Ha fatto rumore nel mondo e presso le cancellerie dei vari paesi l’incontro del G7 che ha riunito le democrazie occidentali, Italia compresa. La motivazione principale del summit ha riguardato le linee strategiche per affrontare i nodi ancora non sciolti relativi alla pandemia, ma poi, con evidenza, si è capito che Joe Biden lo ha voluto fortemente per riaggiustare i legami soprattutto con gli europei assai logorati dalla politica di Donald Trump, per allestire un vero e proprio blocco anti cinese delle potenze occidentali: quasi una riedizione dell’alleanza anti URSS degli anni 50. Intanto è positivo l’impegno approvato da tutti i partners di donare ai paesi poveri un miliardo di vaccini; per spegnere ogni focolaio di infezione in ogni angolo della Terra, in modo da non far correre altri ulteriori rischi sanitari economici e sociali a tutta l’umanità, e per riprendere il ruolo di guida non solo economico-militare ma anche umanitario, decisivo per saldare rapporti economici e politici. Su questi propositi, si sapeva, ogni decisione avrebbe potuto contare sulla sintonia con gli europei; ma l’altra questione, quella cinese, non poteva che essere più spinosa. Gli europei si può dire che sono guardinghi e divisi sul rapporto da avere con la Repubblica Popolare Cinese, e sono ancora lontani dalla determinazione di Biden. Molti anni sono passati dal viaggio dell’allora presidente Nixon in Cina nel 1972, che iniziò una crescente e poi intensa collaborazione: i cinesi miravano ad uscire dall’isolamento e dall’ arretratezza attraverso lo sviluppo industriale, gli americani cercavano di indebolire il loro sodalizio con l’Unione Sovietica (ora è in atto la stessa dinamica a ruoli rovesciati) ed a utilizzarli come propria area privilegiata di produzione industriale, ma conservando progettazioni e linee finanziarie. Ma come si sa, l’impero orientale ben presto ha imparato a progettare autonomamente ed a produrre ed accumulare enormi riserve finanziarie ben presto impiegate per fare concorrenza industriale e commerciale a danno degli stessi americani, e ad estendere la loro influenza sui vari scacchieri geopolitici mondiali. Al momento gli europei si rendono conto del ‘pericolo giallo’, ma sono troppo divisi sulla politica estera che al massimo vivono ognuno per conto proprio come opportunità occasionali per i loro commerci. Un test significativo lo abbiamo avuto già con la operazione ‘via della seta’ e con l’acquisizione di alcuni porti strategici mediterranei. Si è avuta anche più che la percezione che gli autocrati cinesi, aiutati dalla smobilitazione americana nel mediterraneo, siano stati impegnati a raccordi carsici con talune forze politiche dei vari paesi europei ed impegnati con piani mirati a confondere la opinione pubblica con fakes, a mezzo di piattaforme digitali impiegate per orientare i social formalmente non governative, ma provenienti in gran parte dal territorio cinese, per screditare la istituzione europea e creare confusione politica nei singoli paesi. Insomma Biden fa bene ad indicare i rischi della accanita competizione lanciata dai cinesi sulle più avanzate tecnologie come infiltrazione insidiosissima nel sistema di potere mondiale che riguardano i fattori di sicurezza, di indipendenza, e di spionaggio sui fattori industriali e finanziari. Ma il modo migliore per convincere gli europei, è di prendere davvero le distanze dai tentativi palesi commessi da Trump che ha palesemente tentato di sgretolare la unificazione Europea. Infatti l’Europa va sostenuta nel processo di edificazione dello Stato continentale, quale garanzia anche per gli americani di essere più forti come coalizione occidentale, e per non cadere nelle reti di paesi che dello sfruttamento bestiale degli uomini e della loro sottomissione totale, costituiscono la leva per governare il mondo con i proventi finanziari realizzati. Ed allora se l’alleanza occidentale dovrà essere più efficiente e solida, dovrà riguardare anche il pieno rispetto della autonomia e sviluppo di ogni componente a partire dall’Europa, che però dal canto suo dovrà incominciare almeno a provvedere a governare il benessere e la pace nell’area da troppo tempo rovente del Mediterraneo.
(ITALPRESS)
Alleanza occidentale più solida nel rispetto delle autonomie
Lavoro, sussidi dannosi se manca la riqualificazione
Nella nostra vita quotidiana ogni volta che si ferisce la dignità del lavoratore, la garanzia della sua incolumità, la perdita dello stesso posto di lavoro, per ciascuno di noi è istintivo invocare il primo articolo della nostra Costituzione, come a dire che c’è sfasatura tra le solenni affermazioni e la realtà: l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro.
Ci fu una lunga discussione tra i costituenti sulla importanza di assegnare nella Costituzione al lavoro un valore costitutivo per la Repubblica: al lavoro nel senso di energia collettiva prodotta dall’impegno e dall’ingegno di lavoratori e imprenditori in grado di assicurare redistribuzione della ricchezza in parte equa, secondo impegno, rischio, responsabilità. Ci furono opposizioni a questa ipotesi, ma prevalse grazie a coloro che si ispiravano alla dottrina sociale della Chiesa e a “laici” legati alla cultura dell’umanesimo. Insomma la Repubblica deve fondarsi sul lavoro in quanto base essenziale per garantire benessere economico e sociale, ma anche come ancoraggio morale e fondamento di responsabilità: attraverso il lavoro le persone si realizzano personalmente nella relazione con gli altri che vi partecipano, così creando vincoli di responsabilità che ricadono positivamente sulla comunità e sulla personale esperienza di maturità. In questi giorni si parla molto delle nuove occasioni di lavoro che potremo generare grazie al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, e giustamente si sottolinea che da questo piano può originare la ripresa economica italiana, come per i giovani occasioni qualificate di impegno lavorativo, di accelerazione verso la modernità. Infatti l’impiego di ben circa 200 miliardi di euro per gli obiettivi della transizione energetica, adeguamento alla cultura e operatività digitale, infrastrutturazione trasportistica, e sviluppo dei presidi della prevenzione di sanità, possono ben corrispondere agli obiettivi indicati e tanto necessari al Paese. Ma per ottenere questo risultato, non solo occorre accompagnare al Piano riforme della pubblica amministrazione, della giustizia civile e amministrativa, del fisco e del lavoro, senza le quali si rischia di insabbiare gli ingranaggi della operazione, ma bisogna anche riportare le ruote del treno nei binari dello spirito che animò i Costituenti nel fondare la Repubblica sul lavoro. Non credo che possano coesistere nello stesso paese, e senza conseguenze, un piano per impegnare giovani per avviarci verso una economia virtuosa e moderna, permanendo politiche assistenziali senza finalità che riconducono all’impegno lavorativo, premiando l’opportunismo. Il tema non riguarda soltanto lo spreco di decine di miliardi finora utilizzati che potevano essere impiegati in attività economiche remunerative o in attività di riqualificazione professionale tanto essenziali per rimuovere la condizione mortificante della coesistenza di tanti disoccupati e nel contempo di richieste di professionalità non rintracciabili nel mercato del lavoro; ma riguarda anche la necessità di percezione di un clima culturale orientato alla responsabilità ed alla ricerca della efficienza. I momenti di svolta sono davvero tali quando nella realtà sociale ogni aspetto è coerente con ogni altro elemento che concorre a centrare l’obiettivo. L’altra sera, partecipando a un seminario sul lavoro e le occasioni di sviluppo che si possono cogliere, confesso di essere stato molto a disagio nell’aver ascoltato le conclusioni, che sostanzialmente si sono sviluppate nel seguente modo: i sussidi salariali sono un risarcimento dovuto alla riduzione del lavoro per l’avanzamento delle tecnologie. E invece noi dovremmo dire che si dovrebbero risarcire i contribuenti che pagano i sussidi pubblici con politiche di sostegni alle persone che però almeno devono impegnarsi a rafforzare la loro professionalità per accelerare la transizione dai vecchi lavori a quelli nuovi o a prestare la loro opera in attività di interesse pubblico, in modo tale che o in un modo o nell’altro la società ne abbia un beneficio. Dunque i principi costituzionali si fanno vivere non di “ritirate” culturali risarcitorie, ma di pretesa continua e rigorosa della valorizzazione dei talenti posseduti e da sviluppare dei lavoratori, nel loro personale interesse e nell’interesse di tutti. E a tale proposito, anche la annosa vicenda della sacrosanta necessità di frenare i licenziamenti in questa epoca di pandemia, se non accompagnata da una robusta attività di riqualificazione in un epoca di grandi cambiamenti d’impiego di nuove tecnologie e di richieste di nuove professionalità, potrà solo esporci a ritardi insostenibili per la stabilità dei posti di lavoro e la stabilità della economia.
Raffaele Bonanni
Epifani, la costante ricerca del dialogo
ROMA (ITALPRESS) – È un fulmine a ciel sereno la scomparsa di Guglielmo Epifani, che ha rattristato l’intero movimento sindacale. Ho condiviso con Guglielmo per quattro anni l’impegno sindacale nei marosi delle trasformazioni che già in quell’epoca hanno interessato il mercato del lavoro, le politiche contrattuali, le vicende sociali esacerbate ancor più dalla crisi finanziaria originata negli Stati Uniti; e che hanno ferito fortemente anche le condizioni dei lavoratori italiani, ferite che ancora non sono state sanate. Non sempre siamo stati d’accordo, ma abbiamo condiviso soluzioni unitarie date ai problemi con lealtà e senza rotture irreversibili. Infatti per cultura indole caratteriale, non amava le contrapposizioni, ed anzi aveva rispetto e curiosità per le altre posizioni, avendo un ancoraggio solido di convinzioni che si rifacevano alla cultura umanistica della sua antica appartenenza al movimento socialista. Paziente e tollerante, aperto al dialogo, ha dato alla Cgil un contributo importante per permettergli di restare saldamente tra i lavoratori pur dovendo affrontare nodi non facili per i cambiamenti avvenuti su scala mondiale.
In quel periodo il Sindacato confederale ha svolto un ruolo di primo piano sul sociale, sull’economia, ed anche sulle questioni istituzionali sul tappeto. Non c’era governo che non privilegiasse il confronto con le organizzazioni del lavoro per rafforzare la coesione sociale nazionale: insomma eravamo ancora lontani dal periodo in cui le forze politiche, perché più deboli, tentassero di annettere a se stessi ogni ruolo che è più sensato svolgere nel coinvolgimento di tutti i soggetti attori, soprattutto nella realtà sempre arroventata del lavoro italiano. Nei confronti con i governi i temi di principio per Epifani erano sempre importanti, e non amava ne l’estremismo ne plebeismi di sorta pur presenti in situazioni ingarbugliate di territori o fabbriche. Insomma durante il suo permanere nel sindacato confederale l’armonia sempre impegnativa da ottenere si è avuta. Poi, come si sa, transitò in politica avendo desiderato molto completare il suo impegno personale nelle istituzioni. Lo abbiamo notato, da deputato, segretario del Pd e nei ruoli istituzionali assegnatigli, lo stesso approccio pacato, schivo, lontano da esagerazioni.
Guglielmo lo ricorderemo certamente come un militante sindacale e politico di parte, ma una persona consapevole che in una società complessa la ricerca dell’intesa e della collaborazione, è il solo modo di far contare davvero gli interessi della gente. Gli scontri, il populismo come base per fare consenso, il modo peggiore di servire lavoratori ed interessi generali della Nazione.
Raffaele Bonanni
Il post-pandemia e lo spirito del 1946 da ritrovare
Si è festeggiata la Repubblica che ha già tre quarti di secolo, e a partire dal Presidente Sergio Mattarella, ogni considerazione riferita a quel 2 giugno 1946 di fondazione dopo il referendum che sancì la fine della monarchia, ha riguardato il confronto tra l’esperienza terribile del dopoguerra e quella che ancora stiamo vivendo della pandemia.
Le città italiane erano un cumulo di macerie, le casse dello stato prosciugate, le famiglie a lutto per la perdita dei propri padri e figli, fratelli e mariti, eppure, come si è ripetuto all’unisono, gli italiani hanno affrontato la realtà con coraggio e determinazione e già dopo più di un decennio, nel mondo già parlavano degli italiani come popolo capace di originare un boom economico difficile da rintracciare nelle storie dei vari popoli.
Ora, a settantacinque da quella ripartenza, sono in grado classe dirigente e popolo di ritrovare quella stessa tensione morale e intraprendenza? In quell’epoca i governi non distribuivano a piene mani bonus ai cittadini, le casse pubbliche erano vuote molto più di ora ora, e i debiti di guerra pesavano come macigni sul futuro come ora. C’era da ricostruire strade, ponti, città, fabbriche e credito internazionale, ma gli italiani si diedero da fare, e con essi i rappresentanti delle istituzioni. Anche allora c’erano forti divisioni tra le forze politiche, ma erano divisioni che riguardavano la visione che si prospettava per lo sviluppo della società: da una parte la democrazia liberale, dall’altra il socialismo ad egemonia di una classe.
Non erano dunque disfide sul niente come spesso avviene ora, eppure tutti collaborarono per ricostruire sul piano economico ed istituzionale la spina dorsale della nuova Italia. E invece ora? Al massimo, e per fortuna, ci si è sforzati di accettare Mario Draghi a capo di un governo, pur sempre con l’occhio ai calendari per il voto, e a promettere bonus, salari non sudati, ristori. Ma il nostro debito è cresciuto al 160% del PIL per distribuire denari che non faranno altri denari, circostanze che se non avessimo le spalle coperte dall’Europa e BCE, saremmo già facile pasto per gli avvoltoi della finanza internazionale. Si dirà che abbiamo la carta jolly dei 200 miliardi europei del piano nazionale di ripresa e resilienza, e questo è vero, ma rischia di diventare come un acquazzone di agosto che si riversa su terreni argillosi in assenza di riforme.
E bisognerà anche sperare che l’inflazione non rialzi la testa come sembra stia avvenendo. Se dovesse capitare, insieme ad un disallineamento dell’economia USA rispetto a quella europea per investimenti mai impiegati con 20 mila miliardi di dollari, le banche internazionali aumenteranno i tassi di interessi e di conseguenza anche la BCE, ingrossando così ancor più il nostro debito. Insomma questi fattori potranno depotenziare la forza d’urto delle somme che impiegheremo, oltre ai piombi ai piedi se si dovesse ancora persistere a mantenere il fallimentare status quo nella pubblica amministrazione, fisco, giustizia, lavoro che vanno immediatamente cambiato: fattori ormai incompatibili con gli interessi delle famiglie, imprese ed investimenti esteri. Le riforme dunque vanno fatte per premunirci da ogni accadimento pericoloso e per dare efficacia agli investimenti ed evitare di essere risucchiati nel girone della insostenibilità del debito, conclamata è certificata.
Dunque ai capi di partito bisognerebbe dire con semplicità: abbiamo la fortuna di avere a capo del governo Draghi che è una indubbia garanzia per i mercati internazionali e per l’Europa, ed allora si investa ogni propria ambizione di parte sugli interessi della Nazione. Il dividendo per il benessere di tutti sarà grande ed anche vostro in termini di prestigio. Infatti i capi dei partiti del primo dopoguerra, pur nella divisione, erano da tutti rispettati proprio per aver saputo costruire le premesse essenziali per il benessere che però in questi ultimi anni si è indebolito.
Raffaele Bonanni
Bene proposta Letta ma serve riforma del Fisco
La proposta di Enrico Letta di destinare il ricavato dall’eventuale aumento della tassa di successione, dall’attuale 4% al 20% per offrire ai giovani una “dote”, in questi giorni ha attirato l’attenzione di molti media e ancora se ne parla. Devo confessare che a prima vista ha destato in me un moto di fastidio. Subito ho pensato: siamo alle solite! Non si chiede al sistema pubblico di usare meglio i soldi dei contribuenti risparmiandoli, ma si somma tassa su tassa per distribuire i proventi in bonus, ora qui ora lì. Certamente la tassa sulle successioni risulta più bassa che in altri paesi europei, ma è un caso unico nel sistema fiscale italiano, dato che con la generalità delle tassazioni nazionali, regionali e comunali, siano arrivati a livelli stratosferici, non per finanziare con certezza investimenti e servizi pubblici, ma per alimentare un sistema che disperde ingenti risorse non sempre per finalità di interesse generale. Ho poi approfondito il merito della proposta avanzata da Letta, di affidare 10 mila euro ai giovani in base al reddito delle loro famiglie, per eventualmente impiegarli nelle attività di formazione, istruzione, lavoro e piccola imprenditoria, casa e alloggio. È condivisibile preoccuparsi di sostenere i meno abbienti, soprattutto nelle attività relative ai corsi universitari, dato che il numero dei giovani laureati italiani è mediamente inferiore a quello della media dei laureati dei paesi Ocse nostri concorrenti. Conosciamo sin troppo bene il fenomeno ormai molto vistoso del divario tra professionalità richieste dalla domanda del mercato e quelle dell’offerta. L’esigenza di aumentare sensibilmente i giovani laureati, segnatamente nelle specializzazioni tecniche per attrezzarci adeguatamente ai ritmi imposti dalla rivoluzione digitale, è per noi un obbiettivo primario. Infatti, se dovessimo accumulare ulteriori ritardi nel colmare questo nostro handicap, le conseguenze sarebbero rovinose per la nostra capacità competitiva nel mercato mondiale. Peraltro, l’impoverimento ulteriore delle famiglie provocato dalla pandemia, rende ancora più precario il sostegno ai loro figli riguardo agli studi universitari. Negli Stati Uniti, il presidente Joe Biden ha posto al centro della discussione il tema del costo insostenibile della partecipazione ai corsi universitari dei più poveri e intende per questo intervenire facendosi carico di questa incombenza, con risorse pubbliche federali e addirittura programmando anche interventi per sgravare gli studenti indebitati con mutui specifici per le rette universitarie, che non riescono a sostenere pur entrati nel mercato del lavoro. Dunque, un tema di grande attualità e interesse per coloro che in questa epoca di cambiamento pensano alla leva della istruzione e preparazione professionale come la prima leva dello sviluppo. Allora la finalità principale della proposta del segretario del Pd coglie nel segno la nostra esigenza, va raccolta e sostenuta proprio in queste circostanze di uscita sostanziale dall’emergenza pandemica. Ma riguardo alle tasse di successione, pur avendo ragione sulla esiguità dell’aliquota del 4%, è meglio che l’adeguamento rientri in una logica di revisione dell’intero sistema fiscale, che per esigenza della Nazione dovrà considerare la diminuzione drastica dei pesi del fisco, da finanziare con i risparmi della spesa pubblica improduttiva, oltre che dalla celebratissima lotta all’evasione e all’elusione. Gli aiuti proposti vanno invece fatti senza la logica dei bonus, ma come sostegni inseriti nel carattere di impegno meritorio. Nel recente passato i bonus a giovani e categorie varie di cittadini e altre importanti provvidenze, sono stati erogati pur sprovvisti di precise finalità, motivati solo genericamente pur di venir incontro alle persone che si volevano beneficiare. C’è da sperare che ci sia davvero cambiamento nel modo di concepire la spesa pubblica, da orientarsi esclusivamente in chiave produttiva. L’Italia cambierà davvero quando i soldi dei contribuenti verranno impiegati per finanziare un interesse settoriale, che riveste importanza strategica per la generalità dei cittadini. Appunto com’è l’esigenza di avere giovani istruiti e professionalizzati, per fecondare con il loro genio l’intera economia della Nazione.
(ITALPRESS).
Su turismo manca piano strategico di rilancio
Corriamo verso giugno, ed ecco che il Presidente del Consiglio Mario Draghi annuncia ai media che il turismo in Italia va rilanciato. Certamente l’avanzamento della campagna di vaccinazione e la riduzione degli effetti pandemici, spingono il governo a fare dei passi in avanti per predisporsi a cogliere la possibilità di dare agli operatori economici piccoli e grandi dell’accoglienza importanti business. Già l’anno scorso il settore ha colto importanti successi con un numero considerevole di persone accolte nelle varie località turistiche in voga e non, che inaspettatamente si sono viste arrivare italiani da ogni parte a causa della impossibilità di recarsi all’estero come in tempi normali abbondantemente avviene. Anche quest’anno si ci riprepara alla stessa operazione, peraltro rinnovando i bonus statali per il turismo per i meno abbienti, ma anche l’obiettivo è anche di attirare cittadini europei, datosi che già nei prossimi giorni tantissimi di essi potranno circolare liberamente, almeno coloro che avranno potuto concludere le vaccinazioni in programma. È molto facile prevedere che i traffici turistici saranno molto grandi almeno, complice lo spirito di liberazione che immancabilmente si sprigiona dopo esperienze di accentuata limitazione. Significativo della competizione con i paesi del mediterraneo ad attrarre turisti questa estate, sono state le affermazioni di Draghi al G20 con i Ministri del turismo che ha invitato tutti a fare vacanza in Italia; come a dire noi ci siamo e siamo pronti a competere nel mercato. Ed infatti la ‘carta verde’ che si annuncia sarà pronta per metà maggio come la quarantena da rimuovere per i visitatori esteri, e’ la conferma che si è ben coscienti del peso che il turismo ha per la nostra economia. Questo settore pur rappresentando in senso stretto il 13% del PIL, con il suo consistente indotto e con la capillare è vastissima rete di operatori, non è meno importante dell’industria che attualmente si attesta sul 20%. Però il nostro Paese, pur avendo grandissime potenzialità represse, sinora ha potuto contare quasi esclusivamente sulle nostre strabilianti e particolarissime bellezze paesaggistiche di mari, isole, monti e colline, sui nostri ingentissimi beni culturali e monumentali, sulla variegatissima offerta culinaria che ogni territorio vanta da secoli che neanche l’incuria potrà nel breve tempo nascondere. Come capita a chi ha molto, facilmente si adagia sulle proprie sicurezze, e non si adopera a sufficienza per custodirle e farle progredire. Basti osservare a quello che succede riguardo ai provvedimenti per il settore. Ci si preoccupa per i ristori ( con ritardo ) ma gli investimenti per valorizzare le nostre attrazioni, non può contare ancora di un vero piano speciale di investimenti per musei, dei siti archeologici, di bonifica dell’inquinamento dei mari, della istruzione e formazione per l’accoglienza, di miglioramento delle infrastrutture materiali ed immateriali per le località turistiche. Insomma non si ha un piano strategico nazionale capace di scavalcare in un sol salto il groviglio di facci che immobilizza questo settore strategico. Trasporti, ristorazione, accoglienza, arte, monumenti, non vengono visti come un tutt’uno con relative soluzioni, ma lasciate lì al ‘governo’ per caso dal groviglio scoordinato di istituzioni ed amministrazioni di ogni tipo. Si vuole sperare che tutto ciò cambi e che tra tanta spesa che si sta programmando nel dopo COVID, oltre a bonus e ristori, si pensi anche a come poter cambiare il nostro approccio con questi fattori economici. Non è un caso che nella graduatoria mondiale dei paesi che vantano più turisti esteri, l’Italia è solo al quinto posto con quasi la metà in meno di visitatori rispetto alla Francia. È fin troppo chiaro che questo risultato mortificante è la risultante di decenni di incuria verso il settore e verso lavoratori ed imprese. Insomma possiamo recuperare il tempo perso, ma il cambiamento dovrà essere forte: meno bonus e più lungimiranza per il nostro avvenire”.
(ITALPRESS).
Covid, si vince solo con la solidarietà
Con l’arrivo del mese di maggio, nell’immaginario di ciascuno generalmente si è portati a pensare che tra il favore del caldo e l’andamento sufficientemente spedito della somministrazione dei vaccini, le persone saranno man mano affrancate dalla infezione pandemica. La speranza è che si ritornerà alla normalità lasciandoci alle spalle la triste esperienza della crisi sanitaria che ha travolto affetti, serenità, condizioni economiche e sociali. Insomma non si aspetta altro che il momento dell’annuncio del pericolo scampato, così ciascuno potrà stare più tranquillo, salvo impegnarsi a recuperare il terreno economico e occupazionale perduto a causa delle brusche frenate nelle produzioni e nei servizi degli ultimi 14 mesi. Dunque, soprattutto nei paesi europei e occidentali, in genere prevale l’idea che basti sollecitamente occuparsi del proprio recinto nazionale per eliminare disagi e difficoltà. Ma credo che presto saremo smentiti con elementi assai stringenti che finora difficilmente si sono approfonditi con la opinione pubblica: quella della condizione pandemica dei paesi poveri nel mondo. Mi riferisco alle tantissime realtà che rappresentano una parte vasta dell’intera umanità, che per mancanza di mezzi economici e di organizzazione sono ben lontani da aver solamente abbozzato un piano vaccinazioni, circostanza che le condanna a un pauroso sprofondamento nella ulteriore povertà.
Tante sono le aree del mondo che per mancanza di mezzi e per la limitata possibilità di raggiungerle e organizzarsi saranno condannate a un lunghissimo periodo di coesistenza con il COVID nelle grandi estensioni rurali. Sinora le dosi iniettate su scala mondiale su una popolazione di circa 8 miliardi di persone sono appena novecento milioni. I dati si riferiscono in grande prevalenza ai paesi industrializzati. Questi numeri da soli ben rappresentano plasticamente il lungo cammino che ci aspetta, le ingiustizie palesi ai danni dei più poveri, la esigenza di estendere la sanificazione anche in queste aree, pena: conseguenze di instabilità sanitaria per lungo tempo anche per i paesi ricchi. Dunque, in un mondo fortemente interconnesso, chiudere gli occhi e far finta di non vedere non solo ci macchia di gravi peccati verso l’umanità, ma facciamo male anche a noi stessi, allungando la crisi per anni e anni ancora, pur illusi che basti chiudere le frontiere per risolvere ogni cruda verità che ci assedia.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel mezzo di una crisi economica e sanitaria, i vincitori occidentali decisero la moratoria dei brevetti della penicillina per far sì che molti ammalati dei paesi in difficoltà potessero essere curati a prezzi morigerati. Cosicché si crearono due mercati: uno a bassi costi del medicinale, e l’altro a prezzi più alti e di mercato per chi se lo poteva permettere. Insomma dopo le macerie fisiche e morali inflitte dal conflitto, si riuscì a dare un concreto segno di considerazione e solidarietà per le realtà deboli, Italia compresa. A maggior ragione nella crisi odierna, bisogna attuare una misura analoga: un mercato parallelo a bassi costi per i paesi del sud del mondo.
Sarebbe davvero importante se l’Europa e gli Stati Uniti d’America annunciassero aiuti a sostegno chi ne ha bisogno, dando in questo modo un segnale di solidarietà e di pace, marcando così la differenza tra la miopia egoistica in cui è avviluppato il mondo attuale e la speranza che da questi nuovi passi si possa ridare forza alla solidarietà, che come sappiamo annuncia sempre la pace.
Raffaele Bonanni
(ITALPRESS).
L’Italia deve arrivare pronta all’era post-Covid
La storia ci insegna che i popoli dopo aver subito gravi incidenti economici, calamità di vario genere e guerre, appena queste avversità cessano, ritornano alle proprie attività con fervore ed impegno molto più intensi di prima. È l’istinto di sopravvivenza che ha predisposto in noi il Signore, che sprigiona nelle persone una grande energia tesa a recuperare quello che si è perso nella disgrazia. Gli eventi più vicini alla nostra esperienza personale e familiare lo dimostrano, come nel dopo guerra del secondo conflitto mondiale, nella crisi finanziaria del 2008, in questa esperienza drammatica pandemica. L’Italia ha avuto una ripresa travolgente nel primo ventennio repubblicano, ma non dopo il crollo di Wall Street del quale portiamo ancora le ferite ancora purulenti, facendo eccezione rispetto a tutti gli altri paesi industrializzati che hanno saputo sopravanzare i danni iniziali subiti, ed ora nella crisi sanitaria nel suo pieno svolgimento già si notano clamorosi avanzamenti in alcuni settori economici e aree del mondo.
Va considerato che l’attuale pandemia è capitata nel mezzo dello sviluppo smisurato sul piano mondiale del potere finanziario, delle big tech e della rivoluzione digitale, e dunque tutte le attività legate a questi mondi stanno migliorando i loro affari con una elevatissima progressione geometrica, favorita non solo dal cambiamento in atto e dalla sostituzione delle vecchie tecnologie nella vita privata e nell’ambito delle produzioni e servizi, ma anche dalle impellenti necessità imposte dal COVID di superare spazio e tempo. Cosicché, come è accaduto negli snodi dei cambiamenti epocali provocati dalle nuove tecnologie, cambia la domanda di nuovi mestieri ed irrompono nuove aziende nel mercato, mentre mestieri e imprese vecchie si dirigono inesorabilmente verso la loro consunzione. I cambiamenti avvenuti nella storia certamente hanno creato anche grandi inconvenienti per lavoratori, imprese ed economia di un Paese, ma il superamento delle difficoltà dipende quasi esclusivamente dalla velocità nell’apprendimento delle nuove competenze e da imprese in grado di immedesimarsi con le dinamiche di domanda internazionali e locali dei mercati in grado di disporre di nuove tecnologie, di reti commerciali e di logistica efficienti ed economici.
Nel nostro paese, però queste verità non sono affatto considerate; si ritiene che il modo di soccorrere lavoratori ed imprese in simili circostanze sia quello di elargire bonus e sostegni, sciupando denaro che invece potrebbe essere usato per rigenerare imprese, professionalità di lavoratori, ed una “pub2lic education” in grado di preparare le giovani generazioni a stare al passo con le conoscenze utili per partecipare fattivamente al “villaggio globale” e alle produzioni di beni e servizi. La differenza la farà davvero l’attenzione al rinnovo della nostra capacità di condividere con successo la divisione internazionale del lavoro per assicurarci fette di mercato per il nostro benessere. Ed allora credo che la politica faccia bene a preoccuparsi di riaprire le varie attività di ristoro e di servizi, ma cento volte in più dovrà preoccuparsi a come l’Italia possa attrezzarsi dopo anni ed anni di noncuranza sui fattori della modernità necessaria al sistema di produzione e dei servizi, che sono le fonti più importanti per consentirci sicurezza sociale e benessere.
(ITALPRESS).





