ROMA (ITALPRESS) – Ed ecco di nuovo il tentativo referendario di tornare indietro sulle riforme del lavoro. Una storia infinita contro la modernizzazione del mercato del lavoro che si ricollega a quella che definì il libro bianco di Marco Biagi per i diritti dei lavoratori, “libro limaccioso”. Poi sappiamo come andò a finire con il martirio del professore di Modena. Successivamente, e comunque senza dare alcuna tregua alle riforme del decreto Biagi, è iniziato il tiro al bersaglio sul Jobs act; dal suo varo di 10 anni fa e fino ad oggi. La tesi a sostegno della ripulsa verso le riforme è sempre la stessa: le riforme procurano danno ed impoverimento dei lavoratori. Questa è la costante di una pressione che non tiene affatto conto della non secondaria circostanza, che le norme precedenti erano disegnate da contratti collettivi e leggi su una organizzazione del lavoro delle produzioni che non esiste più.
Quello era un altro mondo rispetto a quello odierno: era costituito prevalentemente da migliaia di lavoratori per unità produttiva, con un orizzonte di mercato sostanzialmente nazionale. Ora Landini ci ritenta con la raccolta di firme per la promozione del Referendum contro il jobs act, con quattro quesiti da abrogare: 2 sui licenziamenti; uno sulle causali dei contratti a termine; uno su appalti ed infortuni. Lo sciopero annunciato pomposamente generale, promosso solo da CGIL e UIL, dagli annunci fatti, vuole sottolineare la decisa denuncia contro la precarietà con il corredo di un approfondimento statistico sul fenomeno in continuità già con altre fatte nel tempo. Questi dati denunciano che molto oltre la metà dei lavoratori italiani sono precari; che l’anno scorso le assunzioni a tempo indeterminato sono al di sotto il 20%. Tesi assai azzardate per il semplice fatto che si sommano nel conteggio il rapporto iniziale a carattere temporaneo e non quelli che successivamente vengono trasformati a tempo indeterminato. Come si sa le assunzioni inizialmente si operano in grande parte a tempo determinato sostanzialmente per saggiare le attitudini degli assunti prima di stabilizzarli a tempo indeterminato. Comunque, pur esistendo situazioni inaccettabili soprattutto in aziende che hanno difficoltà con i mercati o che per attitudine maltrattano chi lavora, il dato dei lavoratori a tempo indeterminato, dunque stabili, in Italia è l’83%, percentuale di stabili che non si discosta da quello francese e tedesco. Dunque situazione molto diversa da quella che si descrive pur essendoci ancora una realtà che ha bisogno di attenzione. Ed allora a che serve questo allarmismo se non a fuorviare la pubblica opinione ed a ritardare politiche virtuose tanto necessarie per far fronte alla competitività delle produzioni italiane nei mercati.
Per dare prospettive alla nostra economia e dunque al lavoro, a coloro davvero in difficoltà, occorrerebbe una rivoluzione nella education, nella energia, nella concorrenza, nella riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni, nei salari da aumentare partecipando alla redistribuzione della ricchezza prodotta con premi di produttività e partecipazione ai maggiori utili delle aziende. La battaglia giusta da prendere è questa, diversamente guardando indietro, anziché essere nella schiera di chi risolve problemi, si è in quella che li procura.
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Tiro al bersaglio sul Jobs Act tra tentativi referendari e sciopero
La rotta economica da cambiare per evitare il declino
ROMA (ITALPRESS) – I nuovi dati statistici economici ci ricordano di un debito pubblico esorbitante mai ridotto, di perdita di competitività che perdura e dunque di perdita di peso nel mercato internazionale per le nostre aziende. L’incremento ininterrotto di debito pubblico come soluzione per la governabilità, bassa competitività e perdita di spazi nei mercati internazionali, sono i classici punti di debolezza della rovina di una nazione. Queste congiunture economiche, quando non si affrontano con decisione e permangono a marcire nella loro difficoltà, riducono i salari, le prestazioni sociali e il reddito nazionale per provvedere ad ogni incombenza pubblica. Questi mali, se non estirpati, ne procurano altri pericolosi. Ad esempio: i salari bassi riducono i consumi; posti di lavoro e aziende si distruggono; le tasse aumentano per supplire alla penuria delle entrate; gli investimenti pubblici subiscono cali; il Welfare rimpicciolisce; i poveri diventano più poveri, e chi non lo era lo diventa anch’esso. Ma allora perché si rifiuta una visione ragionevole di questi temi? Se finora la competizione politica si fa a chi offre più doni, alla lunga i cittadini capiscono che a pagarli sono proprio loro.
Alla fine non possono che valutare non responsabili tali soggetti, e trarne conclusioni negative. Con le continue altalene di forze politiche: salgono nei consensi e con la medesima rapidità poi crollano. Allora le stesse forze politiche farebbero bene a cambiare la rotta economica, così come alcune forze sociali. Ad esempio Landini ha annunciato un altro referendum contro le poche riforme del lavoro fatte, che hanno dovuto allinearci alle esigenze della organizzazione moderna del lavoro stesso. Insomma si vogliono incolpare le riforme per i bassi salari e la precarietà, che invece dipendono da scarsa cultura riformatrice e disattenzione sui pilastri della economia, dalle politiche assistenzialistiche, dagli sprechi. Un esempio per tutti: la scellerata iniziativa referendaria di anni fa per la chiusura delle centrali nucleari, che ci ha condotto ad alti costi energetici per aziende che hanno perso competitività, e famiglie ridotte sul lastrico anche da speculazione ed inflazione. Altro aspetto che dovrebbe essere analizzato con logica diversa è l’esperienza del reddito di cittadinanza, costato finora 50 miliardi di euro. Non è stato un mezzo per condurre al lavoro né per professionalizzarsi. I cinesi ad esempio, per diventare leader nel fotovoltaico hanno investito una cifra equivalente in ricerca, formazione e organizzazione dei processi produttivi.
Il risultato finale ha portato molte centinaia di migliaia di posti di lavoro in più, entrate maggiori allo Stato, più investimenti pubblici. E allora se guardassimo con occhi nuovi le dinamiche socio-economiche ci renderemmo conto del motivo del nostro declino. Ecco perché preghiamo per la conversione di Landini. Per i lavoratori e il lavoro italiano, potrebbe cancellare il referendum contro le riforme, sostituendolo con il referendum per ripristinare integralmente il nucleare.
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Gli Stati Uniti d’Europa migliore risposta alle autocrazie
di Raffaele Bonanni
ROMA (ITALPRESS) – Bisogna conoscere bene la storia dei dittatori russi che hanno sempre oppresso il loro popolo ed i popoli con loro confinanti. La disinformazione è la specialità dei “servizi” russi. Ben consci della permeabilità della pubblica libera opinione dei paesi democratici, mettono in campo ogni modalità utile a screditare le istituzioni dei paesi sotto la loro mira. Corrompono per ottenere informazioni sensibili, muovono loschi giochi intorno ai media, assoldano hacker per mettere fuori uso i sistemi informatici, finanziano partiti politici, allestiscono piattaforme digitali inquinando i social. Ad esempio durante la pandemia, profili falsi social accreditavano l’esistenza di complotti sulla propagazione del virus e sulla letalità dei vaccini. Queste campagne disinformative furono lanciate per soffiare sul fuoco no vax. La commissione interparlamentare discusse e accertò l’esistenza dell’offensiva partita da piattaforme digitali in larga parte ubicate nel territorio russo. Dunque una guerra, un conflitto mosso unilateralmente e al momento solo guerra ibrida contro gli Stati europei.
Dimentichiamo troppo spesso che abbiamo a che fare con un regime, con il popolo imbavagliato, oppositori avvelenati, e paesi sovrani aggrediti illegalmente. L’ha fatto Putin in Georgia, in Crimea e poi tutta l’Ucraina. Anche Stalin nel corso del 1939 in combutta con Hitler occupò la Polonia, i tre paesi baltici, e aggredì la Finlandia. Quello che suscitò sdegno allora, come oggi, fu la ferocia degli attacchi, la menzogna ricorrente, la sfida spudorata ai paesi liberali. Analizzando i fatti storici recenti e remoti, è chiara la profonda differenza di civiltà tra paesi autocratici e quelli democratici. Ma per queste verità si impone una riflessione sui rischi che corrono gli europei. Per amore della libertà e della pace, dobbiamo saper vedere la oscurità che si presenta plateale davanti a noi, finche non sarà troppo tardi. Il rimedio più efficace per gli europei è accelerare l’evoluzione in Stato continentale degli Stati Uniti d’Europa, con una diplomazia comune e un esercito di difesa. Gli autocrati odiano il nostro benessere. Hanno timore dell’esempio e richiamo delle democrazie per chi è da loro sottomesso.
Le società oscurantiste, imprigionate dal potere assoluto, sono ridotte a povertà e schiavitù. I dittatori per conservare il potere hanno bisogno di indicare nemici e di assoggettare i popoli confinanti. Ecco perché illudono coloro che chiedono la pace sfuggendo alla verità che si è pacifici quando il codice morale che vincola la convivenza della propria comunità lo affida allo Stato di diritto. Un potere che è privo di tale sacra moralità può arrivare alla pace solo se dovesse fare i conti con un continente assai evoluto e sviluppato come il nostro e con temute capacità di difesa. Solo allora, la pace potrà ottenersi. Ed anzi finiranno le aggressioni di paesi sovrani, per timore di una reazione di intensità uguale e contraria.
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Per vera riduzione fiscale più risorse e superare mali atavici
di Raffaele Bonanni
ROMA (ITALPRESS) – E’ una buona notizia che il Governo voglia dare continuità alla riduzione fiscale. Dopo averle ridotte ai redditi fino a 50 mila Euro, con un guadagno per il lavoro dipendente di 150-200 euro, ora intende andare oltre. Meloni punta ad alleggerire i gravami fiscali anche ai redditi da 50 mila Euro in su: quelli del ceto medio. Un disegno arduo che dovrà vedersela con i guai della finanza pubblica. Il governo vuole recuperare qualche miliardo dal concordato preventivo con partite Iva e autonomi, ponendo un freno a elusioni ed evasioni fiscali. Tale obiettivo è condivisibile, ma serviranno molti più denari per sostenere un proposito così giusto e oneroso.
Per trovarli occorrerà perseguire rigorosamente un programma impegnativo per arginare le note falle che da tempo indeboliscono l’economia del Paese. Molti, io stesso tra questi, pensano che sono tre i guai pubblici da affrontare con spirito repubblicano per far crescere l’economia e fare riforme: la spesa improduttiva colpevole di favorire sprechi, clientele e pratiche economiche pubbliche nemiche del mercato con l’annichilimento degli investimenti privati, procurato dalla trascuratezza dei poteri pubblici sui fattori dello sviluppo.
Tasse alte provocate da un sistema fiscale rinunciatario sulla lotta all’evasione e all’elusione; la larga area della formale povertà, opaca a ragione di tanti falsi poveri. Cioè evasori che si introducono nelle larghe maglie nel sistema previsto al sostegno dei veri poveri. Costoro rubano allo Stato ai contribuenti fedeli, ai poveri. E’ chiaro che in assenza di azioni decise su questi aspetti, naufragherà l’indispensabile nuovo patto tra cittadino e Stato. Eliminando i mali su descritti, potranno riassorbirsi le insoddisfazioni tanto diffuse nel ceto medio, che sinora hanno nutrito populisti e demagoghi. Un segnale forte e a lungo atteso da questa componente importante della società. Il ceto medio italiano negli ultimi decenni è stato relegato a cenerentola con politiche che hanno danneggiato la sua vocazione a risparmiare, investire, la voglia innata a progredire, a premiare chi si impegna e chi vale. Infatti i risparmi sono stati colpiti da tassi d’interesse non sufficientemente ripagati, mentre l’inflazione ha sottratto potere di acquisto. Il mattone e ogni altro bene rifugio tartassato, stato sociale in progressiva riduzione per premiare i falsi poveri, il fisco in costante rialzo in gran parte caricato su di loro.
Il mantra molto diffuso dai media e dai populisti teso ad affermare che chi percepisce 50 mila euro è benestante se non addirittura ricco, ben descrive la distorsione della realtà presente nell’opinione pubblica su cui hanno poggiato molte politiche pubbliche autolesioniste. Infatti gravami oltre il 40% dell’Irpef, quelli sui patrimoni (comunque piccoli risparmi), e quelli delle tasse indirette su tutti i consumi oltre il 20%, non lasciano scampo per investimenti familiari. Insomma un inferno per le formiche, un bengodi dei evasori ed elusori. Questa dinamica politico sociale ha annichilito il ceto medio, quale indispensabile energia di una comunità che spinge al progresso, a fare di più, a promuoversi. Dunque la volontà di rimediare le ingiustizie, ci offre la possibilità di ridare slancio a una forza costruttrice, allo sviluppo, alla civiltà. Un’operazione che richiede larga collaborazione politica pur nella necessaria e produttiva dialettica. Da tale consapevolezza si potranno rimodulare le risorse dei contribuenti, ridare slancio all’economia, alimentare finalmente trasparenza e giustizia, quali requisiti di coesione sociale e sviluppo.
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Per l’Europa è giunto il momento di una politica estera comune
Di Raffaele Bonanni
ROMA (ITALPRESS) – Gli accadimenti di questi ultimi tempi annunciano cambiamenti epocali che chiuderanno definitivamente la lunga stagione iniziata nel dopoguerra. L’Europa, travolta dall’ultimo conflitto mondiale con i suoi profondi solchi fisici e morali, ha rifiutato l’idea dello scontro tra i suoi Stati iniziando il percorso dell’Unione del continente. Ha proceduto concentrandosi su se stessa per concludere definitivamente le antiche rivalità iniziate sostanzialmente dalla caduta dell’impero romano, e si affida allora al nuovo potente alleato statunitense per provvedere alla sua sicurezza in costanza della divisione del blocco occidentale contrapposto a quello sovietico. Da allora, per la prima volta nella storia, i popoli europei non hanno più pensato alla loro difesa: si sono dedicati a ricostruire le loro economie, ridiventate presto floride. Ma ora molte cose sono cambiate; prorompe la potenza cinese, quella russa vuole ritornare ad ogni costo ai fasti imperiali dei secoli scorsi, l’Iran intende affermarsi nello scacchiere mediorientale. Tutti regimi governati da autarchie spregiudicate che annunciano il desiderio di un “nuovo ordine mondiale” ai danni della pace e dei trattati internazionali. E’ significativo che si usi lo stesso annuncio proclamato dall’asse Roma-Tokio-Berlino prima di scatenare infami guerre annunciate in Polonia, Grecia, Pearl Harbor. Gli attuali autocrati sostengono con denari, armi, e mercenari, ogni genere di dittatori e regimi oscurantisti, in Africa ed in medioriente. Conducono da tempo guerre ibride attraverso la disinformazione, prezzolando giornalisti e giornali, con quinte colonne nei partiti e governi, aggregando regimi nemici della democrazia. L’invasione dell’Ucraina non e’ un fatto a se stante. E’ l’azione coerente di verifica delle chance di questa internazionale antidemocratica per sondare la reazione occidentale, ritenuta incapace di reagire nel suo insieme. Ucraina, Africa, Taiwan, Israele, mar Rosso, sono legati all’unico disegno di saggiare la reazione occidentale. E’ dunque giunto il momento per gli europei di un deciso cambiamento: occuparsi di politica internazionale con un unica voce, costruire le basi di una sola difesa compensando peraltro l’allentamento di impegno Usa nel vecchio continente. In questa nuova e straordinaria fase, se si vuole salvaguardare l’autonomia economica e politica, si dovrà porre tali temi fuori dalla normale disputa tra i propri schieramenti partitici. In Italia tale requisito vale il doppio per vincere l’eccessiva rissosità in politica che sinora ha favorito ambiguità ed anche tradimenti. Ricostruire la nostra affidabile partnership con gli alleati e cancellerie europee, serve a noi ed agli altri. Il Presidente Meloni, va detto, su questi temi ha dato il meglio di se stessa, e ciò puo’ agevolare esperienze di condivisione sul da farsi tra forze politiche anche se non alleati nel governo. Sarebbe il più alto segno di amore per la nostra migliore cultura di libertà e autonomia nella democrazia. La vera prova di essere capaci di decisioni straordinarie per necessità straordinarie.(ITALPRESS).
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Le Università telematiche contro le disuguaglianze
di Raffaele Bonanni
ROMA (ITALPRESS) – Si sa, il nostro Paese non può vantare un buono stato di efficenza della propria education trovandosi appena un po’ sulla metà della graduatoria tra tutti i paesi della terra. Pur essendo ancora tra i Paesi più ricchi con produzioni sufficientemente avanzate. Anche il numero dei laureati è tra i più bassi dei paesi industralizzati. Eppure senza specializzazioni non potremo che perdere terreno ed avviarci verso il declino. Perciò dobbiamo reagire e trovare tutti i modi che le attuali condizioni e tecnologie ci possono offrire, per cambiare questo deprimente quadro. Le recenti statistiche (e il Rapporto Anvur 2023) relative all’andamento dell’istruzione universitaria in Italia, evidenziano come nel nostro paese esista una “barriera naturale” all’accesso allo studio accademico. In particolare, è presente una forte disuguaglianza sociale derivante da problemi legati ai costi e alle modalità di ingresso, che si ripercuote sulle opportunità e sul futuro lavorativo di tanti giovani (e non), con un divario geografico che ha continuato ad aumentare nel corso dell’ultimo decennio a svantaggio delle regioni del Sud.
Di fronte a questi ostacoli e alle disuguaglianze territoriali e sociali, le università digitali (ormai consolidate) possono rappresentare una soluzione dinamica e intelligente, in grado di coniugare diritto allo studio e qualità della didattica, facilitando il percorso (attraverso strumenti flessibili e servizi innovativi che garantiscono una didattica online perfettamente in linea con le esigenze personali) anche alle categorie poco agevolate, come gli studenti-lavoratori e i lavoratori-studenti, che difficilmente riuscirebbero a concludere gli studi e a laurearsi negli atenei tradizionali. Il mondo universitario telematico offre, insomma, la possibilità di studiare a chi non ha i mezzi per spostarsi in una città universitaria e anche a chi lavora, riducendo notevolmente i costi sia in termini economici che umani. Non sono da trascurare, però, gli altri punti di forza delle università digitali. Pensiamo ai diversi vantaggi ambientali che questi contenitori dell’e-learning offrono, rispondendo pienamente ai punti-chiave della transizione ecologica: il contenimento dell’inquinamento atmosferico derivato dalla riduzione degli spostamenti, l’eliminazione dell’utilizzo della carta e la riduzione del consumo di energia.
Purtroppo, le innovazioni tecnologiche nella formazione e quelle introdotte in altri settori fondamentali della nostra economia vengono considerate un macigno da una parte considerevole della sfera politica: quest’ultima ostacola la crescita del sistema universitario telematico. Pensiamo, ad esempio, alla proposta insensata e penalizzante di costringere le università digitali ad avere lo stesso rapporto tra studenti e docenti, come se le modalità di studio e di insegnamento fossero identiche tra il modello universitario tradizionale e quello digitale. Ma, soprattutto, come potrebbero mantenersi le università telematiche, se dovessero assumere un numero considerevole di docenti? Non mi pare che nelle casse degli atenei digitali entrino soldi pubblici: vivono solo di rette garantite dagli studenti che vogliono un’università più libera, più aperta, più competitiva, più inclusiva e più accessibile.
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Sicurezza sul lavoro, serve la riorganizzazione degli appalti
ROMA (ITALPRESS) – Non è la prima volta che accadono nel lavoro italiano situazioni drammatiche come quelle di Firenze, e dunque si dovrà agire in modo che si capisca che e’ finita l’ambiguità. Bisogna andare alle cause per debellare i rischi per lavoratori, individuando ciò che li provoca Quando la politica decide di affrontare i rischi che minacciano i cittadini, per dare un segno della loro prontezza inaspriscono le pene. Ma ha ragione da vendere il Ministro Nordio. Questa logica tende solo a placare i cittadini per non cambiare la realtà. Se andiamo ad analizzare i casi vari,notiamo che i reati di lavoro nero, di evasioni contributive, di trasgressioni salariali, di non rispetto delle norme della sicurezza, di corruzione per ottenere appalti e subappalti sono sempre manovrati dagli stessi soggetti, ed accadono in prevalenza in alcuni territori. Si comprende che in questi contesti il fenomeno è spinto da volontà criminali: guadagnare in dispregio delle leggi dello Stato e dell’etica; delle regole di concorrenza; del ricorso alla corruzione quale mezzo per ottenere appalti ed impunità.
Questi soggetti per guadagnare irregolarmente nel mercato degli appalti pubblici e privati, al contrario delle imprese regolari, sono disposti ad ogni rischio pur di potersi muovere nel business degli appalti. Ed allora il tema da porsi è quello di colpirli nel loro vero interesse: la perdita della licenza, la perdita di denaro. Chi persegue fini illeciti con gli appalti facili dannosi per lavoratori ed imprese rispettose delle leggi e contratti, deve perdere i’acquitrino paludoso del malaffare che dominano. Occorre colpire i loro interesse economico e la loro presenza nel mercato. Le imprese non possono ottenere appalti solo perché iscritti all’albo: devono avere attrezzature, operai e tecnici. Non possono distribuire ai subappalti l’intero processo di realizzazione delle opere tipiche delle costruzioni che li fa ritenere idonei dall’albo. I capitolati di appalto questo devono gia a monte precisare. I sub appaltatori dovranno essere coinvolti solo per lavori specialistici al di fuori delle opere centrali in esecuzione. Essi dovranno avere un loro albo che li riconosce capaci di svolgere tali lavorazioni speciali. Le gare al massimo ribasso non dovranno essere più utilizzate.
Negli appalti privati la mancanza delle garanzie dovrà condizionare il rilascio della licenza di costruzione a monte e i certificati di abitabilità a valle da parte dei Comuni. Ecco, se si dovessero rioganizzare in tal modo gli appalti, sarà più difficile usare i lavori pubblici per il malaffare, in dispregio del necessario regime di concorrenza. Cambiata l’aria si potranno ricostruire grandi imprese competitive italiane nei mercati europei e mondiali, distrutte proprio dal demenziale sistema mordi e fuggi. Le imprese delle costruzioni italiane fino a 30 anni fa erano le più forti del mondo, e hanno costruito le opere più imponenti nelle Americhe, in Medio Oriente in africa, poi sono state rovinate dalla ragnatela locale di piccolo cabotaggio e di complicità. Il Paese ha perso civiltà ed economia, i lavoratori ci hanno perso anche la vita.
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Istruzione e formazione, serve una forte sterzata
ROMA (ITALPRESS) – La penuria di lavoratori altamente specializzati, che le imprese non riescono a trovare nel mercato del lavoro, ha raggiunto circa 500 mila unita’ e costa al paese un freno alla competitività e più di mezzo punto di PIL all’anno. Questa penalizzante congiuntura dovrà superarsi ridandoci collettivamente un preciso orizzonte sul paese che vogliamo essere in futuro. Quale economia e quale istruzione e formazione dovranno aiutarci ad assimilare rapidamente ogni innovazione, così raggiungendo grandi capacità competitive? Serve domandarsi quale organizzazione e strumenti dovremo possedere. Quale didattica dovrà adottarsi se non quella legata fortemente alla modernità? E quale docenza da riconvertire e da assumere, che dovrà efficacemente saper gestire i cambiamenti epocali? Questi quesiti sono alla base del cambiamento che gli italiani dovranno porsi, a partire dalla propria classe dirigente.
Essi hanno il compito ed il dovere di indicare soluzioni esaurienti e non occasionali per far fronte all’attuale condizione disastrosa in cui versa la education. Il sistema della istruzione e della università dovranno avere luoghi di analisi e programmazione aperti alla partecipazione delle parti sociali e delle realta associate della società civile. I genitori innanzitutto dovranno essere responsabilizzati e coinvolti alle scelte complessive e particolari negli itinerari dell’apprendimento dei loro figli. Le imprese e lavoratori nel sistema partecipativo aziendale dovranno ancor meglio analizzare i fabbisogni formativi, ed inseriti nella programmazione di ogni livello e grado della istruzione della scuola secondaria superiore ed universitaria. Le Its dovranno essere potenziati e legati alla programmazione della corsualità universitaria per la definizione di percorsi di alta qualificazione tecnico-specialistica. I tirocini dovranno essere il fulcro del passaggio dalla scuola ed università, al lavoro. Per favorire ritmi adeguati dell’education e coinvolgere la vasta platea di giovani lavoratori e lavoratori da tempo impegnati nelle produzioni, occorre sostenere lo sviluppo dell’insegnamento on line nella formazione applicata all’aggiornamento professionale e all’alta formazione universitaria e post universitaria. La somma delle sfasature ed inefficienze del sistema della istruzione e formazione universitaria parte dalla pretesa disastrosa per i tempi che stiamo vivendo, di mantenere lo status quo in ossequio alle corporazioni, ai poteri ed interessi consolidati. Ecco perché la consapevolezza di dare una forte sterzata al sistema della education, deve passare attraverso una discussione aperta e sincera tra tutti gli stakeholders con i governi nazionale e regionali per progammare il governo del cambiamento ed avviare il Paese nella sicura traiettoria di grande soggetto civile avanzato.
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