La Barba al Palo di Italo Cucci

Home La Barba al Palo di Italo Cucci

LIBERATI DAL LOCKDOWN, ATMOSFERA QUASI NATURALE

La liberazione dal lockdown, il diktat del 9 marzo che sanciva il “tutti in casa”, ci ha riportato a un’atmosfera quasi naturale: si sprecano le sensazioni positive registrate dopo il primo caffè al bar, dopo il ritorno al ristorante dell’amico che ti ha chiamato, “fammi un piacere, vieni a trovarmi con tua moglie, ti metto a tavola come si deve, mi fai un pò da richiamo, qui hanno tutti paura della scomodità e del rincaro dei prezzi, vieni, ho bisogno di testimonial con un sorriso, qui è pieno di gufi…”. Poi, finalmente una passeggiata libera (rigorosamente a un metro) con gli amici che frequentavi prima e che adesso ci stanno a far quattro chiacchiere in libertà; in fondo, è vero che il cellulare ci ha aiutato a non perderci ma i discorsi viaggiavano col freno a mano, come se qualcuno potesse ascoltarci, giudicarci, multarci…
Ricordo un passaggio fondamentale dalla guerra alla pace, settantacinque anni fa, quando in famiglia gli adulti erano tormentati dall’avviso “taci, il nemico ti ascolta “che era scritto anche sui muri, al “chi l’ha visto?” della “Domenica del Corriere” e della “Tribuna illustrata” del dopo liberazione che aiutavano – come oggi, peraltro – a ritrovare famigliari o amici perduti: mandavi un messaggio, il giornale lo pubblicava, qualcuno rispondeva. Ed era festa. Il cellulare ha ridotto quasi a zero le sparizioni, anzi, c’è il fiero sospetto che qualcuno abbia approfittato della pandemia per scappare. Una volta usava “vado a prendere le sigarette “, e addio senza ritorno. Con i miei amici abbiamo fatto il punto: non manca nessuno, neanche nel senso peggiore, tutti vivi e presenti se Dio vuole.
Uno mi dice – a un metro di distanza, tavolini all’aperto: “Ci vorrebbe più demagogia”. Ascolto stupito. “Dico davvero, più demagogia. Bisogna dire le cose come stanno a quelli che non hanno capito cosa sta succedendo. Ai tuoi amici del calciomercato, ad esempio. C’è in giro una miseria nera e ascolto e leggo storie di quei poverini che hanno paura di tornare a giocare ma non hanno vergogna a parlare di ingaggi. Milioni qua, milioni là…Credi che sia decoroso il racconto delle pene di Ibra, no ai milioni del Milan ma forse sì a quelli del Bologna, e c’è chi sta in pena per lui o teme che voglia tornare in Svezia. Dillo, scrivilo che in Svezia non gliene frega niente a nessuno, dei suoi presunti ideali, dei suoi capricci, dei suoi milioni; hai visto come sono sensibili, gli svedesi? Quasi come gli austriaci…”.
Un pò di demagogia. Forse ha ragione il mio amico, forse è una pura questione linguistica. Il demagogo in politica è quello che sta nel partito contrario al tuo; si legge da due parti, come fosse un ossimoro. E’ come quando dici criticando “ma questo è un luogo comune” e non ti rendi conto che è verità, anzi: il vero. E dunque lasciatemi fare ufficialmente il demagogo (chissà quant’altre volte l’ho fatto dichiarandomi liberale, anzi libertario, anzi rivoluzionario), asciate che chieda di abbassare i toni – vagamente idioti, quelquefois – del calciomercato permanente, milioni milioni milioni, anzi un miliardo come se fossimo, sempre, il Paese del Signor Bonaventura. Un pò di decenza, per favore. E se proprio ci sono ancora, tanti soldi, datene anche a chi ne ha bisogno. La tessera del tifoso? Temo che stiamo tornando, come nei Quaranta, alla tessera del pane. Il prossimo gol? Siate generosi con chi ha fame. Firmato: il Demagogo.

CAMPI VERDI ALL’IMPROVVISO PARCHI DELLE RIMEMBRANZE

E i campi verdi all’improvviso son diventati Parchi delle Rimembranze. Sembrava una piacevole evasione, la ricerca del tempo perduto: è diventata un’intrusione di realtà archiviate – neanche sogni – nella dolorosa attualità. Non c’è stata partita, fino al gol di Haaland in Borussia-Shalke 4-0 (rivisitazione obbligata del nome del club). Per mesi s’è fatto ricorso al revival, gradevole rivisitazione del vecchio jazz, altrove magra consolazione, fino a consumare decine di pagine e filmati tivù come nel caso del Triplete interista, scudetto, Coppa Italia e Champions League. Una storia di appena dieci anni fa che invece di rasserenare gli animi pandemici ha scatenato nei tifosi della Beneamata una frustrante voglia di ri-vincere. I narratori d’oggi, in genere, non sanno molto, forti in cronaca gli manca la storia. Devono attingere alla Fonte di Brera. Uno dei più richiesti Testimoni del Tempo era appena un ragazzo, nel’64, quando Moratti Angelo, sollevato al cielo da Facchetti, Guarneri e Suarez al Prater di Vienna, mostrò al mondo la Coppa dei Campioni sottratta con Herrera Helenio al Real Madrid. Evento memorabile davvero. Degno sì di rivisitazione. Con quella formazione che si manda a memoria da oltre mezzo secolo come una filastrocca: Sarti; Burgnich, Facchetti; Bedin, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola, Milani, Suarez, Corso. Commentava Eduardo Galeano: “Quale altra formazione, a distanza di tanti lustri, è impressa più di questa nella memoria di ogni tifoso, anche non nerazzurro?”. Io ce l’avrei – Negri; Furlanis, Pavinato; Tumburus, Janich, Fogli, Perani, Bulgarelli, Nielsen, Haller, Pascutti – ma la tengo qui per sempre, nella testa e nel cuore, non pretendo, come oggi gli interisti del Triplete, di rinverdire una vecchia gloria con una nuova conquista, ch’è questa la morale della tendenza al replay di vecchie vittorie: realizzarne una nuova, quasi contro, come successe quando si attribuirono a Mourinho più qualità di quelle risapute di HH mentre io ne segnalavo una sola in comune: erano entrambi catenacciari. Oggi gli ultras del pensiero interista vogliono aggiornarsi e registrare un successo del loro nuovo allenatore nonchè ex tecnico juventino e rivale (in Inghilterra) di Don Josè de Setùbal, ma non è facile. Se si va per uomini, vince l’Inter di dieci anni fa: Julio Cesar; Maicon, Lucio, Samuel, Chivu; Zanetti, Stankovic, Thiago Motta (Muntari dal 15′ st); Sneijder; (Vieira dal 29′ st) Milito (Balotelli dal 34′ st), Etòo. A rimestar la cronaca succede poi d’incontrare – con vistoso dolore degli estetisti – El Hombre di quel Partido, Samuel Etòo, che conferma: “Fui terzino, e vincemmo”. Ho partecipato, in questi tempi di magra, al ricordo del Grande Torino. Avevo dieci anni, nel ’49, quando dal cielo passò al Cielo, e ne ho appena tratteggiato il profilo umano, il tragico destino che diventò lutto popolare, la favola che si fece storia. Appena brevi note sulla risaputa e per me e per tanti inspiegabile potenza. Un atto di fede. So per certo, in questo vuoto di attività del nostro gioco più amato, che il Grande Torino è storia come la Grande Juve degli anni Trenta, i cinque-scudetti-cinque di Carcano, emozione forte senza lutto ma tale da non essere minimamente offuscata dagli otto scudetti bianconeri dei nostri giorni che sono pura cronaca.

LO SPORTIVO WOJTYLA, IL PIU’ GRANDE, AVREBBE 100 ANNI

Sono tornato al bar, finalmente. E’ già quasi pronto a rifarsi bar sport e mi hanno chiesto – convinti della mia potenza – se sono pronto a far ripartire il campionato. E anche di Haaland, naturalmente: sarà dell’Inter o della Juve? Già, siamo fatti così, magari a secco di euro ma pronti a spendere i milioni della squadra amata. Che bello: il primo inutile quanto soccorrevole blabla dopo la lunga prigionia imposta dal Generale Coronavirus anche ai nostri umanissimi trastulli.
E sono andato anche dal barbiere, dove mi sarei presentato anche pelato e glabro pur di celebrare come si deve – a modo mio – il primo giorno di libertà. Abbiamo riso sulla liberazione al lunedì- festa sacra per barbaecapelli – che se ci pensavano l’anticipavano di un giorno per far contento anche il parroco. Ah, di Chiesa abbiamo parlato, perchè il barbiere è un buon cristiano ed eravamo solo lui e io, in bottega, e di calcio non avevamo proprio che dirci, giusto una battuta sul Triplete (lui è interista) che dopo dieci anni di sconfitte è come il revival di Bobby Solo, una lacrima sul viso…
Mi fa: “Lei ha conosciuto il Papa?”.
La radio ha appena ricordato Wojtyla, il Più Grande, diciamolo alla sportiva. Avrebbe cent’anni.
“Il Papa sportivo – dico io – c’ero quando venne a benedire l’Olimpico, alla vigilia del Mondiale Novanta. Ma l’avevo già conosciuto prima, quando era stato eletto. Dirigevo il Guerino e gli dedicai un bel servizio sulla sua squadra del cuore, il Katowice. Gli fu consegnato il giornale, lui lo aprì, era sul sacro soglio, dette una letta rapida e poi:”Molto bello…Peccato che io sono tifoso di squadra di Wadowice, mio paese natale, grazie lo stesso”.
Poi posò col giornale aperto, come un prete qualsiasi all’oratorio”. Era il secondo Papa che rendeva omaggio al mio giornale, Paolo VI aveva confessato di leggerlo, divertito, e citò Giovenale: “Castigat ridendo mores”.
In quel tempo di Mondiali Giovanni Paolo II volle conoscere i rappresentanti del calcio e gli dedicò un’udienza privata in una sala del Vaticano tutta d’oro ornata. Ero vicino al prete del Bologna, don Libero, prete di strada aiutante di don Benzi, simpaticamente noto per la sua totale libertà di pensiero. Si guardò intorno, don Libero di nome e di fatto, e commentò senza controllare la voce: “Vedi quanta ricchezza…e ci sono tanti poveri nel mondo…”. Finì di dire e si trovò di fianco Wojtyla: “Hai ragione, fratello, ma non ci posso far niente, non comando io…”. E Libero concluse:”Al deg semper me: l’è prigioniero d’la Curia!”.
Un giorno venne a Bologna, Wojtyla, l’aspettavamo in piazza Maggiore, davanti a San Petronio, in uno spazio dove erano riunite le varie autorità; arrivò con la papamobile, una camionetta bianca scoperta, si levò in piedi e decise di scendere dal retro della macchina, dove c’era una scaletta; gli autorevoli erano tutti imbalsamati, mi fece un cenno con la mano, mi avvicinai indisturbato, gli presi la mano e l’aiutai a scendere. Mi disse grazie.

ITALIANI INCOLLATI IN TV A VEDERE IL CAMPIONATO DEGLI ALTRI

Ricordate Magath? Non sono juventino ma quel gol, il 25 maggio del 1983, lo presi da italiano: uno schiaffo, un’umiliazione cocente. Eravamo arrivati a Atene a decine di migliaia, io da solo, narratore di circostanza. I colleghi piemontesi stendevano a parole tappeti rossi sui quali erano impressi i più bei nomi della juventinità: Zoff, Gentile, Cabrini, Brio, Scirea, Bonini, Platini, Tardelli, Boniek, Bettega, Paolorossi. Doveva essere un’esibizione da Campioni. Loro – l’Amburgo – ricordo solo Magath, Felix Magath, nel cui nome nacque un club ostile alla Signora. Loro vinsero, noi – comme d’habitude – tutti a casa. I tifosi sconfitti occuparono nella notte l’aeroporto di Atene, in attesa dei mezzi soccorritori coi quali “i resti di quello che era stato uno dei più potenti eserciti del mondo risalivano in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza”. Sabato tanti Magath di Germania ci hanno inflitto una punizione memorabile entrando a milioni nelle nostre case con la Bundesliga, il campionato antivirus partito senza paura mentre i cacasenno nostrani sono tuttora in preda a elucubrazioni che vorrebbero rappresentare saggia prudenza e invece sono espressioni di paura. Abbiamo praticamente incaricato i tedeschi di provare a giocare per noi, con personaggi istituzionali a gufare, a invocare contagi per poter dire ai sudditi: “Vedete? Si son fatti male. Poverini”.
Poverini noi, e non lo dico solo per il calcio d’inizio ceduto a un avversario tradizionale ma per l’ennesima umiliazione che ci viene inflitta dalla Grande Germania: che non vuole pagare i nostri debiti, che cerca di restituirci migranti scomodi, che non vuole ripercorrere le italiche strade delle vacanze e affida interventi di solidarietà – in realtà carità pelosa – allo stesso giornale, “Spiegel”, che spiegò l’Italia ai tedeschi posando una P38 su un piatto di spaghetti.
Il gol di Haaland non ha solo tenuto a battesimo il Nuovo Calcio ma aggravato la crisi di credibilità del Paese del Forse. Ormai non siamo più certi di nulla proprio mentre si aprono le porte della Fase 2. Non siamo più capaci di esprimere l’allegria che ci ha resi famosi. Mentre i giornali di tutta Europa – E’quipe compresa – salutano in tutte le lingue questo nuovo calcio, molti commentatori nostrani spadaforati lamentano la solitudine…dei numeri primi. E altri dicono, a proposito di quei quattro milioni di connazionali – quorum ego – beccati dalla paytv, “ma sono solo partite di calcio, la tragedia è un ‘altra…”.
M’è tornato in mente Edoardo Bennato che nell’82, campioni del mondo, mi svegliò nottetempo in un hotel per dirmi che voleva realizzare un canto italiano. Mi sono tornate in mente le parole di una sua bellissima canzone, che dico?, concione: “E così e se vi pare/ Ma lasciatemi sfogare/ Non mettetemi alle strette/ E con quanto fiato ho in gola/ Vi urlerò, non c’è paura/ Ma che politica, che cultura/Sono solo canzonette…”.
Sono solo partitelle…

VOGLIAMO PROVARE ANCHE NOI A RIPARTIRE COME I TEDESCHI?

Visto il calcio quand’è vero e vivo? Immortale, direi. Rischiando. In Germania si sono divertiti. Per l’Italia degli spaventati la mia è a dire poco un’affermazione sconsiderata: qui non aspettano la moviola ma il tampone. Me li immagino, i nostri imboscati: e se ci scappa il morto…Lì giocano. E si divertono. A Lipsia, a Hoffenheim (paesello di 3263 abitanti, la squadra è chiamata il Chievo tedesco), a Dùsseldorf, a Augusta (il paese di Helmut Haller), a Dortmund, a Francoforte s’è tornati a respirare l’aria di sempre, del pre-corona. Con bravura tecnica, intelligenza tattica e…educazione civica. Niente abbracci da spasimanti, niente marcature asfissianti, niente colpi bassi, trattenute selvagge, sputazzi burini, proteste belluine. Niente. Vedrete, verrà di moda trasmettersi gioia e entusiasmo pugno su pugno, come darsi il cinque, e comunque compiacersi di un lieto fine (ce l’abbiamo fatta) dandosi di gomito. Questi tedeschi. Sembra impossibile che siano riusciti a montare in poco tempo un campionato nuovo. Di calcio nuovo, come hanno giustamente sottolineato i bravi telecronisti di Sky tutti partecipi di una rinascita (no ripartenza, please) che ha confermato i valori tecnici e emozionali dello sport più bello del mondo..
Stadi vuoti, qualche minuto per adattarsi e riscaldarsi, in campo e davanti alla tivù. Due mesi sono lunghi da passare, sono un tifoso, non sono un santo. Mmmm, all’inizio mi pare il festival del qualunquismo pedatorio, maglie larghe, marcature eleganti, gentili: insopportabile, un calcio così. Ma ci vuol poco a cambiare atmosfera e a far sul serio. I tedeschi hanno organizzato tutto, anche l’inizio della festa del gol. E chi poteva segnare per primo se non Erling Haaland, il bambinone del Borussia, 194 centimetri di potenza, velocità, felicità, 10 gol in nove partite, festeggiatemi ma non toccatemi troppo, voglio divertirmi e divertirvi. Un santone nostrano ha raccomandato: per godervi il campionato tedesco come fosse il nostro tifare per una delle loro squadre. E io tifo Borussia. Non da ieri. Da quando c’è arrivato Klopp, l’allenatore più divertente del mondo (infatti De Laurentiis lo voleva al Napoli); se n’è andato, ma mi basta Haaland: era al Salisburgo e lì l’abbiamo scoperto quando ha affrontato il Napoli (perdendo 3 a 2) ma sfoderando la doppietta, come Mertens. E allora dissi portiamolo in Italia, il biondone. Ma gli uomini preferiscono i biondi ma prendono i mori, non so bene, credo che arrivò Lozano. L’oggetto misterioso.
Torniamo in Germania. Un bell’avvio – dicevo – non si sono fatti mancare niente, neanche la Var che l’Uefa aveva reso opinabile. Interventi precisi, rapidi, indiscutibili. Diomio, sembrava quasi che volessero darci una lezione, dirci che il calcio è anche questo, anzi: questo. Con l’aria che tira. Niente pubblico ma dopo qualche minuto manco te ne accorgi. Se sei appassionato. Se sei un sapientone no: così non va, non senti il vuoto intorno a te? E il contesto sociale, dove lo metti? Saprei io, ma taccio. E’ passato un sabato d’antan, allegro quant’è possibile in questa valle di lacrime. E ho assistito a una lezione di sport: mentre chez nous qualche divetto marca visita e qualche solone immagina i nostri atleti (?) spompati dal dolce far niente, arrotondati da bistecche e pastasciutta, impreparati ad affrontare la rinascita fra un mese, sui campi dello Sturm und Drang ho visto atleti veri correre senza affanno, imporsi fisicamente, giocare con allegria. Vogliamo provare anche noi?

110 ANNI AZZURRI E L’ETERNITA’ DI VITTORIO POZZO

Quando nel 1982 vincemmo il Mundial con l’Italia di Enzo Bearzot, di Paolo Rossi il Pichichi del gol, con l’urlo di Tardelli, la Coppa al cielo fra le mani di Zoff, non tardai a capire che aveva vinto l’Italia repubblicana. Le grandi feste che seguirono culminarono in un evento televisivo straordinario curato da Gianni Minà e quando gli dissi che avrebbe fatto bene a dedicare un piccolo spazio – nella celebrazione del nostro comune amico Enzo “il Vecio” – a Vittorio Pozzo che di mondiali ne aveva vinti due consecutivi, nel ’34 e nel ’38, neanche mi rispose. Forse per non dirmi che in fondo quei due titoli “erano del Duce”, come voleva una certa letteratura faziosa che trattava Pozzo da fascista, nonostante la spontanea difesa che di lui avevano fatto più volte uomini di sinistra, compreso il non sospetto Giorgio Bocca: “Il commissario unico (Pozzo; n.d.R.) era un ufficiale degli alpini e un fascista di regime. Vale a dire uno che apprezzava i treni in orario ma non sopportava gli squadrismi, che rendeva omaggio al monumento degli alpini ma non ai sacrari fascisti”.
Quella Nazionale era ancora giovane, aveva…solo 72 anni e andava fiera non solo del suo passato ma del record dell’antico Commissario che Bearzot avrebbe tentato di bissare nell’86 in Messico: Pozzo era l’unico ad aver vinto due mondiali consecutivi con la stessa squadra. Come finì si sa. Messico e nuvole…
L’ultima volta che ho atteso – facendo corna – l’evento è stato in occasione di Russia 2018. L’ultimo concorrente, Joachim Lòw, ha tentato di bissare il successo di Brasile 2014 e invece la sua Germania è tornata a casa al primo giro. Com’era già successo a Sepp Herberger, vincitore del Mondiale svizzero nel ’54, sconfitto in Svezia nel ’58; a Alf Ramsey, campione a Londra nel ’66, bocciato a Mexico ’70; a Enzo Bearzot, trionfatore a Spagna ’82, mesta comparsa a Mexico ’86; a Marcello Lippi, leader di Germania 2006, signor Nessuno in Sudafrica 2010, e così a Vicente Del Bosque, conquistatore del Mondiale sudafricano e subito sconfitto a Brasile 2014. Hanno provato tutti a fare il Doblete planetario, sono stati respinti da una sorta di maledizione che maledizione non è: è solo un record che resiste da ottantadue anni e porta appunto il nome di Vittorio Pozzo.
L’ho conosciuto, il Comandante, grazie al suo giornale, “la Stampa”, e all’indifferenza di alcuni colleghi. Pozzo veniva a Bologna due/tre volte l’anno, a raccontare la Juve e talvolta il Toro. Dal suo giornale partiva una segnalazione speciale per il corrispondente da Bologna, Ermanno Mioli: “Il commendatore arriverà in treno al pomeriggio del sabato, dev’essere atteso alla stazione di Bologna, condotto al grand Hotel Baglioni, a cena da Rodrigo, riaccompagnato in hotel e la domenica allo stadio….”. Mioli lavorava con me a “Stadio”, scriveva di ciclismo, chiedeva aiuto ai colleghi, riceveva molti rifiuti perchè Pozzo risultava a dir poco scomodo anche per l’età – quasi ottantenne – e gli acciacchi. E il caratteraccio. Mi candidai ed ebbi la fortuna di passare con il Comandante ore bellissime, importanti, nella hall del Baglioni per un the piuttosto che a cena, quando non si negava alla mia curiosità. Ricordo che una sera, molto tardi, entrò da Rodrigo Giorgio Albertazzi con un suo bel cane, un pastore tedesco: Pozzo si complimentò con l’animale, l’accarezzò, io gli dissi che Albertazzi aveva giocato nella Fiorentina e mentre il divo gli porgeva rispettoso la mano sentii la voce quasi affettuosa del Comandante: “E adesso cosa fa nella vita?”. Giorgio capì, arretrò silenzioso ma commosso.
Di Pozzo si ricorda a fatica un’altra impresa azzurra, mai ripetuta: il successo ai Giochi Olimpici di Berlino dove l’Italietta di Annibale Frossi – il bomber con gli occhiali poi ideologo del catenaccio – conquistò l’oro. Sbalordendo e forse irritando Hitler, come aveva fatto Jesse Owens che Pozzo ricordava come ispiratore dell’impresa azzurra:”Alla vigilia della finale con l’Austria, quattro giorni di attesa, i ragazzi, quasi tutti studenti poco esperti, erano nervosi, e ci ritrovammo nel nostro ritiro proprio Jesse, vicino…di casa, che suonava la chitarra, cantava e ballava trasmettendoci allegria”. Fu vittoria, 2 a 1, con doppietta di Frossi. Diverso il racconto del ’38, di quel Mondiale che gli stessi invidiosi francesi celebrarono, infilando nel loro dizionario una parola nuova italiana, “les Azzurri”. “Eravamo vicini a casa e negli stadi dove giocavamo, a Marsiglia, a Colombes, gli antifascisti fuoriusciti venivano a contestarci, creando preoccupazione ma anche dandoci una spinta, i ragazzi moltiplicavano le forze, alla fine tacquero tutti…”. Anche i francesi che avevano fischiato l’Italia di Colombes, in maglia nera. Pozzo aveva nel cuore – lui uomo duro, soldato severo, caposquadra rigoroso, critico impietoso – il ricordo di quel 19 giugno 1938 allo Stade Yves-du Manoir quando, sconfitta l’Ungheria per 4-2 (doppiette di Colaussi e Piola) Peppin Meazza levò al cielo la seconda Coppa Rimet.

ITALIA-GERMANIA: A SCUOLA DAGLI SCONFITTI

Ricordo il titolo di un giornale italiano: “Sul coronavirus non c’è partita: Italia-Germania finisce 0-4”. Sanità, Produzione, Struttura Amministrativa, Classe Dirigente, più bravi loro, una squadra quasi perfetta, un trainer – Angela Merkel – di statura internazionale.
Da oggi, Germania-Italia 5-0. Già. Loro giocano il campionato per portarlo a conclusione mentre noi sappiamo che FORSE il 13 giugno si potrebbe, SEMPRE CHE i club che si erano detti disponibili e compatti non cedano piuttosto alle lusinghe di Spadafora, il quale offre, mellifluo, fin dal Parlamento a giocatori e dirigenti ignavi una lunga vacanza senza lavorare. Già che c’è, gli garantisca anche il reddito di cittadinanza, perchè grazie a loro – se il disegno criminoso riuscisse – la Serie A, già Paradiso dei milionari, diventerebbe l’Inferno dei disoccupati.
A dire il vero, preferisco vestire i panni dell’appassionato, non del tifoso, e so che oggi (sabato), dopo la sospensione della Serie A con Sassuolo-Brescia, ultima partita della 26esima giornata, giocata lunedì 9 marzo, rivedrò una partita di calcio, Borussia Dortmund-Schalke 04, alle 15.30, paytv, non so se con la voce di Caressa o di Adani, suggerisco uno dal taglio teutonico e Sky dovrebbe farsi prestare dalla Rai Bizzotto. Poi alle 18.30 l’altro Borussia quello di (cito Brera) Munchenvadarviaiciapp contro l’Eintracht. E domani, prima domenica dopo il Coronavirus (tedesco) Berlino contro Bayern, e lunedì Werder Brema -Leverkusen…
Ma in realtà mi girano. Eccome. Prendiamo lezione da un calcio che abbiamo – con rispetto – dominato. Da Italia-Germania 4 a 3 a Messico 70, alla finale di Madrid 82, Italia-Germania 3 a 1, eppoi quella magica semifinale nel 2006, Italia-Germania 2 a 0 da morire, Grosso al 119′, Del Piero al 121′, Dio che festa! E adesso, dobbiamo prendere lezione di come si fa, come si organizza un campionato, come di gioca col virus, solo perchè siamo in mano a burocrati cacasotto. Sì, come dice anche Malagò è possibile che si cominci eppoi ci si fermi per qualche contagiato. Come no. Ci stanno pensando anche le imprese vere, non sportive, dopo il regalo che gli ha fatto il governo decidendo che chi si ammala di Coronavirus in fabbrica, in azienda, deve considerarsi infortunato sul lavoro. Ma è mai possibile che ci debba far guardar dietro così, fessi d’Europa? Almeno Macron ha deciso: campionato chiuso per ferie. A loro, ai francesi, il calcio gli fa un pò schifo, come a noi il rugby che non vince mai.
Poi Rummenigge, il “Kalle” che noi abbiamo reso simpatico, gradevole (mi torna in mente Helmut Haller che definii “napoletano” per la sua liberata fantasia) che annuncia: “La finestra del nostro campionato si aprirà sul mondo intero, ci vedranno un miliardo di persone che avranno una notizia preziosa: la Germania sta bene, lavora e si diverte”.
La partita di pallone che si gioca oggi a Dortmund, davanti a tribune vuote, anzi piene di cartonati che rappresentano il pubblico assente, per i tedeschi è un atto di coraggio, per noi un rischio; per loro un segnale di speranza, per noi un fremito di paura; per loro un momento esaltante del Lohengrin wagneriano. Per noi, massì, “O Signore, dal tetto natio..”. Già, il coro dei Lombardi all’ennesima crociata.

IL FUTURO SARA’ EVOLUZIONE O INVOLUZIONE?

Ci si chiede ogni giorno, in ogni campo, non solo cosa sara’ domani, ma dopodomani. Il futuro prossimo venturo. C’e’ la convinzione, non campata in aria, che i cambiamenti della societa’ saranno profondi. In pratica e in etica. Ha gia’ preso piede l’idea di portare avanti lo smart working che i giapponesi l’hanno scoperto da anni. Ho gia’ sentito la riabilitazione del Contadino, altro che “braccia rubate all’agricoltura”: il ritorno trionfale introdotto dalle lacrime di Teresa Bellanova. Qualcuno gia’ dice “evoluzione”, qualcun altro “involuzione”. Progressisti e conservatori come sempre, direte. Allievo di Leo Longanesi preferisco la sua versione:”Conservatore in un Paese in cui non c’e’ nulla da conservare”. Piu’ utile, perche’ sperimentato, il ritorno alle origini.
Ho sentito Tardelli parlare come un saggio – il suo urlo selvaggio e’ ormai da museo, come quello di Munch – del suo mondo azzurro nella ricorrenza della prima partita della Nazionale all’Arena di Milano, 15 maggio 1910, Italia-Francia 6 a 2, capitano il siculo Franz Cali’. Non so se per ragioni elettorali – Marco punta alla presidenza AIC, sindacato calciatori – il suo pensiero (progetto?) prende lo spunto dalla nostra nuova condizione di vita, da un isolamento che stiamo subendo in Europa come italiani e potrebbe diventare invece un vantaggio. Ci hanno chiuso le vie del turismo, l’Adriatico non sara’ piu’ “tedesco”, invidieremo la Croazia eletta spiaggia austrogermanica. “Sopra di noi – dice Tardelli – il cielo e’ azzurro. Da italiani abbiamo vinto due mondiali, nell’82 e nel 2006. Ricordiamocelo”. E’ un progetto rivoluzionario?
Molti anni fa, forse trenta, trattai con un Partito Ultra’ un ridimensionamento di quel calcio che s’annunciava votato al business (una protesta non nei termini fasulli della recente presa di posizione degli affaristi ultras europei). E all’improvviso negli stadi apparirono piccoli e timidi striscioni con uno slogan non sparato, quasi mormorato:”Siamo contro il calcio moderno”. Fissammo il progetto in Dieci Comandamenti.

1. Campagna acquisti da effettuarsi solo in estate e divieto di trasferimenti durante il campionato; al massimo, mercato di riparazione ad ottobre.
2. Liberta’ di correre sotto la curva per festeggiare i gol senza essere ammoniti o sanzionati in alcun modo: ormai non c’e’ piu’ neanche la scusa della perdita di tempo, che si recupera.
3. Tutte le partite devono essere giocate nello stesso giorno e alla stessa ora.
4. Limitazione degli stranieri nelle squadre – anche nessuno – poiche’ tolgono spazio ai giovani italiani.
5. Stop di un anno al calciatore che dopo aver firmato il contratto con una squadra vuole andarsene in anticipo perche’ un’altra squadra offre di piu’.
6. Impossibilita’ per il Presidente di una squadra di essere Presidente o azionista di maggioranza di piu’ squadre di calcio.
7. Ripristino della vecchia Coppa dei Campioni: non e’ giusto che una squadra che non ha mai vinto uno scudetto possa vincere la Champions League….
8. Numeri delle maglie da 1 a 11.
9. Divieto di esclusiva ad agenzie di viaggio per i biglietti delle partite in trasferta.
10. Le maglie siano quelle della tradizione e non cambiate ogni anno per questioni di mercato o quantomeno che i colori delle seconde maglie abbiano solo i colori sociali.
Possibili aggiornamenti – provvisori – da Coronavirus. Mica male, vero?