L’avvento di Luciano Spalletti alla guida della Nazionale segna una tappa importante nella storia della panchina azzurra. E’ stato un passaggio di mano laborioso, quello da Mancini a Spalletti, per la presenza della clausola sul contratto del nuovo c.t. per svincolarsi dal Napoli. Chi la pagherà? Lo stesso Spalletti con l’aiuto della Figc? La situazione è stata risolta, con molte difficoltà, ma non si risolverà in quattro e quattro otto: si andrà per carte bollate. Così è svanita la concorrenza di Conte, unico vero avversario di Spalletti nella corsa alla panchina azzurra. E’ stato discusso l’atteggiamento del presidente del Napoli De Laurentiis, dopo la “fuga” di Giuntoli, dello stesso Spalletti e della partenza di Kim. Nessuno vuole negargli i meriti per lo scudetto e il gran lavoro fatto col club partenopeo, ma non si può sottacere che se i personaggi di primo piano hanno tagliato la corda, un motivo ci sarà. Quanto a Mancini, che in una intervista ha mostrato un certo livore nei confronti del presidente Gravina e della stampa, il tempo ci spiegherà tante cose.
Vedremo a posteriori se è vero che il c.t. non ha avuto la tentazione di andare ad allenare in Arabia Saudita, a suon di milioni, per trarne le conseguenze. A nostro avviso, i protagonisti del calcio, specie quelli portati troppo in palmo di mano, si convincono di essere delle intoccabili divinità e non tengono conto del fatto che nella vita – e specialmente nel calcio – tutto è provvisorio e ci si dimentica in fretta dei meriti, mentre restano in mente per sempre i demeriti. In passato, i c.t. azzurri generalmente arrivavano dai ranghi della federazione e solo dagli anni più recenti, dopo l’avvento di Berlusconi, la Nazionale ha veramente “strappato” (o accolto pro bono pacis) i tecnici ai club. Pochi hanno conquistato titoli importanti, prima di passare in azzurro: diciamo lo tesso Sacchi, Lippi, Conte, Mancini e ora Spalletti. Come i suoi immediati predecessori, l’ex allenatore del Napoli ha accumulato una grande esperienza nei club passando, dopo l’esordio nell’Empoli, alla Samp, Venezia, Udinese (in varie circostanze), Ancona, Roma (due volte), Zenit San Pietroburgo, Inter e infine ha vinto sotto il Vesuvio. Dal 1996 ben 27 anni trascorsi in panchina.
In Italia, prima di lui, solo Trapattoni (7), Lippi (5) Conte (4), Helenio Herrera, Mancini e Viani (3) Bernardini e Foni (2) e Sacchi (1) avevano vinto lo scudetto e allenato la Nazionale. Tre tecnici cioè Pozzo (2), Bearzot e Lippi (1) hanno vinto i Mondiali. Luciano Spalletti si accinge quindi a guidare la Nazionale dopo lunga esperienza nei club, accompagnata da poche vittorie. A breve dovrà fare le prime convocazioni per le partite contro Macedonia e Ucraina, valide per le qualificazioni agli Europei, e verrà giudicato senza sconti. Già si son fatti facili profezie sulle sue prossime scelte, pronosticando la fuoriuscita di personaggi come Bonucci, Jorginho e Verratti e promuovendo i nomi di Baldanzi e Casale. Insomma tutti cercano di prendere posizione, proponendo i propri nomi, ma Spalletti ragionerà con la propria testa e dovrà fare i conti con l’anagrafe e con le poche scelte che offre il nostro calcio: il problema dell’attacco esiste sempre e ha poche soluzioni: si gira attorno ai nomi del collaudato Immobile e del nuovo arrivato Retegui. Ma il problema delle scelte ha profonde e obiettive motivazioni: troppi stranieri e Spalletti non avrà la bacchetta magica per fare miracoli.
Il momento ci presenta un calcio al bivio: ormai si parla solo di soldi e la nuova frontiera dell’Oriente, foriero di ricchezze e di voglia di “comprarsi” tutto, sta alterando secolari equilibri. Lo sport ha lasciato spazio alla finanza e alla politica e a chi vuol vincere con tutti i mezzi una battaglia culturale che poco ha di decoubertiniano.
NAZIONALE A SPALLETTI, CT SENZA BACCHETTA MAGICA
SORPRESA DI FERRAGOSTO: MANCINI LASCIA GLI AZZURRI
Sorpresona: le dimissioni di Roberto Mancini dalla Nazionale sono piombate sul nostro calcio, a Ferragosto e alla vigilia del campionato e delle partite di qualificazione azzurre per l’Europeo (Macedonia e Ucraina). Conosceremo presto le vere ragioni dell’ imprevista mossa del c.t. azzurro, ma siamo convinti che qualcosa non sarà andata giù a Mancini, che sembrava “accerchiato” della esigenze dei club e dalla loro scarsa collaborazione, nella gestione della squadra azzurra. Visto il glaciale atteggiamento della federazione che ha “preso atto” delle sue dimissioni, si può pensare che non sarebbero state fatte molte contromosse per tentare di trattenere il responsabile della squadra azzurra. Verranno fuori molte congetture, anche perchè non sarà facile sostituire validamente Mancini. Secondo le impressioni generali, non c’è un solo motivo, ma un complesso di ragioni che riguardano sia i collaboratori, che una certa stanchezza di dover affrontare i soliti problemi senza molti aiuti da parte dell’ambiente: lasciato gradualmente solo?
Un rapporto, quello fra il c.t. e la Nazionale, che era cominciato nel 2018 ed era stato accompagnato da una rapida ricostruzione della squadra che era stata eliminata dai Mondiale di Russia: la vittoria agli Europei di Londra aveva dato l’impressione che il calcio azzurro stesse risalendo i gradini del calcio internazionale. Si era parlato di Mancini come salvatore della Nazionale, si era constatata la mentalità offensiva portata dal c.t. in azzurro; erano stati positivamente valutati i buoni risultato nelle 61 partite di Mancini alla guida della Nazionale; si era fatto cenno con soddisfazione dei 56 esordienti e dei 105 convocati; e del terzo posto ottenuto in Nations League. Dal fatto che a Mancini era stata affidata anche la supervisione sull’Under 21 si era arguito una sua a lunga gestione del clan azzurro. C’era stata anche la nuova eliminazione dai Mondiali del Qatar a opera della Macedonia, ma qualche buon risultato aveva ridato impulso all’ambiente azzurro. Ora le dimissioni hanno aperto un altro scenario, non certo limpido, per il nostro calcio. Ci sono stati degli episodi che hanno intorbidito le acque e magari ci saranno particolari che verranno presto alla luce.
Guardando al futuro, è cominciata la caccia al sostituto del c.t. e sono stati fatti alcuni nomi. Li riportiamo per dovere di cronaca. Non crediamo ai complottismi, ma qualcuno ha cercato collegamenti con il passo indietro di Spalletti dal Napoli, dopo lo scudetto vinto. Altri hanno parlato di Conte, Gattuso, Cannavaro, Grosso, De Rossi, Bollini (appena promosso vice ct) e del significato dell’avvento di Buffon a capo delegazione azzurro. Insomma, in attesa della decisione della Federcalcio si sono sentiti parecchi nomi. E’ cominciata la girandola delle ipotesi e ognuno ha in tasca il proprio candidato vincente per la panchina azzurra. Mancini ormai è il passato per quel che riguarda l’azzurro, ma magari fra un pò lo rivedremo in qualche club italiano o estero, o addirittura alla guida della nazionale dell’Arabia Saudita (si è parlato di cifre esorbitanti).
(ITALPRESS).
LA JUVENTUS E LA FAMIGLIA AGNELLI, UNA STORIA LUNGA 100 ANNI
La Juve targata Agnelli ha compiuto cento anni. Una ricorrenza maturata in circostanze difficili, visti i processi, le accuse, le penalizzazioni e la “rifondazione” piena di incognite. Senza scomodare gli studenti del D’Azeglio che fondarono il club nel 1897 (la prima maglia era rosanero), nè l’avvocato Hess, primo presidente nel 1912, occorre dire che la famiglia Agnelli entrò nella Juve con il vicepresidente della Fiat, Edoardo, appunto cento anni fa. Erano tempi in cui la fabbrica di automobili torinese divenne popolare e i suoi strateghi pensarono bene che avere una squadra vincente avrebbe dato maggior fulgore al “marchio”. Quando eravamo al Tuttosport, ci spiegarono il significato del gemellaggio calcio-industria e capimmo la strategia aziendale: dare un simbolo vincente ai molti emigrati del Sud che lavoravano in fabbrica alla FIAT. Dei tanti Agnelli che hanno rivestito il ruolo di presidente, quello che ha lasciato maggiormente il segno è stato Gianni, detto “l’Avvocato”, perchè divenuto il simbolo di un certo “stile”, al contrario di altri della famiglia, detti gli “agnellini”, che hanno contribuito a uno sbiadimento progressivo del club che tuttavia resta il più vincente (anche se chiacchierato) del nostro calcio: negli ultimi anni ha vinto nove scudetti di fila con Conte, Allegri e Sarri alla guida.
Qualcuno ha lasciato dei dubbi, ma non tutti. La Juventus è stata sempre vista come la squadra dei padroni. Avendo conosciuto, seguito, intervistato “l’Avvocato”, cioè Gianni Agnelli, abbiamo dei ricordi dei personaggi che lui ha amato perchè lo divertivano (Platini, Sivori, Anastasi, Zoff, Causio ecc.) e hanno fatto la storia della Juve. Le partite troppo tattiche non gli piacevano, amava i colpi di tacco di Sivori, le giocate di Platini, i gol del gigante Charles… Ognuno può raccontare un momento vissuto alla corte di Gianni Agnelli. Ricordiamo come il patron bianconero spiegò il perchè della scelta di Giampiero Boniperti -un altro personaggio vincente da giocatore e da dirigente – quale presidente del club. Fu semplice e diretto, nel corso di una ricorrenza all’hotel Principe di Piemonte di Torino: “Una volta -raccontò a una platea incantata dal suo fascino e del suo carisma – il giovane Giampiero venne invitato a visitare la tenuta di Volvera, vicino Pinerolo. Voleva avere in premio ogni mucca per ogni gol segnato. Si guardò attorno e mise l’occhio su quelle gravide e le scelse”. Il vaccaro disse allarmato all’Avvocato della furbizia di Boniperti. L’accordo andò in porto e il giovanotto divenne presto capocannoniere.
Agnelli capì che “quel giovanotto” era furbo e intelligente, prendeva una mucca, ma in realtà se ne accaparrava due: non avrebbe potuto fare che il bene della Juventus. E per questo lo aveva nominato anni dopo presidente. Di Gianni Agnelli ammirammo la classe quando, dopo che alla “Domenica Sportiva” avevamo commentato i problemi della squadra che andava malissimo, dicendo che la Juve di Maifredi era come la Duna, che non camminava neanche a spingerla, non battè ciglio. In una successiva occasione, si fermò volentieri a parlare: “Sì, perchè lei mi è simpatico, ma non potrebbe mai fare l’addetto stampa della nostra azienda”, disse con un intercalare significativo. I tifosi juventini sono avidi di successi, non sono mai stufi di vincere. Nell’albo d’oro della massima competizione europea, la Champions League, il nome del Club bianconero compare fra i vincitori solo due volte: nel 1985 e nel 1996. Eppure nel club juventino hanno giocato i Sivori, I Platini, gli Zidane ecc., campioni tutt’altro che provinciali. Oggi l’avvocato forse non sarebbe contento della “sua” Juve.
Abbiamo letto che l’Avvocato aveva l’abitudine di svegliare all’alba il presidente Boniperti e l’allenatore chiedendo loro notizie sulla squadra. E aveva i suoi pupilli, prevalentemente i funamboli, quelli che avevano i colpi, le prodezze. Cioè i Sivori, Haller, Platini. Oggi si sarebbe divertito meno, perchè vincere gli piaceva, sì, ma col bel gioco non con il tatticismo esasperato di oggi. A proposito di numeri: quanti scudetti ha vinto la Vecchia Signora? Questo è uno dei problemi del nostro calcio, sempre circondato da dubbi, misteri, casi difficili. Ufficialmente ha conquistato 36 titoli, ma i bianconeri ne reclamano altri due: in ogni caso sono quasi il doppio di quelli conquistati dell’Inter e del Milan. Il periodo di Ronaldo in bianconero (dopo che il club aveva potuto sfoggiare campioni come Buffon, Chiellini, Pirlo, Pjanic, Del Piero ecc) è stato tutto più facile. Al di là dei sospetti dei “nemici”, c’è un motivo che ci venne spiegato a Torino, quando cominciammo ad occuparci della Juventus per Tuttosport, nel 1968. Lo fece, con garbo, Angelo Caroli, un abruzzese che aveva giocato nel Catania e poi in bianconero (un gol all’esordio a Bologna) con Charles e Sivori, prima di divenire giornalista: “Lo stile è qualcosa che non si compra. O ce l’hai o no” ci disse. Evidentemente, la Juve lo ha avuto per un secolo. Tutti l’hanno rispettata e odiata, come i suoi “padroni”, di cento anni. Anche gli arbitri…
TRA CAMBIAMENTI E PARADOSSI, L’ARBITRO DEL FUTURO
Il calcio che cambia ha negli arbitri delle figure discusse, deboli e forse anche obsolete, per alcuni. Veder mutare continuamente l’interpretazione della regole e l’assistere all’erosione graduale, ma costante, del potere dell’arbitro, non fa escludere un cambiamento epocale, nel futuro. Con tutte le novità che favoriscono la tecnologia, ci troveremo con arbitri-robot in campo? Ovviamente la nostra è una ipotesi paradossale, ma in questo mondo così volubile e aggredito continuamente dagli interessi di parte, nulla ci sembra impossibile. E’ un paradosso, anche perchè senza un regolatore del gioco non si può giocare. Ai tempi di Concetto Lo Bello, l’arbitro era signore e donno e nessuno osava fiatare davanti alle sue decisioni, anche discutibili. Venne coniato per lui un vocabolario apposito: “dittatore”, “tiranno di Siracusa”, ecc. e pochi osavano opporsi alle sue sentenze (allora) inappellabili. Ve lo immaginate il decisionista Lo Bello nell’epoca del Var? Cosa sarebbe successo? Ma ci sono stati tanti arbitri nella storia del calcio italiano e internazionale (Casarin, Collina ecc.) che si sono imposti per la loro autorevolezza e senza Var.
Si è detto che oggi gli allenatori adottano la strategia della protesta, ma non è una novità in assoluto. Nereo Rocco a chi gli chiedeva della sua tattica, nei confronti dei direttori di gara, parlava sornione della “tattica del lamento”. Con Lo Bello furono scintille e non si amarono, anche se fecero pace in occasione del matrimonio di un collega, Alfio Caruso. Oggi Mourinho, a torto o ragione, si comporta in maniera molto aggressiva e sono arrivate dure sanzioni per le le proteste contro Taylor. Il designatore Rocchi sta cercando di arginare questa incomunicabilità, immettendo facce nuove, cercando di scoraggiare la filosofia dei “rigorini”, e di rivalutare la figura degli arbitri, elisa da proteste e sceneggiate. Il grande stratega del calcio Arsene Wenger, studioso del problema, vuol riportare il fuorigioco allo spirito originario: tutto il corpo dell’attaccante dovrebbe essere oltre oltre il difendente, cosa verificabile con la tecnologia. Insomma, nessun offside per la punta del naso di un attaccante. Su input dell’Ifab ci saranno recuperi più lunghi, come ai Mondiali del Qatar. I giocatori (forse) non perderanno più tempo.
Se ci sono sempre novità che implicano l’uso delle macchine è chiaro che, sotto sotto, della capacità dell’uomo-arbitro ci si fidi poco: qualcuno lo vede addirittura come nemico e si cerca di influire sulle sue scelte con atteggiamenti condizionanti. Lo stesso meccanismo delle promozioni, dei pensionamenti, a volta è mosso dal tentativo di accontentare i padroni del vapore, checchè se ne dica. Le prebende sostanziose che i fischietti percepiscono inducono spesso a critiche urticanti verso chi sbaglia, anche in buona fede. Si vogliono arbitri infallibili perchè “pagati”. E quasi nessuno può permettersi di tornare indietro perchè ormai è professionista del fischietto, è impegnato costantemente con allenamenti, presenze. Quindi tende ad assecondare l’onda. La stessa introduzione del Var, un aiutino non da poco, ha finito per rendere un pò sbiadita la figura del direttore di gara, pronto a chiedere lumi anche in casi evidenti. Quasi nessuno fiata e sono nate altre figure professionali: addetti al Var, ecc. Insomma, siamo in un mondo di gente che si gioca i miliardi, anche teorici e non suoi, e i direttori di gara sono più criticati dei giocatori che si mangiano i gol a porta vuota e dei portieri che si fanno sfuggire la palla di mano.
In più c’è la malizia dell’ambiente che cerca di ingannare gli arbitri in campo, ma anche fuori con i condizionamenti psicologici. Si comincia a scavare sul passato di un direttore di gara, sin dal momento della designazione, rendendo la sua vita difficile prima ancora di scendere in campo. Non ci meraviglieremmo, se in tempi di “intelligenze artificiali” qualche bello spirito saltasse fuori proponendola anche nel calcio. Se c’è il fuorigioco semiautomatico, se c’è il Var, se c’è l’orologio che dice se una palla è entrata o no, se le macchine possono decidere al posto degli uomini, perchè non affidare la direzione delle partite a un robot? In fondo agli albori del football, in Inghilterra, l’arbitro non c’era e i capitani si mettevano d’accordo fra loro, in caso di dubbio. Poi arrivò il referee con la campanella, successivamente quello col fischietto, i guardalinee, il quarto uomo, ora la stanza dei bottoni del VAR a centinaia di chilometri, ecc. Si è parlato di “tempo effettivo”, ora di recuperi più lunghi.
Le stesse regole introdotte nel tempo, hanno cercato di favorire un maggior numero di gol per l’espansione del calcio in mondi diversi: gli americani non amano il “soccer” perchè c’è il pareggio che nei loro sport non esiste, come non viene sopportato lo 0-0. Qualcuno deve vincere e i gol devono essere parecchi, per appassionare la gente. I giovani cominciano a disertare il calcio perchè troppo lento nel suo svolgimento: si vogliono emozioni forti e veloci. Poveri arbitri: troppe critiche, troppe moviole, troppe proteste. E indietro non si torna.
(ITALPRESS).
IL PARON NEREO ROCCO, PIU’ PRATICA CHE GRAMMATICA
Nei giorni scorsi a Milano è stato ricordato Nereo Rocco, mitico personaggio rossonero, protagonista di un calcio che non c’è più. Quando lo conobbi, anno 1972, all’Assassino, ristorante milanese d’altri tempi, una sera mi chiese un passaggio. Abitavamo entrambi al Residence Piave. Ero nuovo dell’ambiente e per Tuttosport mi ero trasferito da Torino all’ombra della Madonnina. Lui intuì che avevo bisogno di qualche notizia e durante il percorso, sulla mia auto, mi disse con fare paterno: “Mi no so, chi far zogar in attacco: go tanti Golin. Pierino Prati, Chiarugi. Vedarem. Tu scrivi che go el dubbio, ma io no te conosso (non ti conosco). Te dovrei pagar la corsa del taxi, ma te do la notizia”. Non era una notizia, ma una dritta. Un modo come un altro di darmi una mano. Così cominciò un rapporto che durò nel tempo. Una volta a Catanzaro gli sentii gridare: “Romeo sta ‘ndrio (indietro) che perdemo un milion!”. Le disposizioni tattiche di Nereo Rocco erano improntate spesso al pragmatismo. Il tecnico triestino faceva della filosofia spicciola: “Se tiri e prendi il palo e la palla va dentro, ti xe un campion; se va fora, ti xe un cojon”.
Il Paron non sopportava le ingerenze e non sappiamo come se la sarebbe cavata nel Milan più moderno, con un presidente-allenatore come Berlusconi che “consigliava” ai tecnici come schierare la squadra. Uno dei luoghi comuni del nostro calcio è che Nereo Rocco fosse un incallito catenacciaro. In realtà lui si inventò il libero, scopiazzando un pò dal “vianema” del suo amico-nemico Gipo Viani, ma praticandolo quasi esclusivamente nel Padova, la cosiddetta squadra dei “poareti” (poveretti), che prima portò alla salvezza, poi al terzo posto con l’arrivo degli Hamrin, dei Brighenti, dei Rosa, cioè fior di giocatori. Il Paron era stato un buon giocatore nella Triestina e aveva pure disputato una partita in Nazionale contro la Grecia (4-0), da mezzala, al fianco di Monzeglio, Guaita e Peppino Meazza, uno dei miti del calcio italiano. Ma la grande popolarità la conquistò sulla panchina del Milan, anche se guidò pure Torino e Fiorentina senza molti risultati. Al comando dei rossoneri conquistò scudetti, Coppe dei Campioni, Coppa Intercontinentale e tutta una serie di trofei.
Nel Milan giocava con Mora-Altafini-Barison più Rivera e Sani e, successivamente, con Hamrin-Sormani-Prati davanti al “golden boy”: altro che catenacciaro! Voleva anzi che gli attaccanti di spicco come Altafini o Prati stessero là davanti e non tornassero mai indietro. Non gli piaceva che si sfiancassero: dovevano esser sempre pronti a colpire. Non erano tempi, quelli, in cui il premio partita veniva stabilito per contratto e arrivava direttamente sul conto dei giocatori, in banca, come al giorno d’oggi. Rocco amava la manualità, voleva far toccare i soldi ai giocatori perchè ne apprezzassero il valore. Si presentava negli spogliatoi con una borsa piena di banconote. Faceva i mucchietti, a seconda delle prestazioni dei suoi. A chi aveva giocato male, diceva: “Ti te ga fato il mona, te speta de men de lori” (Tu hai fatto lo stupido, ti spetta di meno rispetto a loro). Ve lo immaginate, oggi? Lui era il “Paron”: il padrone, appunto. Anche se qualche volta si vergognava di certe cose. Gli proposero infatti di firmare un contratto pubblicitario per una industria di abbigliamento e gli diedero un pò di soldi e quattro vestiti nuovi. Lo fotografarono elegante, in tutte le pose. Quando dava le disposizioni per l’allenamento al suo vice, Marino Bergamasco, diceva solo: “Do giri driti, do giri campanon” (due giri correndo dritto, due a zig zag). E alla fine, per i tiri in porta, in palio c’era in premio l’anguria.
Un martedì, dopo una pesante sconfitta a San Siro con la Juventus (1-4), nel distribuire la posta (faceva anche questo, per controllare i suoi ragazzi), quando arrivò il turno di Sabadini – che aveva marcato l’attaccante bianconero Bettega, autore di una doppietta (un gol di tacco che restò emblematico) – fece finta di dargli una cartolina dicendo davanti ai giornalisti: “Ciapa, xe Bettega che te scrive e te ringrassia per i due gol, mona”.
La domenica prendeva in mano le maglie (numeri da uno a undici, a quei tempi) e le consegnava personalmente, quasi fosse una questione di fiducia, nelle mani dei giocatori. Se aveva un’incertezza, si teneva in mano l’ultima, quella in ballottaggio. Il rapporto con i giornalisti era rude o confidenziale. Mi chiamava “talian” (italiano) e un giorno che andai a Milanello con un vestito verde, mi disse: “Sta attento che non te magni un bove”, perchè allora tutt’attorno al ritiro c’erano i prati con tante mucche che pascolavano. Quando lo richiamarono in emergenza al Milan del dopo Marchioro non stava molto bene, si presentò ai cronisti amici che lo aspettavano davanti alla porta, si tolse il cappello di feltro, si inchinò, se lo rimise in testa e disse in tono solenne: “Ve spetavi che mi mori? Tiè…”. (Vi aspettavate che io morissi, tiè…). E ci fece il gesto dell’ombrello. Ma ne ebbe per poco.
AFFARI, ALGORITMI E SOGNI, UN CALCIOMERCATO LUNGO 60 ANNI
Quantum mutatus ab illo (quanto è cambiato). Parliamo di calciomercato, che in questi giorni abbellisce le pagine sportive e fa sognare i tifosi. Giocatori come Tonali, Frattesi, Weah e Thuram figli d’arte che inseguono i milioni. Allenatori che vanno, allenatori che vengono. Garcia promette mirabilie a un Napoli già su di giri; barricate per non cedere Osimhen a meno di 150 milioni; nomi esotici che bisogna imparare in fretta perchè “forse” arriveranno; fuga dei soliti noti verso il nuovo Eldorado, dove abbondano i petrodollari. Avendo frequentato da oltre sessantàanni questo paradiso estivo del pallone, ricordiamo con nostalgia il “mercato delle vacche”, valorizzato negli anni ’60 dal giornalista Giorgio Bellani e (praticamente) favorito dalla presenza di personaggi indimenticabili. L’ambiente dell’Hotel Gallia di Milano, con i racconti delle leggendarie imprese mercantili, era considerato un clima da mille e una notte: lì nasceva il campionato. I ricchi sorseggiavano bevande succulente, la maggior parte si dissetava nei chioschi attorno alla stazione, per risparmiare. Secondo le favole, il fondatore della fiera calcistica fu il principe Raimondo Lanza di Trabia, nobile palermitano e marito dell’attrice Olga Villi, scomparso poi tragicamente. Il nobile, in tempi di telefoni molto “difficili” e viaggi problematici, si piazzava nel celebre albergo milanese e trattava la mercanzia, cioè i giocatori. Un’altra leggenda narra che il principe ricevesse a volte gli interlocutori nudo o addirittura seduto sul water, ma noi – pur avendo conosciuto Lanza di Trabia – non abbiamo mai avuto contezza diretta di tutto ciò. Erano i tempi in cui all’ultimo giorno di mercato, i grandi presidenti si radunavano nei saloni dell’albergo per brindare e concludere con una stretta di mano gli ultimi affari. Oggi non vengono rispettati nemmeno gli accordi scritti. Si chiamavano Angelo Moratti, Andrea Rizzoli, Gianni Agnelli. Il re del mercato era Italo Allodi. C’erano anche presidenti pittoreschi e inattendibili che compravano “l’amalgama”, usavano anche fasci di cambiali per gli acquisti. Alcuni si giocavano i calciatori a poker. Molti nomi famosi lasciarono tracce indelebili come lo svedese Hasse Jeppson, chiamato Jeppesonne, che costò la cifra record di 105 milioni, al comandante Lauro, presidente del Napoli. Il suo successore Corrado Ferlaino comprò Beppe Savoldi per due miliardi destando ondate di indignazione dei benpensanti.
Esattamente al Bologna andarono 1.400 milioni in contanti più Clerici e la comproprietà di Rampanti, il tutto – si disse – mentre sulle strade della città partenopea si accumulavano montagne di spazzatura. Ferlaino però in seguito vinse lo scudetto con l’affare Maradona. Non parliamo degli articoli moraleggianti e delle riprovazioni di politici e che ne seguirono…Dal Gallia il mercato successivamente passò nei “luoghi deputati”, cioè strutture dove la Lega Calcio cominciò a essere presente con i propri uffici: dall’Hotel Hilton al Leonardo da Vinci, al complesso commerciale di Assago, fino agli alberghi dei giorni nostri e agli studi televisivi, da dove passano oggi tutte le notizie con trasmissioni più seguite di quelle politiche. La regolarità delle operazioni veniva garantita dalla presenza di Michele Tigani, funzionario della Lega, che cacciava gli intrusi e gli indesiderati dal tempio. Nei giorni di magra, negli anni Settanta e Ottanta, i cronisti in ambasce circondavano Italo Allodi, e successivamente Romeo Anconetani e Luciano Moggi, per capire come buttava. Ezio De Cesari, Aldo Biscardi e altri famosi colleghi, ricevevano soffiate che sparavano sui giornali, anche se spesso le notizie erano solo ipotesi di lavoro.
Le gente si beveva tutto. E ricordiamo le raffiche finali dell’ultimo giorno, quando a mezzanotte si riversavano sulle pagine dei giornali autentiche ondate di nomi a volte improbabili che finivano nelle edicole. Quando lavoravamo alla Rai, facevamo le nostre irruzioni televisive al calciomercato e i direttori dei tg ci concedevano spazi solo il giorno di chiusura, quando in generale non succedeva più nulla di grosso, costringendoci a salti mortali per fare fantasiosi racconti sul nulla. Insomma, il calciomercato, come oggi, faceva ascolti e faceva vendere copie. Fu un’invenzione tutta italiana (gli stranieri quando venivano a scoprirlo strabuzzavano gli occhi) e ravvivò la carriera di molti nelle estati prive di altre emozioni, sino al sacro momento dei raduni delle squadre. Oggi i veri affari vengono conclusi da ricchi procuratori, ben lontani dalle sedi deputate, dove si concludono solo gli acquisti minori. Si accettano consigli tecnici dagli algoritmi, si fa tutto davanti alle telecamere ed è un mercato digitale, di plastica. Ma piace lo stesso perchè alimenta le illusioni dei tifosi.
REPENTINA RESURREZIONE AZZURRA E OTTIMISMO DI MANCINI
Cambiati gli interpreti, la commedia della Nazionale azzurra si è trasformata da tragedia a pièce piena di positività e speranze. Contro l’Olanda si è vista un’altra Italia, capace di mettere alle corde i padroni di casa nel primo tempo e di soffrire nel finale. Abbiamo insomma scoperto una squadra diversa: il 3-5-2 è stato accantonato per ripercorrere la vecchia via del 4-4-3. Sepolto qualche ferro vecchio e branditi nuovi ma collaudati arnesi (il dott. Buongiorno e Dimarco in difesa, il geometra calcistico Frattesi a centrocampo, Raspadori e Chiesa in attacco), Mancini si è ripresa la scena, riconquistando il terzo posto in Nations League. Un risultato che non vale certo l’Europeo di Londra, ma se non altro tira su il morale e offre un panorama meno lugubre di quello seguito alla sconfitta con la Spagna. Gli iberici hanno vinto ai rigori contro la Croazia, aggiudicandosi, dopo Portogallo e Francia, il simbolico trofeo. Da settembre gli azzurri riprenderanno il cammino europeo per qualificarsi alla fase finale: la Macedonia del Nord (9 settembre) il primo ostacolo, poi gli altri, Ucraina, Malta e soprattutto Inghilterra. Con la speranza che non vada a finire come a Palermo per le qualificazioni mondiali. Dotato di potenti amuleti, il ct seguirà l’Under 21 con l’auspicio di trovare qualche elemento in grado di inserirsi nella nazionale maggiore: Bellanova, Scalvini, Parisi, Udogie, Bove sono alcuni dei nomi sotto osservazione. Tonali è in “prestito” all’Under e forse lo vedremo presto in mediana, viso il declino di Jorginho e Verratti. Il problema del gol, anche se ne abbiamo rifilati tre alla permeabile difesa olandese, non è stato del tutto risolto. Tentare ancora con Retegui, Chiesa e Raspadori è d’obbligo, ma vedere se i Berardi, Scamacca, Zaniolo possano dare qualcosa in più, è necessario. La regia è un altro problema: è stato provato Cristante, ma nell’Under 21 c’è Rovella. Tutti sotto osservazione, ad ampio raggio, compreso Lucas Piton, un difensore molto velenoso del Vasco de Gama. Noi importiamo oriundi, ma esportiamo allenatori: Ancelotti, che probabilmente guiderà la Selecao fra un anno. Quando qualche risultato, sia pur minimo, ci asseconda, diventiamo vulcani di idee. Il nostro vivaio è improvvisamente una miniera. Le ipotesi che si fanno sono tante e ognuno ha in tasca un nome e un cognome, ma Mancini non può chiamare tutti: il taumaturgo del calcio italiano, fra l’altro, trova sul proprio percorso ostacoli di vari tipi, molto spesso i club non collaborano. Ma non si scoraggia e la frase magica “Vinceremo il Mondiale” ci riempie di speranze. L’ottimismo è importante. Anche se non è il solo a fare proclami e parecchi partono con idee brillanti. C’è un particolare non trascurabile, tuttavia: bisogna prima qualificarsi (e gli ultimi due Mondiali sono stati “ciccati”) e poi vedere di fare il meglio possibile. Una rondine (anche se olandese) non fa primavera.
BERLUSCONI, PROTAGONISTA SULLA SCENA CALCISTICA
Tutto si può dire di Silvio Berlusconi, che ci ha lasciati oggi a 86 anni, ma non che non sia stato un grande personaggio che ha dominato la scena come imprenditore, politico e presidente del Milan. E’ stato uno di quei personaggi che si possono amare o no, ma anche un indiscusso protagonista su molti fronti. Lasciamo ad altri raccontarne le vicende in campo politico, imprenditoriale e nella sua brillante vita di tutti i giorni. Noi lo conoscemmo quando arrivò al Milan, dopo una lunga serie di peripezie legali rossonere, da salvatore della Patria in un mare di debiti. Non sapevamo chi fosse. Nella prima intervista ufficiale per la Rai, lo presentammo come “industriale” e lui ci corresse davanti alla telecamera:”Imprenditore, dica imprenditore.” Per noi era solo un elegante e ricco signore che aveva comprato il Milan dopo i disastri combinati dai suoi predecessori. Amava il calcio e voleva affermarsi anche in questo campo. Hanno detto che era interista e aveva tentato di comprare il club nerazzurro ai tempi di Fraizzoli, ma non possiamo star dietro a tutte le dicerie. Allenatore rossonero, quando Berlusconi prese il Milan, era Nils Liedholm, il pacioso svedese che durò poco, sia perchè il nuovo presidente voleva gente fresca, scattante, sia perchè i risultati non erano esaltanti.
Inoltre lo svedese faceva battute ironiche, poco gradite all’entourage del nuovo “padrone”, come quella secondo cui Berlusconi si intendeva molto di calcio perchè era stato “allenatore dell’Edilnord”, la squadretta aziendale della Fininvest. Insomma, eliminato in Coppa Italia dal Parma guidata da un tecnico sconosciuto che si chiamava Arrigo Sacchi, Berlusconi, quando ci fu da prendere il nuovo allenatore, scelse il “mago di Fusignano”. Deducemmo che gli era rimasta in gola una scaglia di parmigiano. Con Sacchi il Milan vinse scudetto, Coppa dei Campioni, Intercontinentale, tutto, e Berlusconi si affermò agli occhi del mondo come presidente vincente a tutti livelli. Certo, sborsò ingenti cifre, per comprare gli eccezionali assi olandesi Gullit, Rijkaard e il goleador Marco Van Basten, Ancelotti: campioni e Palloni d’oro che portarono il Milan sul tetto del mondo. Con Sacchi poi sorse qualche problema (il tecnico pretendeva che fosse venduto Van Basten) e Berlusconi, con felice intuizione, con diplomazia dirottò il “mago di Fusignano” in Nazionale e diede tutto in mano a Fabio Capello -che era cresciuto alla scuola Milan come tecnico-: anche il nuovo arrivato vinse scudetti, Coppa Campioni ecc.
Successivamente insediò sulla panchina rossonera anche un’altra sua creatura, Carletto Ancelotti, che aveva vinto da giocatore col Milan. Insomma, il “presidente” aveva un gran fiuto in campo calcistico, oltre che in campo imprenditoriale e politico. Dato a Berlusconi quel che è di Berlusconi, e detto che da presidente ha conquistato ventinove trofei, bisogna aggiungere che negli ultimi anni le cose cambiarono. Nella vita di Berlusconi era entrata la politica e il calcio era diventato un’altra cosa, gli investimenti erano diventati pesanti, gli anni erano passati anche per lui, e i tecnici che si alternarono alla guida rossonera non furono il massimo e così i successi cominciarono a svanire. E Berlusconi era un vincente. Negli ultimi dodici campionati il Milan vinse solo uno scudetto (2011, allenatore Allegri, in campo Ibrahimovic). Poi sono andati via Max e i grandi campioni, fra cui il citato Ibra, Pirlo, Thiago Silva ecc. e il Milan non ha vinto più. Sono subentrati problemi societari, contestazioni, la figlia Barbara con idee diverse da Galliani, che è stato sempre il braccio destro del presidente. Inoltre alcuni allenatori non hanno accettato di buon grado i “consigli” tecnici del presidente e siamo arrivati ai giorni nostri, col Milan fuori dalla Champions.
Non dimentichiamo tuttavia che sotto l’impero di Silvio sono stati vinti dal Milan, come detto, 29 trofei: un mondiale FIFA, due Coppe Intercontinentali, cinque Coppe dei Campioni, cinque Supercoppe Europee, otto scudetti, una Coppa Italia, sei Supercoppe di Lega. Inoltre, cinque giocatori rossoneri hanno conquistato otto Palloni d’oro: Van Basten (tre), uno Gullit, Weah, Shevchenko e Kakà. Un presidente impareggiabile, quindi. E un appassionato di calcio che non ha esitato a rimettersi in gioco acquistando il Monza portandolo in serie A. Re Silvio è stato il più grande presidente del Milan (e non solo) nonchè uno dei personaggi a tutto tondo della scena italiana. Con i suoi punti di forza e le sue debolezze. Come tutti. Ci dispiace.





