La Barba al Palo di Italo Cucci

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VOGLIO PORTARE SOCCORSO AL PRESIDENTE DEL LIONE AULAS

Se c’è un posto dove vorrei andare in questo momento, uscendo dalla gabbia dorata ch’è pur sempre una gabbia, è Parigi. No, non m’interessa la Tour Eiffel, neppure il Louvre, anche se la fantasia mi spingerebbe a chiedere a Mona Lisa come se la passa senza ammiratori, mai successo da quando è nata. Con il parziale lockdown so che sarebbe bello, e rilassante, cominciare a visitare gli altri quarantanove musei della città più artistica del mondo, e mi farei subito il Rodin per riscoprire le forme dell’amore mortificato dal Coronavirus. O sentendomi ventenne – l’anima concede voli pindarici – potrei andare al Cimitero di Père Lachaise a trovare Jim Morrison, stare un pò con lui (manco da anni) e chiedergli di cantarmi “Light My Fire”. Ma non è questo il mio obiettivo. Ormai sto tornando a vivere con il calcio in testa e devo soddisfare due necessità. Voglio innanzitutto portare soccorso al presidente del Lione, Jean-Michel Aulas, che ha scritto a Macron e al suo Spadafora pregandoli di riconsiderare la decisione di chiudere la stagione calcistica. Secondo Aulas, la scelta adottata il 28 aprile scorso per la Ligue 1 e Ligue 2 a causa della pandemia porterà il calcio francese ad affrontare una “crisi economica e sociale senza precedenti”. Non ho capito se la frettolosa condanna sia stata emanata per paura o perchè Macron vuol sempre essere il primo della classe. La Bundesliga già corre serena a caccia di gol, la Spagna ricomincia fra due settimane, Russia, Portogallo e noi siamo ai nastri di partenza, perchè non coinvolgere anche i francesi – loro che hanno inventato tutto e tutto sperimentato – nel primo Gran Ballo dell’Estate?
Confesso che mi ero fatto un’idea sbagliata dei nostri cugini: si sono preoccupati di mettere subito al sicuro il loro Tour mettendo all’angolo il Giro e non hanno fatto granchè per bloccare l’iniqua sanzione governativa contro il calcio: popolo traditore? Poi ho letto una notizia: a Strasburgo, dove in gioventù sono stato inviato al seguito del Bologna di Gipo Viani, zona di passione futbalista, una partitella fra amici di quartiere si è trasformata in un evento con oltre cinquecento spettatori e decine di tifosi ultras che hanno festeggiato ogni gol con un’invasione di campo. E’ stata aperta un’inchiesta per individuare i rivoluzionari responsabili, immagino inutilmente, come in Italia. Mi manca di sapere se cantavano la Marsigliese. E vorrei arruolarmi in questa speciale Legione Straniera forte dell’esperienza italiana: era ancora febbraio quando dissi che si doveva chiudere e riaprire a giugno, a luglio, appena possibile. Fatto. Le armi? La passione, la lungimiranza, l’esperienza, un forte senso di ribellione contro la stupidità.
A Parigi vorrei poi risolvere un problema che mi sta molto a cuore. Che fine faranno Maurito Icardi e Wanda Nara? E’ vero che stanno per vincere la battaglia di Parigi restando per sempre alla corte del califfo qatarino che possiede il Paris St. Germain? Vi sembrerà una vicenda di puro gossip e invece per me è importante risolvere il problema prima della ripresa del nostro campionato. Per l’Inter che non ha tanta voglia di buttare altri milioni visto che ha già speso più di tutti, Icardi è solo un tesoro, visto che l’allenatore non lo considera utile. Manca solo sapere se la Juventus è d’accordo. E poi, in quale televisione la Wandissima porterà le sue belle forme? I tifosi francesi – non gli snob con la puzzetta al naso – l’hanno già adottata trattandola da Gioconda (con la G maiuscola) e lei è pronta a innovare le sue esperienze televisive dopo l’Argentina e l’Italia. Con un tocco di giallo: ha scelto di vivere il lockdown con i figli nella villa sul lago di Como, comodità o inguaribile passione italiana? Così, anche scherzando, finalmente, si avvicina il 13 giugno, con l’Inter prima probabile protagonista della ripartenza.
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(ITALPRESS).

IL CALCIO E’ DIVENTATO COME UNA FICTION

I tedeschi stanno giocando, alla grande, ma a noi non basta, dai commenti di qualche improvvisatore traspare l’idea che siano un pò stupidi. Lo abbiamo pensato spesso, anche per altri motivi, e adesso siamo costretti a subirne non il fascino – per quello c’è Macron – ma la ricchezza, il primato socioeconomico, l’organizzazione che s’è vista anche nel calcio, appunto, quando non solo hanno deciso di giocare e l’hanno fatto, e ne hanno ricavato non solo un risultato per l’emergenza ma un passatempo quasi naturale al quale si sono uniformati milioni di telespettatori d’Europa e del mondo, visto che oggi il gioco del pallone è diventato un ottimo intrattenimento anche per gli asiatici. E sapete cosa significa, tutto questo, nella società globalizzata che abbiamo accettato c’ingabbiasse? Che il nostro sport più amato è diventato televisivo, come una fiction, e il pubblico, virtuale o no, conta poco. Strano – direte – un vecchio cronista che non è disturbato dalle porte chiuse; e allora vi rivelo che la maggior parte dei commentatori raccontano un calcio “a porte chiuse”, visto solo in tivù. In tubo (facile battuta). E se lo sopportate, vi scandalizzerò dicendo che raccontare il calciovideo è diventata una necessità perchè i tifosi fruitori del campionato sono almeno l’ottanta per cento tifosi da bar o da salotto; molti dibattiti che si aprono nell’eterna biscardeide sono fra giornalisti da stadio e da video: perchè raccontano due partite diverse. All’inizio di questo campionato sono stato invitato a vedere Inter-Juventus a San Siro, e ho accettato solo perchè metter piede in quello stadio dopo decenni d’assenza era emozionante, come all’antico, quando non esistevano intellettuali supponenti e incolti capaci di dire che quel monumento al Football non ha valori culturali e si può abbattere. Sta di fatto che la mia cronaca è stata contestata da alcuni lettori che mi hanno addirittura chiesto in che stadio fossi stato e che partita avessi visto. C’era di mezzo Ronaldo, capii che io ne avevo visto e raccontato un altro.
E che dire del lamento sulla mancanza dell’Atmosfera? Una volta c’era, quando la creava un Borghetti e ti godevi il match senza temere che il tuo racconto fosse smentito dalla moviola o dal Moviolone bugiardo, come oggi dalla Var disturbatrice e ingiusta.
A me il campionato tedesco piace, è ordinato, pulito, atletico, integrale per dir sano, essenziale come dev’essere uno spettacolo basato sulla tecnica. E ha spazi “sociali” enormi: se è vero che la gente sta tornando nelle spiagge, nelle palestre, nelle piscine, nelle chiese (come ho tanto desiderato) e presto anche nei teatri, mi chiedo perchè tribune e curve siano proibite se non da uno spirito persecutorio. E dall’invidia. Basterebbe dire: accesso consentito solo al 30/40 per cento degli avventori, come è successo ai ristoranti. Che prima o poi falliranno perchè la pappa è vera. Non televisiva.
Eppoi lasciatemi dire: non vi è piaciuta l’idea del Moenchengladbach che ha venduto ai suoi abbonati…appiedati, per far beneficenza, la possibilità di essere presenti in tribuna virtualmente? Mandate una foto e vi riprodurremo in formato naturale sulla vostra poltroncina. Detto e fatto. Divertentissimo. Commento nostrano: ah, tifosi di cartone. Commento mio: già, da noi si preferiscono gli scudetti di cartone.

VOLONTARIATO E SUDDITI

A.C.V. è l’acronimo del giorno: Assistenti Civici Volontari. L’ultimo danno del Coronavirus. Il ministro Boccia, come tanti, di questi tempi, correttamente isolato, pensa. Non esageriamo, medita. Come raccomandava Arbore. E non si tratta di meditazioni collettive, come dovrebbe una cosiddetta compagine governativa. Come ai tempi degli esercizi spirituali dai salesiani (ho fatto felicemente anche questo) ognuno medita con e per se stesso. Giustificazione: la distanza sociale. La Salute distante dall’Economia, la Giustizia dalla Pubblica Amministrazione, l’Istruzione dai Beni Culturali, gli Affari Regionali dall’Interno, ovvero Boccia lontanissimo da Lamorgese. Come Spadafora dallo Sport.
E’ vero, siamo a dir poco indisciplinati, nel dizionario ci sono altri attributi acconci per dire di noi, abitanti del Bel Paese: Gianni Brera, ad esempio, s’era inventato un Guicciardini che diceva “non fidarti mai delli italiani”, e poteva anche metterci la sua firma; ma metterci un giorno a balia, l’altro a badanti, e infine a assistenti, come certi soloni dicevano di Balotelli, non è solo esagerato e offensivo, è antidemocratico. L’emergenza ha già strapazzato la Costituzione, imporci certo volontariato ( gratuito, come dire : arrangiatevi) vuol dire trattarci da sudditi. Vuol dire anche non avere mai fatto l’esperienza della polizia urbana volontaria, quei giovanotti e giovanotte che sanno fare solo contravvenzioni. Vuol dire anche non avere fiducia nei Carabinieri, nella Polizia, negli uomini della Protezione Civile. Nei cittadini tout court.
Tratto questo argomento perchè quel ministro accaldato è anche tutore delle Autonomie e da siciliano acquisito, anzi isolato dall’isola – la bella Sicilia – che noi di Pantelleria chiamiamo terra ferma, io mi sento di dire che non c’è proprio rispetto per la nostra autonomia che ci siamo rimeritati con l’assenza dalle zone rosse del massimo contagio. Egoisti? No, aspettiamo tutti a braccia aperte, basta che ci assicurino d’essere in regola con il virus, come tanti hanno già fatto. Dirò di più, noi di Pantelleria chiediamo sicurezza a tutti. Perchè non siamo stupidì infanti come vorrebbe Boccia, e desideriamo di non aver paura dei nostri connazionali sgovernati.
Noi siamo l’Isola Zero che è rimasta a zero da sempre e nonostante il liberatutti del governo giriamo dal primo giorno con la mascherina, manteniamo le distanze sociali e naturali, seguiamo pedissequamente tutte le norme partorite a centinaia dai meditanti di Roma (leggo che esiste una Comunità dei Meditanti sorta con “un progetto di cambiamento dal basso che parte dall’assunto gandhiano di far proprio il processo evolutivo per trasformare in meglio se stessi e il mondo”). Non abbiamo mai sgarrato di un millimetro, ci vogliamo bene quanto ne vogliamo al prossimo, siamo stati graziati e ci permettiamo di aborrire gli assembramenti e tutto quello che minaccia la vita dei nostri bambini e dei vecchi padri e nonni qui rispettati non solo dal Coronavirus ma anche da una comunità di italiani dimenticata da tutti. Anche da Boccia, fortunatamente.

SE IL CORONAVIRUS E’ COME UNA GUERRA

Quando ho scritto che il Coronavirus sarebbe stato per noi italiani più duro della seconda guerra mondiale mi hanno contraddetto. Erano i primi di marzo, la strage era appena cominciata. Certo non mi riferivo alle vittime degli eserciti, nè a quelle più numerose del cosiddetto fuoco amico americano, centinaia di bombardamenti su città indifese; spiegavo piuttosto cosa volesse dire vedere, conoscere e subire un nemico concreto piuttosto che affrontare un virus maligno e invisibile. Non voglio avere ragione anche se sarebbe fin troppo facile, per chi come me quella guerra l’ha vissuta e sofferta, smentire chi ne ha solo letto o sentito parlare; in questo Paese la storia, per essere appurata, ha bisogno di secoli, mistificata com’è dai narratori faziosi, spesso anche di (usurpata) chiara fama. E’ la fine della guerra vera che mi viene in soccorso, se appena raffrontata ai primi e spesso illusori segnali di pace che oggi potremmo chiamare Movida e allora si chiamò Liberazione. Allora l’Italia patì, e non dappertutto, anche gli effetti di una cosiddetta guerra civile, ma quando la radio e le campane comunicarono la fine del conflitto il popolo scese nelle strade a far festa, e nelle case sbocciarono cerimonie d’amore; la vita riprese ritmi addirittura inediti, la libertà e le necessità moltiplicarono le forze dei lavoratori e le speranze dei più vecchi come dei più giovani.
Salvo controllare rigurgiti di cattiva politica, nessuno proibì feste, sorrisi, baci, abbracci, raggruppamenti di amici e fratelli sulle strade e nelle piazze, in montagna o al mare, per assaporare quella libertà che a certuni mancava da poco, ad altri da una vita. Si tornò a cantare, aiutati da una produzione esaltante, a volte rispolverando “voci di prima” come Alberto Rabagliati, Nilo Ossani, Oscar Carboni e Natalino Otto, o lanciandone di nuove come Gino Latilla, Achille Togliani, Giacomo Rondinella, Luciano Tajoli, Carla Boni e Nilla Pizzi, mentre sotto sotto i V Disc ereditati dalle truppe americane ci facevano fare amicizia con Glenn Miller (sparito in guerra) e Benny Goodman trionfante alla Carnegie Hall. La musica della pace si chiamava jazz e stavano al gioco anche i filosovietici privi di una godibile colonna sonora che non fosse “Bandiera rossa”.
Adesso ti dicono che la tua ultima prigionia – il confino detto lockdown -è finita, ma per favore opera con giudizio, rispettando le regole del distanziamento sociale innanzitutto, poi le altre che insieme hanno un solo grave difetto: dipendono dall’intelligenza dei cittadini che non voglio offendere dicendoli sottodotati ma sicuramente privi di semplice prudenza. A seconda dei luoghi, naturalmente “all’italiana”: così mentre a Tocco di Casauria, nell’Abruzzo appena sfiorato dal contagio, il santo protettore Eustachio viene portato non in processione dai fedelissimi – come si dovrebbe – ma tutto solo con un camioncino al fronte della preghiera, a Brescia ritorna il coprifuoco che vale l’annuncio disperato dell’8 settembre 1943, “la guerra continua”. Nel senso che per pochi ma dotatissimi stupidi malati di finto eroismo molti cittadini assennati dovranno tornare alla clausura e alla paura.
Il generale Giuseppe Castellano che nel ’43 aveva preparato l’armistizio – poi firmato dall’inutile generale Badoglio – un giorno mi disse che appena formulato quell’annuncio di presunta felicità cominciò una circoscritta e breve guerra civile perchè – precisò – “questi sono gli italiani”. Questa guerra – che sta producendo festeggiamenti beoti prima del tempo e dunque contagi in nome di un “liberi tutti” sancito non dalla Costituzione ma da sindaci e governatori – non finirà tanto presto e non penso tanto a nuove vittime ma a una ribadita paura nemica della ripresa totale. Nel ’46, a guerra finita, non avemmo più paura. Solo fame.

RIAPRITE LE SALE DA BALLO

Son tanti e rumorosi quelli che non vedono l’ora che gli sia restituita la domenica e la partita di pallone. Tantissimi quelli che silenziosi attendono il ripristino del sabato. Già: la febbre del sabato sera, definizione travoltiana che per ovvie ragioni sarà bene aggiornare, diciamo dunque passione, ma teniamone conto. Non dico della movida, sfogo quasi infantile per rivoluzionari da salotto; o da marciapiede col bicchiere in mano. Ho sentito un famoso disc-jockey milanese lamentarsi: “Impazza la movida mentre per noi, componente invisibile della società, non c’è traccia di liberazione”. E via a vantare gli spazi offerti come da regola dalle grandi discoteche, niente aggregamenti, ballo in libertà. Difficile. Già la parola “discoteca” è un problema; in Romagna, per dire, le hanno chiuse prima del Coronavirus. Ho visto in tivù un proprietario di discoteca annunciare un cambiamento radicale: l’immenso salone disponibile lo adatterà a ristorante, con gli spazi fra i tavoli assegnati secondo norma.
Ma resta il problema: ballare. E non mi si venga a dire che la danza è del diavolo, inadeguata al momento di grande sofferenza, basta guardarsi intorno per vedere quanta licenza si son presi gli italiani dopo l’annullamento del lockdown. Presto si giocherà anche a calcio. Cinicamente, chi vive si dà pace.
Quando finì la guerra, in Romagna, dov’ero io, le Case del Fascio furono sequestrate, ribattezzate Case del Popolo e destinate più al ballo che alle adunate. D’altra parte, la tradizione del Dopolavoro (ferrovieri, postini e via così) era già forte e fortissimo, in quel tempo, l’impegno dei lavoratori. Gli antichi romani avevano offerto al popolo panem et circenses, i nuovi governanti avevano prontamente offerto ai borghesi il Boogie-Woogie all’americana nei night e al popolo il Liscio nel baladur. E al cinema cosa si vedeva? La prima volta che fu possibile, al mitico Fulgor felliniano di Rimini mi portarono a vedere Fred Astaire e Ginger Rogers; tiptap impossibile, swing per tutti. Ma il trionfatore era lui, Secondo Casadei dei Casadei di Gatteo dove anche adesso c’è un immenso baladur. L’autore di “Romagna mia” – ch’è stata spesso usata nel mondo al posto di “Fratelli d’Italia” e “‘O sole mio” – con l’orchestra per ballo liscio aveva più seguaci di Travolta. Il sabato gli operai lasciavano la fabbrica, i contadini i campi, un bel bagno nella tinozza, una bella sbarbata, acqua di colonia, brillantina e via con una lei – moglie, fidanzata – e il classico “signorina permette un ballo?” dei Casanova che da noi si chiamavano birri. Non solo: a ballare ci andavano anche i bambini tutti vestiti da ometti che a sette anni ballavano con una bimba, a dieci facevano fare un giro alla nonna.
Rivedo tutto, come in un vecchio film, e ricordo una cosa: c’era tanto spazio per le coppie danzanti, niente ressa, anche perchè le evoluzioni spazio ne pretendevano, i ballerini non si pestavano i piedi, non sudavano come adesso nelle ammucchiate delle discoteche dove spesso i corpi…separati sì toccano in una promiscuità provocata più dalla quantità di biglietti venduti che da una sana libidine. E allora sapete che dico ai governanti: riaprite le sale da ballo, erudite i ballerini e donate al popolo un altro pò di felicità. Ho parlato con Riccarda Casadei, l’erede di Secondo: gli strumenti sono accordati, i pullmini pronti. Buon viaggio.

QUANTA INTER NELLA VITA DI GIGI SIMONI

Gigi Simoni ha sempre fatto parte di un piccolo club di miei amici classe 1939 che di solito festeggia in solitudine con un bicchiere di vino. Lui se n’è andato troppo presto dopo aver già messo un dubbio sul suo futuro un anno fa. Dopo anni di frequenti contatti, una lunga interruzione dovuta alla morte di Adriano, 33 anni, vittima di un incidente stradale nel ’99, a Bologna. Sembrava non aver più interesse per la vita, Gigi. Ci capivamo perchè ero passato per un identico dolore. Lo ritrovai ai tempi del Gubbio, a fine carriera, dove lo avevano chiamato soprattutto perchè era onesto, e il suo sorriso sempre frenato era diventato mesto.
L’ho conosciuto giocatore, fin dai tempi di Mantova, quando io facevo i primi passi in C e lui era già in A: 1961, un’edizione favolosa, presidente Nuvolari, allenatore Mondino Fabbri che quando salì di statura professionale – non fisica – mi chiese di non chiamarlo più Mondino. Con Gigi c’erano bei personaggi: William Negri, che avrei ritrovato portiere del Bologna; Giagnoni, il futuro “colbacco granata” (molti mantovani finivano al Torino, Gigi stesso ci giocò con Meroni); Angelo Benedicto Sormani, che aveva esordito nel Santos con Pelè e in Italia fece un figurone finendo ovviamente ribattezzato “il Pelè bianco”; poi Beniamino Cancian, Renzo Uzzecchini e Renzo Longhi. Proprio Simoni mi disse che Longhi era il fratello di un giornalista dell’Avvenire d’Italia, Albino.
Una sera, a Bologna, chez “Rodrigo”, Albino mi fece una testa così sul fratello Renzo: cresciuto nelle giovanili dell’A.C. Mantova, si era affermato in prima squadra nel 1955, diventando protagonista, da capitano, della storica scalata dalla IV serie alla Serie A, del “Piccolo Brasile” di Fabbri. Ne parlava con ammirazione, Albino, tipo “ui sì c’è l’ha fatta”, e non fu da meno, eterno direttore del Tg1 “da salvare”.
Di questo parlavo con Gigi e, en passant, del famigerato match Mantova-Inter che negò ai nerazzurri uno scudetto praticamente vinto trasferendolo alla Juve di Heriberto Herrera. Per la altrettanto famigerata papera di Giuliano Sarti che – raccontò “La Stampa” – “appostato sul palo, tentava di fermare la palla, che però gli sfuggiva di mano rotolando in goal”. Emilio Violanti – grande giornalista e filointerista – scrisse sulla Gazzetta “vedrete che Sarti finirà alla Juventus, ci starà un paio d’anni, poi sparirà dal giro del grande calcio”. Così fu, ma Gigi non voleva accettare la versione maligna.
Ne riparlammo – e stavolta giravano anche a lui, sembrava un vizio bianconero – quando il 29 aprile 1998 la Juve battè la sua Inter per un rigore negato ai nerazzurri, fallo di Iuliano sul Fenomeno. Per la prima volta Gigi esplose, usando termini assolutamente insoliti per lui. Se la cavò con niente, ma perse l’occasione professionale più bella della sua vita. Gli fui vicino, anche troppo. Scrissi un pezzo che mi portò in tribunale con Bruno Gentili e altri illustri colleghi con i quali avevo partecipato a una mitica puntata del “Processo di Biscardi”. Tutti assolti – me escluso – con il verdetto “verba volant, scripta manent”. Io avevo scritto, pagai un pacco di milioni. Quando ritrovavo Gigi, e ne parlavamo, avevamo ancora il piacere di infuriarci.

IL PROBLEMA E’ IMPEDIRE ALLE COMMISSIONI DI FARE DEL MALE

Il Coronavirus non è solo letale. Puoi cavartela ma nel tempo accusare altri fastidì. Ad esempio, vuoti di memoria. O sbalzi di personalità. C’è il “rinco” aggravato, c’è l’onesto pentito. Che diventa ladro. Personaggi così ce ne sono di naturali, altri indotti da informatori incompetenti. O da famigli disonesti. Molti fanno parte di commissioni. Il problema, di ‘sti tempì, è non solo contenere la inutilità delle commissioni ma impedirgli di fare del male. Anche se si chiamano Task Force, risultate baracconi dove accogliere vagonate di in-esperti (anche donne, in-esperienza in quota rosa). Dopo averci pensato a lungo, convinto soprattutto della gratuità dei miei interventi di soccorso (come i suoi?) mi sono autonominato “il Colao dei poveri”. Penseranno che sono impazzito, dirò che mi hanno sollecitato i miei 25 lettori. Visto che va di moda, dirò che questa è democrazia.
Ad esempio: ieri in Sicilia, dove vivo, hanno arrestato commissari addetti al Covid-19 che hanno contribuito alla sparizione di seicento euromilioni. Fra le loro decisioni, la chiusura del Punto Nascita di Pantelleria, dove vivo, perchè “è uno spreco di denaro pubblico”. Niente neonati isolani. Ora capisco: gli affari, loro, li fanno più facilmente con con i morti.
Ma non è questo che mi deprime. Se permettete, c’è di peggio. Ho letto che l’abbattimento dello stadio di San Siro – detto anche “Meazza” – ha fatto un passo avanti. La commissione regionale ha risposto così al quesito posto dal sindaco di Milano Sala: “Il Meazza non presenta interesse culturale, può essere abbattuto”. Motivazione: “Trattasi allo stato attuale – si legge nel documento firmato dal presidente della commissione, Francesca Furst – di manufatto architettonico in cui le persistenze dello stadio originario del 1925-’26 e dell’ampliamento del 1937-’39 risultano del tutto residuali rispetto ai successivi interventi di adeguamento e ampliamento, realizzati nella seconda metà del Novecento”. La colpevole di tanto obbrobrio non è Francesca – direbbe Lucio – ma sicuramente qualche intellettuale trasversale attento ai desideri di MilanInter che buttano tanti soldi e un pò vorrebbero recuperarne. Come dice Pallotta, quello della Roma, “sono arrivato all’ultimo stadio, o si fa o scappo”. Scappa.
Tuttavia, se è vero che nulla posso eccepire rispetto alla demolizione dello stadio nel quale ho trascorso parte della mia vita felice, perchè i milanesi sono d’accordo, non tollero che qualche incompetente dichiari che il Meazza non presenta alcun interesse culturale. Se poco fa mi sono scherzosamente definito “il Colao dei poveri ” qui mi presento lecitamente come “il Brera dei poveri”: non per avvicinarmi alla bravura del Maestro – mio direttore, mio collega, mio amico – ma per rappresentare in minimis la sua ira contro i pirla che hanno osato sconsacrare il tempio della sua gioventù che ha visto nascere bambino, che ha frequentato da “Gibigianna” ( primo pseudonimo), poi da Brera Giovanni direttore, infine come Gioannbrerafucarlo per la gioia di milioni di lettori e – nei decenni – di milioni di milanesi, bauscia interisti e casciavit milanisti. C’era la sua poltroncina, a San Siro, e accanto a lui mi sono spesso seduto per sentirmi dare del pirla quando mi sfuggiva il tiracorner. Ma non era solo lui, San Siro: in realtà, un’Accademia di Poeti, Scrittori, Santi, Navigatori, Trasmigratori. Insomma, l’Olimpico Quadrato di Milano. Da scriverci un libro. C’è qualcuno che si ribella alla tracotanza degli incompetenti ?

VICINI ALLA NORMALITA’, MA OCCHIO AI PESCECANI

Nessun trionfalismo. Diciamocelo sottovoce: sì, si giocherà. Dieci formule per spiegare, da parte del ministro, dei suoi fedeli, anche dei suoi nemici. La verità? Mi hanno insegnato: risposte semplici e chiare. Hanno vinto i tedeschi, ha vinto Haaland, il calcio della Bundesliga ha fatto solo vittime sul campo, i portieri che han preso gol; niente tamponi, niente contagio. La Federcalcio ha confermato. Aggiungendo un dettaglio che pare preso dalle mie prime note a favore della liberazione pallonara:”Le competizioni potranno andare avanti fino al 31 agosto”. Ricordate? Dicevo che il campionato ’20/’21 poteva cominciare a settembre. I vecchi maestri ci insegnavano che non è elegante vantare successi. Io non me ne vanto, me ne rallegro.
Poi parla Ceferin, il presidente dell’Uefa, soddisfatto lui pure, nonostante “la visione apocalittica per cui dovremmo aspettarci una seconda, una terza, una quinta ondata. No, quando ci sbarazzeremo di questo virus le cose torneranno alla normalità”. Sono d’accordo. A metà. La normalità ce la siamo persa. Come la verginità. E non dico dei cambiamenti banali che già sento annunciare: “Finalmente al bar, ho ordinato il mio primo caffè post lockdown, un euro e trenta! E’ uno scandalo!”. Calma. Vedrete quando costeranno più care anche la frutta, la verdura, la pasta, la carne, la pagnotta. E sarà nulla in confronto a altri prezzi. Anche morali.
Nel Quarantacinque ricordo che in casa parlavano di pescecani. E io dicevo sbalordito: “Pescecani a Rimini?”. Mi spiegarono, e ritrovo quelle parole in un vecchio libro: “Della Milano tanto vituperata non è rimasto nulla: le giovani miserevoli si prostituiscono senza pudore; gli antichi mestieri hanno lasciato il posto ai pescecani”. Che sono apparsi dopo la Grande Guerra, riapparsi dopo l’ultima: gli affamatori che s’arricchiscono sulla pelle dei bisognosi vendendo a prezzi altissimi i beni di prima necessità che hanno nascostamente accumulato, come dire una bottiglia d’alcol a cinque euro, un’amuchina a quindici… Poi c’è la variante cravattari, sapete chi sono. Ho sorriso quando ho sentito il grande Maurizio Marinella dire felice: “Finalmente ho riaperto e alle sette ho venduto la prima cravatta…”; non vedo l’ora di fargli visita per poi darmi un tono dopo questi mesi trascorsi truccato da Robinson Crusoe. Ma i “cravattari” della ‘Ndrangheta e della Mafia – strozzini, usurai, fate voi – sono all’opera già da tempo, incontrastati, peggio del virus. E sarà la lotta più dura cercare di sconfiggerli. Alla fine dei Quaranta ci riuscimmo. Con la solidarietà.
Attenti, torna il Demagogo. Ceferin ha parlato anche dei calciatori, pover’anime, e dei loro guadagni: “Non penso che siano avidi. Il mercato fa i prezzi e se ti offrono 20 milioni a stagione non penso che risponderesti: ‘No no no, non voglio essere avido. Dammi solo 200milà. Per cui no, non sono avidi: è il mercato che decide”. Il Demagogo mi ha passato una notizia: Si chiama Avi Schiffmann, è americano, ha diciassette anni, ha creato un colosso web sul Coronavirus. Ha realizzato un portale sul Covid-19 da 30milioni di visitatori al giorno per un totale di 700 milioni di visualizzazioni: consente di tenere traccia dei numeri legati ai casi di coronavirus nel mondo. Gli hanno fatto un’offerta d’acquisto favolosa, otto milioni di dollari. L’ha rifiutata. Ha detto, serenissimo:”Sono giovane, solo 17 anni, non mi servono tutti quei soldi, non voglio approfittare dell’emergenza sanitaria”. E il Demagogo sorrise.