La Barba al Palo di Italo Cucci

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RONALDO SALVA PIRLO, SASSUOLO NUOVA ATALANTA, IBRA COME MATTHEWS

Cattiveria del giorno: entra Ronaldo, segna, la Juve vince, Pirlo sembra (sembra) sollevato, il tifoso juventino (moderato) commenta: “Con uno così potrei allenare anch’io”. Sì, c’è anche Morata-gol, ma CR7 non va in fuorigioco come lui. Colpisce e uccide (metaforicamente) con quel sorriso da re dei cinici gli avversari che non hanno un campione o non sanno servirsene. Vincenzo Italiano è bravo e ha anche un bel nome, ma dovrà battersi per la salvezza, altri traguardi credo siano vietati. Vedi poi il Torino, che il campione c’è l’ha, Belotti, ma non ha l’allenatore: anche Cairo (auguri a parte) sta perdendo la scommessa Giampaolo; mentre la Lazio, che ha contato sulle punte delle dita i giocatori lasciatele dal Covid, ha un Inzaghi “sanitario” che guarisce anche Immobile (chissà se a Torino se lo ricordano, Ciro).
E il Napoli? Applausi, fischi, esaltazione, depressione, qualità tante ma un fastidioso senso d’immaturità che affligge una squadra degna di battersi con la Juve in cantiere (l’immagine piace a Gattuso che a sua volta ha però lavori in corso) e l’Inter mai nata. (Bravo comunque Gennaro che rifiuta, dopo la batosta, di parlare del contratto; c’è gente che chiederebbe a un uomo in lutto che film si vedrà la sera in tivù…).

Il Napoli perde al San Paolo col Sassuolo come un tempo si faceva sorprendere dall’Atalanta. E il Sassuolo è l’Atalanta di questo campionato. E De Zerbi – che tengo amabilmente sottocchio dai tempi di Benevento, purtroppo ignorato dal Napoli – è il nuovo Gasperini, pensatore, masticatore e produttore di un calcio vero che parte dalla banale (anche rara) costruzione di una squadra. Il Sassuolo è giustamente secondo in classifica, mi vien da pensare che peso politico avrebbe se non fosse il club di un piccolo ricco centro operoso dell’Emilia dei miracoli. E il Milan – finalmente, se non altro per il recupero di una grande alla sfida vinta fino alla noia dalla Juve solitaria – è giustamente primo, nonostante l’avversione (oggi silente) della critica intellettuale alle scelte tecniche del giovane Maldini: Pioli al posto di Giampaolo (il presunto Guardiola de noantri massacrato dalla Lazio), Pioli al posto di Rangnick, una sorta di mago Otelma senza verifiche definitive. Pioli è il mister dei giovani, di Saelemaekers, Leao, Bennacer, Dalot, Brahim, Tonali, Calabria, Hernandez. E di Ibrahimovic, il più giovane (quasi) quarantenne del calcio mondiale. Pensando a Stanley Matthews (che giocò fino a cinquant’anni) lo chiamerei già Sir Ibra.
(ITALPRESS).

L’IMPACCIO DI PIRLO E IL RICORDO DELLA JUVE DI ALLEGRI

Pirlo, dimmi perchè non credi a Kulusevski. Eravamo tutti presi a cercar spiegazioni per l’assenza di Dybala, poi Paulo torna. E sparisce invece il campione che la Juve se l’è guadagnata giocando, non partecipando alla riffa con Suarez. Lo svedese – non ridete – entra dopo un’ora e riaccende una squadra molle e distratta; e al 71′ non solo segna il gol del pareggio ma rivitalizza anche Paulo, improvvisamente vivace, spinto da inedito furore verso la porta avversaria. Il comprensibile impaccio di Pirlo – ahi Crotone – reclama già attenzione. Gli addetti ai lavori – juventinizzati a parte – sperano che certe prove soffertissime annuncino una pausa dello scudettificio Conte-Allegri-Sarri. Agnelli dirà no: la Juve è la Juve, Pirlo è Pirlo. Il Decimo (consecutivo) lo vuole. Ma la Fatal Verona dà un segnale forte (al Bentegodi è sempre stata dura, anche con il Chievo): non è l’assenza di Ronaldo, il problema, nè il sommesso ritardo di Dybala. E’ l’intero impianto, a soffrire. Troppo giovane a Crotone, troppo “sciolto” a Verona. Eppoi – ripeto – l’incomprensibile sparizione di Kulusevski.
L’avversario c’entra, naturalmente, in questa tormentata esibizione bianconera. Juric è un ottimo allenatore, il Verona una squadra coraggiosa che gioca un bel calcio e sembra in grado di intercettare e spegnere tutte le idee di Genius Pirlo: questo è anche un test di valore prima del match con il Barcellona che dopo la batosta nel Clasico (Var sotto accusa) sarà forte di rabbia. E anche dall’ancora non rivelato ma già favoleggiato diciassettenne Ansu Fati, gol bandiera contro il Real. Ogni discorso – Verona compreso – non può ignorare Ronaldo, il Fantasma del Covid: si sente la sua mancanza quando Dybala improvvisa e non riconosce interlocutori se non lo svedese.
C’è comunque gente, in questa Juve, che non merita la fiducia di Pirlo: Rabiot e Ramsey, ad esempio, lo stesso esaltato Arthur va a corrente alternata; poi a tutti manca – a Bernardeschi in particolare, giustamente sostituito da Kulusevski – lo spirito battagliero, l’aggressività che esibisce il Verona non con spirito provinciale ma come se sulla panca gialloblù – pur degnamente occupata da Juric – ci fosse Conte. Già, caro Pirlo, un pò d’intensità non ci starebbe male.
Nessuno ha sostituito la cattiveria di Pjanic. E la Juve 20-21 non ha ancora sostituito la Juve di Sarri, già ridimensionata rispetto alla squadra di Allegri. Ricordate? La Juve che giocava male. E adesso Messi. Max, dove sei?
(ITALPRESS).

COMPIE 80 ANNI IL DIVINO PELE’

Edson Arantes do Nascimento detto Pelè compie ottant’anni. Volendo, anche cento, non per farlo Grande Vecchio ma Divo Eterno. Qui Divo non vuol dire popolare, come si dice di attori o anche calciatori travolti da milioni di fans, o influencer tampinati da milioni di followers, no: Pelè è semplicemente Divino, collocato da sempre in un Olimpo per viventi eccezionali. Forse per i tre Mondiali vinti, in Svezia nel ’58, in Cile nel ’62 e in Messico nel ’70? Forse per i 1281 gol segnati in 1363 partite? No. E non aggiungo altri trofei, altri riconoscimenti che ha ricevuto in tutto il mondo. Voglio solo dire – semplificando – che chiunque di voi che mi sta leggendo – bambino o centenario – sa chi è Pelè, lo ha visto e sentito almeno una volta nella vita. E io ne scrivo non per ricostruire la sua stranota vita ma per dirvi – orgoglioso – che l’ho conosciuto bene e che pur avendo un anno più di lui, lo accosto ancora come quando non avevo ancora vent’anni e lui era già Campione e del Mondo: non in adorazione ma felicemente stupito della sua bravura e della sua semplicità.
Il primo incontro non fu in uno stadio per una delle sue 1363 esibizioni ma in un giorno d’inverno a Riccione, un passaggio fuori ordinanza nella cittadina romagnola con una nuovissima moglie tedesca, Rosemarie, che le tante biografie ignorano. Era il 28 febbraio del 1966, un anno poco felice per lui (gli avrebbe fatto conoscere anche il nerbo selvaggio di pedatori bulgari e portoghesi al Mondiale d’Inghilterra) cominciato con la fuga del suo manager con tutti i soldi guadagnati in carriera. Pelè fu salvato da un amico/ammiratore tedesco, il birraio Roland Ender presidente del Monaco 1860 – il club dei “cugini poveri” del Bayern – che pagò i suoi debiti e gli presentò Rosemarie dopodichè, essendone un habituè, li portò a fare una rapida svernata a Riccione. Dove lo incontrai (non esistevano i selfie ma una bella foto con lui ce l’ho) e mi resi conto della sua immensa e incredibile umiltà. Non dico modestia, virtù spesso artificiale: umiltà. Uno fra tanti, uno con noi. La sua visita fu considerata dai giornaloni una balla (come le odierne fakenews) e ce lo godemmo in esclusiva. Quando dicevo “ho incontrato Pelè” dovevo tirar fuori la fotografia scattata da Palmas, un famoso fotoreporter romagnolo.
Lo ritrovai quattro anni dopo e fu un doloroso incantesimo: finale del Mundial 1970, a Messico, dopo lo storico Italia-Germania 4-3, lo vidi segnare a Albertosi quel gol con un pallone rubato al cielo, restando sospeso in volo come un’aquila. O un angelo. Ma il rapporto nato a Riccione riprese vigore quando, nel 1971, vivemmo insieme una tournèe in Nordamerica – New York, Toronto e Montreal – con il suo Santos, il Bologna di Edmondo Fabbri e il West Ham di Bobby Moore. Vivevamo negli stessi alberghi, seguivo i suoi allenamenti ma soprattutto mi consentiva di assistere alle sedute di massaggi e esercizi che rivelavano la sua straordinaria fisicità. Lavorava duro e un giorno mi disse: “Non posso lasciarmi andare, io sono la banca del Santos, se ci sono io, in squadra, può chiedere cifre astronomiche”. In un Bologna-Santos, subìto un tunnel dal rossoblù Mauro Pasqualini, si tolse la maglia e gliela donò seduta stante. Non era falsa modestia ma illuminante umiltà. Contatti ulteriori quando dovendo scegliere fra lui e Maradona, fatti i conti mi permisi di dire – a un summit mediatico – che il miglior calciatore di tutti i tempi si chiamava Alfredo Di Stefano. E non ho cambiato idea. Con l’eterno ragazzo di Très Coraçoes, ci siamo ritrovati a Milano nel 2004 per la presentazione del suo film/documentario “Pelè eterno”. Un saluto, “ciaociao”, e via. Con quelli intorno che non capivano. “Ciaociao”. Perchè così si fa, fra amici vicini e lontani, quando si desidera ritrovarsi. Aspetto il momento buono. Intanto, auguri umanissimi, divino Pelè.

‘NONNO’ IBRA RISORGE DAL COVID E REGALA IL DERBY AL MILAN

Capita che mentre i tremebondi anti-calcio – ispirati dal tremendismo dei virologi – chiedono la sospensione del “pericoloso” campionato, proprio da questo intermezzo giocoso di un’esistenza impaurita parta un messaggio positivo (nel senso buono…): il Milan e Ibrahimovic offrono una prova di vita durante l’incalzante ritorno del Covid. Il Milan è stato letteralmente ricostruito da Stefano Pioli durante il lockdown, senza lamenti per i contagiati finiti in quarantena, in silenzio, dando inizio a una mirabile sequenza di successi che hanno portato sabato alla clamorosa vittoria sull’Inter nel derby che ormai da tempo aveva perduto tracce rossonere. E con due gol di Ibrahimovic, un “nonno” del campionato (come Buffon) anche se preferisce l’immagine più sfiziosa di Benjamin Button. Ibra ch’è risorto dal Covid, dalla quarantena, dalla paura (altrui) più bello e più forte che pria, alla Petrolini.
Non è un miracolo, sia ben chiaro, anzi una mera rappresentazione di ciò che vuol dire curarsi e seguire una vita quotidiana corretta; una lezione – ammesso che l’intendano – per tutti quei tifosi che sabato sera, fuori San Siro, hanno esibito tutta la perniciosa stupidità che li nutre, pari a quella degli webeti che infuriano sui social.
D’altra parte è giusto sapere che se il nostro calcio conta una ventina di “positivi” si tratta di un nonnulla rispetto al numero di tesserati impegnati nel gioco del pallone, in tutto 12.343 così suddivisi: 1284 in A, 569 in B, 1075 in C, più i relativi giovani delle tre serie (2355+2091+4967). E non parliamo dei dilettanti (347.294) e del settore giovanile e scolastico (675.513) che portano i praticanti calcio a oltre un milione. Questi numeri sono indirizzati all’attenzione dei ministri Speranza e Spadafora perchè capiscano che si tratta di un’impresa produttiva di primo piano e non di un’attività dopolavoristica.
Poi c’è il gioco che invece vorrei sempre trattar prima. C’è il Napoli che strabatte l’Atalanta e adesso ce l’ha con l’Asl napoletana che gli ha impedito di andare a Torino a battere la Juve, ipotesi non campata in aria se la Juve fosse stata quella di Crotone, frutto di velleità di rinnovamento e di improvvisazione. Da Pirlo m’aspettavo scelte più logiche, meno avventurose, e Stroppa ne ha approfittato (come avrebbe fatto, in ipotesi, Gattuso).
A parte l’ottimo stato di salute (anche tecnica) del Milan, anche Conte ha commesso qualche errore per leggerezza, mandando in campo un’Inter che prende gol per gravi scompensi difensivi. Lukaku è grande, non manca mai, il gol lo fa sempre e cerca anche di aiutare la squadra, alla grande quando c’è disponibile il contropiede; ma Romelu non è Zlatan, la cui personalità vale da sola a ipotizzare un Milan da scudetto, lo stesso Milan che Rangnick voleva senza Ibrahimovic. Al quale indirizzo un applauso e un incoraggiamento: uno dei più grandi calciatori d’Inghilterra, sir Stanley Matthews, ha giocato fino a quarant’anni in nazionale e fino a cinquanta in Premier, fra Blackpool e Stoke City (nell’intervallo di guerra, sei anni caporale della Royal Air Force). Coraggio, ragazzi…

ATALANTA FONTE D’ISPIRAZIONE, IL MILAN PUO’ ESSERE LA SORPRESA

di Italo Cucci
Più che mai, senza retorica, senza lacrime, con la serenità che trasmettono i forti, bisogna guardare a Bergamo, alla Dea. Che singolare coincidenza avere una squadra che si chiama Dea: ispira sicurezza, forza, fantasia, vitalità, tutto quello che il Paese ha rischiato di perdere nelle città, nei paesini, nelle contrade che hanno reagito e si sono difese meglio di quei luoghi d’Europa oggi tormentati dalla pandemia. Una partita non giocata senza luttuose premesse può essere l’inizio della fine di un campionato che prima abbiamo difeso perchè restassero almeno un’evasione e un sorriso ai “prigionieri” del lockdown, così come oggi gli chiediamo quel supporto di ottimismo da opporre ai catastrofisti e ai negazionisti. Il peggior derby di tutti i tempi, con improvvida negazione delle regole.
Juve e Napoli non giocano. Forse anche il Bologna, l’Udinese, il Verona e lo Spezia sconfitti, il Cagliari macinato dall’Atalanta almeno un motivo per non giocare l’avevano: ma il verbo è Giocare, non Fregare. (Penso al piccolo Trapani che s’è disfatto nell’attesa di uomini veri e rischia di essere cancellato: doveva chiamare la Croce Rossa?). Ma anche la Juve sembra con il suo gesto protesa solo verso il 3-0 a tavolino, senza rendersi conto – o proprio per questo – che una sfida di calcio è ormai diventata una triste faida di popolo. Agnelli ha parlato e il suo rispetto delle regole non fa una piega. Se fosse…Babbo Natale proporrebbe di rigiocare la partita. Ma le regole glielo impedirebbero. In fondo, è la conferma che le regole, in questo Paese, valgono solo nel calcio.
Un pensiero di calcio, solo calcio, almeno uno, a questo punto mi viene spontaneo, è il seguito di un discorso cominciato tempo fa: il Milan sta crescendo con una continuità che gli merita anche la fortuna dei rigori dell’altra sera. E’ sereno, compatto, fin allegro, anche senza l’Ibradiddio: è una squadra. Cerchiamo da tempo alternative al potere juventino: è vero che l’Inter mostra una forza inedita ma i rossoneri possono rappresentare la sorpresa. Il campionato della domenica continua, quello del sabato non è neanche entrato nel feroce confronto Juve-Napoli che chissà quando finirà: il Sassuolo ha bombardato il Crotone che ha solo contestato scelte arbitrali, com’è giusto; l’Udinese ha perduto la terza partita consecutiva, l’unico preoccupato è Gotta. Ora aspettiamo solo che scenda in campo il Tar (non specifico quale, ma c’è l’ho sulla punta della lingua). Non sollecito spensieratezza, anzi raccomando prudenza, un’attenzione vera e responsabile ai rischi del paventato Covid di ritorno. Ho aggiornato uno slogan di successo: “La cosa più importante, di questi tempi, non è vincere ma vivere”.
Italo Cucci ([email protected])
(ITALPRESS).

LA LINGUA DEL GOL DI SUAREZ, RIBERY IL TERRIBILE E LA LEZIONE DEI VECCHI

Di Italo Cucci
E’ rinato a 33 anni, quando secondo Vangelo succede il contrario. Dico di Luis Suarez che dopo i due gol segnati con la fresca maglia dell’Atletico Madrid ha potuto cantare la propria gloria nella sua lingua, lo spagnolo, e non dire cose approssimative in italiano, tipo “io contento di segnare, io volere sempre vincere”, che riportate testualmente su qualche giornale avrebbero scatenato le polemiche dei seguaci del politicamente corretto. Certo, se non avesse dovuto superare quell’esame idiota la sua parte alla Juve l’avrebbe fatta, il Dentone; e invece, secondo stile tutto italico, mentre lui se la gode a suon di gol noi saremo costretti a vivere e raccontate la telenovela giudiziaria che secondo me non appartiene al calcio: è il trionfo di una burocrazia razzista, nel senso che per certe normative che riguardano la concessione della cittadinanza italiana le razze sono due: i potenti e i poveracci. Per non dire i ricchi e i poveri. Dicono a Roma: articolo Quinto, chi ha i soldi ha vinto. Avanti così.
E dunque il trentatreenne Suarez ha fatto la sua parte da vecchio, così l’ha trattato il Barcellona, nonostante di questi tempi si dica “ragazzo” di un quarantenne, “giovane” di un cinquantenne.
E lo collego all’impresa di Franck Ribery a San Siro contro l’Inter (come a quella, precedente di Ibra con il Bologna sempre su quel campo tornato ad essere terribile). Risultato a parte, l’esibizione di Ribery è stata da Grande Vecchio o ancor meglio da Fenomeno. Un allenatore spaventato dal vantaggio gli ha rubato una serata di gloria in un tempio del calcio: Iachini come un mister anni Sessanta ha tolto il Migliore e ha impiegato bassa forza per difendere il risultato, un assist perfetto per un Conte desolato che ha subito reagito a dovere: Vidal, Nainggolan, Sanchez, Sensi, tiè. E s’e pappato l’avversario, e la Viola è appassita. Certi errori non si fanno. Così è importante impratichirsi dell’uso di ben cinque sostituti. Conte non ne ha sbagliato uno. E tuttavia vale la pena trarre un insegnamento dalla prova di Ribery: Franck il Terribile ci ha fatto vedere il calcio d’antan e dunque non schifiamo l’ingaggio di “vecchi” campioni che possono riportare il nostro campionato almeno a livelli di qualità anche se mancano i soldi. Non dirò mai di preferire i vecchi ai giovani, credo solo che i Maestri possono aiutare gli Allievi a crescere.
Pensate a Dries Mertens, ancora in gol con il suo Napoli che ne ha fatti 6 al povero Genoa. Due di questi sono di Lozano che alla seconda stagione al fianco del belga sta prendendo la strada giusta. Ribery e Ibra (a proposito il Milan ha vinto a Crotone anche senza il suo “vecchio” e ha anche scoperto Brahim Diaz) affascineranno anche i ragazzini d’oggi come un tempo Rivera e Mazzola, Baggio, Fino a Del Piero e Totti. Bisognerebbe raccontare ai più giovani che magari si sono innamorati della favola di George Best, della sua genialità folle, della sua controversa avventura umana, che il più grande d’Inghilterra si chiamava Stanley Matthews, il Lord della Regina che smise di giocare a cinquant’anni. Non mi inserisco nel dibattito sui pensionati, dico solo che un tocco d’esperienza può aiutare una squadra a crescere. Vedrete…
Italo Cucci ([email protected])
(ITALPRESS).

E’ PARTITO IL CAMPIONATO, E’ GIA’ UNA BUONA NOTIZIA

Non so se è una stella ma è certo che ieri sera, mentre si confermava Kulusevski, è nato Gianluca Frabotta, 21 anni, romano, Under tutto, terzino sinistro con gran tiro…sinistro.
Pupillo dell’ex allenatore dell’Under 23 juventina, tale Pirlo, poi chiamato a sostituire Sarri. Andrea s’è portato dietro – bravissimo – la prima idea che ha fatto onestamente la sua parte da difensore essendo costato meno, molto meno dell’infortunato De Ligt, praticamente il “rosso” del bilancio. Gianluca – felice rappresentante del new deal juventino insieme a Weston McKennie – s’è rivelato anche portafortuna, visto che mentre cercavamo di identificarlo meglio sul campo, la Juve andava in gol con Kulusevski, il ragazzo svedese suo già da mesi, che temevo perduto nel guazzabuglio creato da Dzeko e Suarez (passi per il primo, follìa il secondo che ha appena imparato a…mordere in italiano ma non potrà parlarlo a Torino) mentre sta trovando il suo posto a fianco di Ronaldo, felicemente in gol sennò s’arrabbia. Avevo scommesso su Kulusevski dieci mesi fa, ammirandolo in un Bologna-Parma; non sono solito sprecarmi in elogi per novizi, per Dejan feci un’eccezione, e mi cito con piacere: “La mia esperienza – scrivevo – giustifica l’ ammirazione di un ragazzo che ha un rapporto intimo con la palla, con gli spazi, con i compagni che lo assecondano in azioni visibilmente destinate al successo. Il gol segnato al Bologna è stato tanto bello che ha attutito la sofferenza del tifoso rossoblù”. Mi complimentai con D’Aversa, allora, che aveva completato il lavoro su Dejan iniziato da Gasperini. A proposito di D’Aversa, inspiegabilmente sparito, il Parma del debutto ha consentito al Napoli di ripresentarsi tale e quale l’ha ricostruito Gattuso dopo la misteriosa parentesi ancelottiana: il Carlo che conoscevo l’ho ritrovato a Liverpool con l’Everton partito a mille. Succede. E’ il bello del calcio. Bellissimo è Mertens, il gioioso sopravvissuto alle pazziate di De Laurentiis che però se lo tiene caro: iniziare un nuovo campionato con il solito gol del solito Mertens dà sicurezza al gruppo. In particolare a Insigne, ritrovato tosto e lucido e preciso come nei giorni migliori. L’Inter salta la “prima”, forse l’abile (rinato) Marotta sapeva già che Vidal sarebbe arrivato ieri. Merita attendere con curiosità il Milan, aspirante a un ruolo di protagonista dopo i miracoli post lockdown. Miracoli, modo di dire: buon lavoro di Pioli e di Ibra il Maestro e l’Archistar che hanno creato una squadra inesistente da anni. Va a esaminarlo il Bologna che se avesse lo spirito di Sinisa potrebbe espugnare San Siro. Ragazzi, è partito il campionato. E’ già una buona notizia. Buonissima la ripartenza di Diletta Leotta. Promettente il debutto fiorentino della Var di basso profilo. Prima di estinguersi. Ottima la prima di Pirlo. Eppoi viva gli stadi che hanno aperto le porte ai simbolici Mille, gli invitati anticipatori degli eserciti di tifosi pronti a scendere…in curva. Prima di cantar vittoria, però, sconfiggiamo la paura. Adelante, amico pallone. Con giudizio.

L’INTER E IL CORAGGIO COME VALORE AGGIUNTO

C’è una cosa che spesso, se non sempre, viene dimenticata dagli opinionisti che non sono nati nel calcio ma nelle tv, anche quelle ad ascolti personalizzati. Nel momento decisivo entrano in campo virtù non apprese a Coverciano o sui libri: sono
l’orgoglio e la disperazione che producono frutti estremi – come la vittoria – se nascono dove già esistono professionalità e quel tanto di qualità inevitabile se si frequentano tornei nazionali e internazionali di alto livello. Mi verrebbe da dire anche la fortuna – invocata dagli addetti ai lavori soprattutto quando manca – ma preferisco la voce breriana/gozzaniana del calcio mistero bello e senza fine. Il quid – direbbe Berlusconi – che un tempo favoriva anche il Tredici al Totocalcio, festa smarrita nella nebulosa delle scommesse.
Antonio Conte possiede in quantità non solo le nozioni per costruire squadre vincenti ma anche i mezzi pratici per realizzarle. Dopo mesi di incertezze, va e vince, anche clamorosamente, aggiungendo con le parole del dopopartita un elemento mancante al mio breve elenco di virtù:”I ragazzi hanno avuto coraggio”. Quel quid che “uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”. Un tecnico che con “i ragazzi” ci vive sa se al momento giusto il coraggio l’avranno. I nerazzurri l’hanno avuto e hanno demolito l’avversario ucraino/brasiliano non solo esibendo gli abituali prodigi di Lukaku ma risvegliando gli affievoliti slanci di Lautaro Martinez, forse liberato dalle ansie barcellonesi dopo aver visto il Barça affondare a forza di siluri tedeschi.
A ben vedere, Barcellona-Bayern è stata l’unica partita di cartello risoltasi con un risultato certo esagerato ma logico: fra i più forti rimasti in Champions è rimasto in lizza il fortissimo che ha recuperato anche un Muller d’annata mentre sul fronte avverso sprofondava il mito di Messi (dunque pronto ad essere recepito da un campionato “basso” come il nostro). Il resto appartiene a quelle motivazioni straordinarie che ho elencato: le imprese del Lione, del Lipsia, e ci stavano anche quelle dell’Atalanta se ci avesse creduto fino in fondo. L’Inter, con la doppia impresa di eliminare Bayer Leverkusen e lo Shakhtar elogiatissimo da Lucescu, ha fra l’altro ridicolizzato il teorema degli opinionisti ginnasiarchi che avevano trovato una spiegazione non tecnica (troppo difficile?) alla sopravvivenza nella fase finale della Champions di sole squadre tedesche e francesi, ridefinite “le Riposate”, mentre tutte l’altre – Juventus compresa – erano “le Stanche”. L’Inter, dichiaratasi stanchissima fin da quando si discuteva se ricominciare o no il campionato (pensate come doveva esserlo dopo averlo giocato anche con forte dispendio di energie) ha speso al momento giusto il valore aggiunto del coraggio. Forse anche della disperazione, visto tutto quello che c’è in ballo nella società e nella squadra. Aggiungo una considerazione non gratuita: così com’è andata rivelandosi match dopo match, l’Europa League non è la Coppa del Nonno e neppure un contentino: Inter-Siviglia di venerdì 21 agosto è una finale che non ha nulla da invidiare a quella che verrà definita dal coraggio o dall’inferiorità tecnica di Lipsia e Lione.