindi cautela e sobrietà nel giudizio, collaborazione tra tutti i soggetti per ottenere miglioramenti nella sicurezza attraverso un piano emergenziale ben pensato che responsabilizzi ciascuno. La soluzione di un male così decisivo per l’incolumità delle persone, dovrebbe poter disporre di un campo sgombro dalle contese politiche e sociali. Tale requisito avrebbe valore assai confortante per i cittadini, un prerequisito essenziale per un contrasto davvero efficace da contrapporre alla deresponsabilizzazione. Assicurerebbe una svolta culturale tanto necessaria per cambiare il Paese e restringere il campo di azione per demagoghi e furbi, che sempre si nascondono dietro i polveroni per coprire fini diversi da quelli necessari. Un modo anche per smascherare chi è impegnato a depistare con proposte roboanti l’opinione pubblica, pur di non mettere in gioco l’interesse a conservare l’attuale situazione. Se notiamo bene quando accadono incidenti mortali, la discussione si dirige puntualmente sull’inasprimento delle pene sulle aziende dei lavoratori malcapitati e sui controlli, con sempre un numero maggiore di ispettori del lavoro. Ma credo che non sia questa la strada da prendere per ottenere sicuri cambiamenti. Il tema è quello di occuparsi in primo luogo delle cause da cui originano i fenomeni che, quando non risolti a monte, producono danni irreparabili. Infatti le ispezioni, se possono essere molto efficaci in ambiti dove le trasgressioni sono arginate a monte, non possono garantire risultati in un ampia situazione sregolata. I rischi, lo sappiamo, sono sempre dietro l’angolo, e talvolta possono svilupparsi anche in luoghi di lavoro ben protetti con organizzazioni del lavoro impostate per movimenti ripetitivi. Tuttavia le cautele devono sempre presenti e abbondare con la cultura della sicurezza ben sostenuta da formazione continua e strumentazioni appositamente allestite, che anche le tecnologie digitali possono offrirci. Questo comportamento dovrà moltiplicarsi per cento in ambiti dove i movimenti nel lavoro non sono ripetitivi e i rischi in conseguenza elevatissimi. In questi casi la necessità di accertarsi a monte della idoneità d’imprese e lavoratori a operare in tali ambiti è un pre-requisito essenziale. Ecco perché urge la revisione, prima di ogni cosa dei sistemi di accreditamento per appaltatori e sub appaltatori. Le attuali autorizzazioni necessarie per partecipare ai lavori pubblici e privati, vanno modificate in ragione delle innumerevoli garanzie che devono fornire. A partire da lavoratori ben preparati alla sicurezza, il possesso di reputazione e sperimentate capacità di gestione di tutti i lavori per cui si è accreditati eserciti nella produzione senza soste e dalla disponibilità di attrezzature moderne ed efficienti. Esse oggi non corrispondono in larga parte alla reale condizione tecnico operativa di tantissime imprese in campo. Inoltre occorre rendere pubbliche, ma davvero pubbliche, le informazioni riguardo ai capitolati di appalti utili alle gare e l’andamento dei lavori. Anche l’Inail dovrà cambiare pelle e rafforzare la sua capacità di sostegno alla formazione e alla individuazione e sperimentazione di nuove strumentazioni digitali, che possono rilevare errori di movimento rischiosi nel lavoro.
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