La Barba al Palo di Italo Cucci

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PER LA RIPARTENZA SERVE UN GIOCO DI SQUADRA

Angela Merkel, la Donna del Bundestag, ha detto si’: “La Bundesliga potra’ tornare a giocare da meta’ maggio, se il contagio risale si torna alle restrizioni”. “Abbiamo deciso con ragionevolezza” – ha precisato il presidente della Baviera Markus Soeder, dando soddisfazione al leader del calcio tedesco Kalle Rummenigge. Ecco, il dettaglio piu’ curioso della comunicazione tanto attesa e’ quell'”abbiamo”, tanto somigliante all'”ariamo” della favola (disse la mosca a bue…). La signora Merkel e’ l’Angela custode della Germania, in certi momenti anche dell’Europa che i suoi connazionali hanno fortemente voluto perche’ gli dava dei vantaggi e che adesso, ricevendone soprattutto danni, lascerebbero volentieri. La Signora Merkel e’ il leader forte e decisionista che molti vorrebbero anche in questo Paese culla dell’indecisionismo. Una donna che non sarebbe componente di una task force, come insistentemente chiedono le donne italiane a Vittorio Colao. Sarebbe lei la task force. Non mi accodo ai suoi beatificatori (in inglese Angel maker) che subito hanno identificato in lei il carattere forte che s’e’ portata dall’altra parte del Muro; non citero’ Willy Brandt, semmai Konrad Adenauer che ricordo, d’estate, sulle rive del Lago di Como, insieme a Alcide De Gasperi nella villa “la Collina” dove insieme costruivano l’Europa. “Insieme” e’ la giusta risposta che si puo’ dare a chi chiede decisioni rapide in tempi di emergenza anche se fa effetto e piace l’idea di “una donna sola al comando”.
Che oggi io parli di calcio “in emergenza” e’ mera conseguenza del ridicolo balletto di opinioni in scena ormai da piu’ d’un mese nonostante la non vitale e primaria importanza dell’argomento; cito da tempo il lavoro, la poverta’, la famiglia, la scuola e da nonno ottuagenario mi metto in prima fila non tanto per una personale ripartenza ma per il futuro della mia piccola nipote ch’e’ anche il futuro dell’Italia; in altri tempi, voglio dire dopo la fine della seconda guerra mondiale (e della guerra civile), ben piu’ gravi erano i problemi emergenziali, c’era la ricostruzione, c’era in ballo la liberta’. Milioni di italiani impiegati statali erano stati epurati, incarcerati per i trascorsi fascisti spesso veniali e un giorno il Ministro di Grazia e Giustizia del terzo governo postbellico decise di emanare un’amnistia per evitare la paralisi dello Stato. Il ministro si chiamava Palmiro Togliatti, leader del partito comunista, e poteva firmarla solo lui, quell’amnistia che infatti prese il suo nome, per farla accettare a tanti italiani. Nel frattempo, il capo del governo, De Gasperi, andava negli USA a chiedere un prestito a una banca americana che gli dava 100 milioni di dollari; il democristiano Amintore Fanfani preparava il “Piano-Una casa per gli italiani” affiancando l’UNRRA CASAS degli americani, mentre l’Europa distrutta si affidava al Piano Marshall. Da commentatore sportivo potrei definire tutto questo “un gioco di squadra”. Ai politologi – piu’ che ai virologi – altre sentenze.

BARTALI COME GUARESCHI, ENTRAMBI LEADER D’OPINIONE

Finite le commemorazioni ufficiali, a vent’anni dalla morte avvenuta il 5 maggio 2000, voglio raccontarvi il “mio” Gino Bartali. Con un giorno di ritardo perche’ spesso, leggendo tante cose che si raccontano di lui, ci rifletto sopra perche’ mi sembra d’aver conosciuto un’altra persona. Come stavolta. Gino era un uomo straordinario nella sua semplicita’, non un eroe, semmai dippiu’, un italiano perbene che ho sempre tenuto nel cuore fin da bambino – era il 14 luglio del 1948 – quando con quell’impresa al Tour de France salvo’ l’Italia che fremeva di sdegno e cercava la rivoluzione per l’attentato a Togliatti. Uno studente, Antonio Pallante, aveva sparato al leader del PCI e stava per succedere il finimondo, il mondo politico e istituzionale era in subbuglio, la polizia in allarme, quando quarantott’ore dopo Gino vinse la tappa Briançon-Aix Les Bains e il Tour e la notizia esaltante e calmante fu quella, gradita anche a Togliatti che, operato subito dall’ottimo professor Spallone, suo amico, aveva superato la crisi. Anni dopo, diventato giornalista, seppi dal notista politico del Tg2, lo spilungone Emmanuele Rocco, nel ’48 portavoce del leader rosso: “Togliatti ammiro’ l’impresa di Bartali, lo ringrazio’ ma non gradi’ che lo si dicesse bartaliano: in realta’ era un acceso sostenitore di Coppi”.
A parte Coppi, eterno rivale su strada ma amico nella vita, la popolarita’ di Bartali fu piu’ forte nel campo avverso, perche’ da pupillo di Pio XII e sostenitore dell’Azione Cattolica, qualche mese prima – il 18 aprile del 1948 – aveva dato il suo contributo alla storica vittoria elettorale democristiana che aveva allontanato l’URSS staliniana dai nostri destini. Avendoli conosciuti entrambi, potrei dire che Bartali era come Guareschi, un cittadino esemplare che non aveva peli sulla lingua, e quando si e’ saputo che Gino aveva nascostamente aiutato gli ebrei perseguitati dai nazisti non potei ignorare il fatto che Giovannino i nazisti li aveva subiti nei campi di concentramento fra Germania e Polonia. Eppoi, erano simili anche come leader d’opinione – opinionisti si direbbe oggi – per il loro parlare schietto e sferzante: Guareschi con il “Candido” fustigatore di costumi, Bartali con il famoso “L’e’ tutto sbagliato, l’e’ tutto da rifare” che qualcuno ha messo in burletta e invece aveva la forza di un editoriale. Certo e’ che avendo bisogno di quattrini – non si era arricchito se non di gloria – nel ’92 accetto’ di fare il fustigatore brillante a “Striscia la notizia”. Il “mio” Bartali avrebbe meritato ben altro titolo, ad esempio quelli di senatore a vita, e invece ebbe tutt’altra storia.
Il giorno in cui lo conobbi davvero e potei parlargli a lungo fu vent’anni dopo la sua storica impresa francese. Seguivo per la “Gazzetta” il Giro d’Italia 1968, tappa Cesenatico-San Marino, era il 6 giugno: Gino aveva parcheggiato una spider e si era seduto in un prato vicino al mio paese, Sassocorvaro, nel Montefeltro. Sulla fiancata dell’auto civettuola c’era scritto “Lenzuola Eliolona”, sulla sua maglietta “Lenzuola e federe Eliolona”, sul cappellino solo “Eliolona”. L’eroe Bartali sfuggito agli onori democratici era diventato uomo sandwich grazie al comune amico Alceo Moretti, giornalista esperto di marketing, amico di Sergio Zavoli, ammiratore di Gino e Coppi.
Sic transit gloria mundi, si dice: e invece Bartali non e’ mai uscito dai cuori dei veri italiani, ai quali continuava a dire la verita’. “L’e’ tutto sbagliato, l’e’ tutto da rifare”. L’ultima volta che gli parlai, fine anni Novanta, fu per invitarlo a ritirare il Premio San Silvestro d’Oro a San Prospero, nel modenese.
– Gino, ti aspettiamo al San Silvestro, Devo mandare a prenderti?
– “No, grazie, non preoccuparti, vengo in macchina…ma non posso girare da solo, verrei con Adriana…”.
– -Benissimo, ci fa piacere avere con noi anche tua moglie…
– “Scusami, un’altra cosa: potete ospitarci la notte in albergo? Niente lusso, mi raccomando…”.

IN ITALIA IL CALCIO E’ VERA CULTURA POPOLARE

Calciofili, basta litigare – mi ha detto qualcuno – fate come i francesi che l’hanno chiusa li’ la diatriba giocare/non giocare, hanno consegnato lo scudetto al Paris Germain e buonanotte. (Calciofili, come un’offesa, somiglia tanto ai trinariciuti di Guareschi). L’estate del 1967, seguendo il Tour durante il quale mori’ Tommy Simpson sul Mont Ventoux, ebbi l’occasione giusta per sapere cosa i francesi pensavano del calcio: nulla, raffinato agnosticismo, o il peggio possibile, ai limiti del razzismo. Mi stupii perche’ gia’ sapevo che erano stati loro, proprio loro, a inventare il mio amatissimo calcio internazionale al quale avevo da tempo attribuito anche un titolo in piu’, magari fantasioso, ovvero quello di avere realizzato l’esperanto, la lingua che avrebbe dovuto sostituire la babele di idiomi in uso nel mondo. Ovunque andassi per raccontare campionati del mondo o Coppe potevo confrontarmi con chi parlando o scrivendo di calcio usava un dizionario piu’ ricco di quello di Brera. I francesi, pur avendo inventato la Coppa Jules Rimet per Nazioni, il campionato d’Europa Henry Delaunay e la Coppa dei Campioni dell’E’quipe di Gabriel Hanot, non riuscivano mai a esserne protagonisti, preferendo largamente il rugby e il tennis. In Italia, un certo mondo intellettuale snobbava i giornalisti sportivi calciofili – quorum ego – suggerendogli di leggere e imitare l’E’quipe che ignorava praticamente il volgarissimo calcio facendosi portavoce degli sport olimpici graditi al parigino Pierre de Coubertin.
Venne il giorno dei primi successi calcistici dei nostri affabili cugini e subito qualcuno tento’ il lancio di un quotidiano sportivo dedicato in particolare al pallone rotondo: falli’ in un amen. Il tifo? Sostanzialmente beato. I club? Il piu’ popolare, oggi, e’ il Paris St. Germain, fondato nel 1970 dalla federazione perche’ Parigi non aveva una squadra di vertice, diventato famoso con la presidenza dello stilista Daniel Hechter e di Jean-Paul Belmondo soprattutto per l’elegantissima divisa. Squadra vincente assai, il P.S.G. perche’ posseduto dall’emiro del Qatar Nasser Al-Khelaifi che ha portato a Parigi i piu’ grandi pedatori del mondo mentre in Italia ha preferito comprare la Costa Smeralda e l’Hotel Gallia, antica cattedrale del pallone, non avendo costi’ abbastanza seguaci qatarioti. Zhang ha tanti cinesi da accontentare. Per finire, ricordo che nel 1998 Le Figaro accolse l’inaugurazione del Mondiale francese mutuando una sentenza di Raymond Aron, il conservatore compagno di scuola del comunista Sartre, intitolando l’editoriale:”Il calcio, oppio dei popoli”.
Questa parabola vi ho servito soprattutto per far presente che mentre il calcio francese e’ un giuoco elevato a cultura solo da premi Nobel come Sartre e Camus, da noi e’ anche vera cultura popolare. Se avesse avuto un consulente professionale, il ministro Spadafora non avrebbe mai proposto in Italia la soluzione francese: da noi il riconoscimento concesso al P.S.G. fermando i giochi si chiama “scudetto di cartone” (cosi’ battezzai quello concesso all’Inter nel 2006 di Calciopoli) e non risulta che vi siano squadre disposte ad accettarlo. La Juventus prima in classifica come il P.S.G. ha gia’ detto no e sarebbe un’atroce beffa se venisse assegnato proprio a cent’anni dall’apparizione sulle maglie dei vincitori di quello scudetto tricolore inventato da Gabriele D’Annunzio. Se non bastasse, la storia parla piuttosto di campionati conclusi senza assegnazione del titolo e solo di recente Lazio, Genoa e Torino – spero inascoltati – han preso a piatire presunti scudetti negati per varie ragioni. Vorrei tanto che l’attuale malgestita querelle – giocare o non giocare – qualunque sia il verdetto finale non aggiunga ridicolo al dramma che diventerebbe una pochade.

ATMOSFERA CHE AVREMMO VOLUTO A PASQUA, VOGLIA DI PACE

Sono sceso in strada e ho visto le prime persone sorridenti. Appena un preludio di liberta’ e gia’ sembra di sentire l’Inno alla Gioia. I bambini, piu’ degli altri, sembrano liberati da un’oppressione per loro incomprensibile. E’ il piu’ alto invito a sperare nella fine della pandemia e al tempo stesso un altro importante impulso alla solidarieta’. Qui, nell’estremo Sud, si conta sul civismo dei concittadini di ritorno perche’ il dato zero dell’inizio clausura sia anche quello conclusivo. L’atmosfera e’ quella che avremmo voluto a Pasqua. Voglia di pace. Come all’avvicinarsi – ricordo – o alla fine della guerra. Prima necessita’, uomini e donne di buona volonta’. E invece permangono sfide che sarebbe opportuno cessare o calmare, dismettendo i toni odiosi che da piu’ parti ancora si registrano sui media. Credo che dovremmo fidarci piu’ di noi che degli altri. Altri intesi, ad esempio, come specialisti della salute presentatisi come in una sorta di festival della canzone: ognuno ha cantato la sua, storie diverse, anzi in profondo contrasto, svilendo la scienza che se non credevamo esatta pensavamo almeno affidabile. M’e’ venuto da pensare, tempo fa, al Processo di Biscardi, al quale i partecipanti offrivano non soluzioni ma contraddizioni, e il leader ne godeva. Ma era un gioco.
Di questo gioco si dilettano ancora i padroni del vapore pallonaro, apparentemente uniti, in realta’ divisi non piu’ dall’esito sperato – chiusura o riapertura del campionato – ma dall’odio che e’ cresciuto in questi lunghi giorni di paura e che riguarda non solo il pallone ma altra e piu’ importante tematica: vivere o morire. I titolari di una prudenza che sembra eccessiva, spesso suggerita da istanze glocali (addio sciagurata globalita’) sono spesso accusati di incentivare la poverta’ perche’ frenano la ripartenza piu’ disinvolta; ma peggio stanno coloro che si battono per un sollecito ritorno alla normalita’, e per loro l’accusa e’ piu’ pesante: favoriscono il ritorno del contagio, della morte.
E’ questa la Fase 3, l’intolleranza nei confronti degli avversari d’opinione, compresi quelli che, parlando di condottieri contemporanei, si comportano come ai tempi in cui era vietato parlar male di Garibaldi: i nuovi Garibaldi sarebbero i governanti d’ogni genere e levatura. Se io mi batto per il ritorno del campionato un ministro mi accusa di essere in malafede. Peggio: i suoi solerti caudatari intervengono incensandolo e facendo intendere che non giocando si difende la vita, giocando la si mette a rischio. Ho usato il mio caso ma questa a dir poco imbarazzante questione riguarda i temi ancor piu’ scottanti del lavoro, della scuola, del turismo. I pro e i contro si sprecano e gli italiani ne soffrono. Io sono del Nord ma vivo al Sud e sento l’aria che tira: gli ultra’ non sono piu’ negli stadi ma negli studi televisivi, nei giornali. E a proposito di turismo, mentre ormai si ha una qualche fiducia nell’arrivo degli italiani (addio Maldive, Sharm el-Sheikh, Ibiza…Madeira) da romagnolo sono convinto che i primi ad arrivare saranno i tedeschi. Era appena finita la guerra e da sconfitti gia’ prendevano il sole a Rimini. Adesso li dicono vincitori…

PER IL CALCIO DEL FUTURO SERVONO SENTIMENTI PIU’ CHE TECNICA

La “liberazione” dei calciatori dal lockdown – con l’ormai generalizzata ripresa degli allenamenti – ha un percorso tipico della legiferazione italica: impedita dal ministro dello Sport, sbloccata dai presidenti di regione, promulgata dal ministro dell’Interno. Un bel giro che rivela – semmai ce ne fosse bisogno – la passione italiana per la burocrazia.
(A proposito di Italia, e di burocrazia, dovete sapere che l’Inno di Mameli ” Fratelli d’Italia” dopo 71 anni di provvisorieta’ e vari tentativi nelle precedenti legislature e’ diventato ufficialmente l’Inno della Repubblica Italiana solo il 14 novembre 2017. “Il canto degli italiani”, adottato dal Consiglio dei Ministri del 12 ottobre 1946, e’ stato risvegliato dal presidente Ciampi addirittura negli studi del Processo di Biscardi, anche perche’ “l’Inno di Mameli entra a tutti gli effetti nell’immaginario collettivo, grazie soprattutto alla nazionale Italiana di Calcio”).
E’, questo, un pensierino dedicato a tutti coloro che, incaricati di gestire questa ancora non identificata Fase 2, invece di fare sveltamente goal (in inglese “traguardo”) elaborano percorsi burocratici molto simili al Tikitaka di Guardiola peraltro poco apprezzato dai calciofili nostrani. Nell’emergenza economica che stiamo vivendo sembra addirittura il percorso burocratico per eccellenza, vale a dire una paradossale Caccia al Tesoro piena di ostacoli, di avantieindre’ tipici del Monopoli (non a caso proprio in questi giorni e’ nato il Monopoli di Tex giocato – immagino – anche dai Navajos).
In verita’ c’e’ poco da ridere con la documentata poverta’ in ascesa nel Paese che fino a ierl’altro occupava l’ottavo posto nella classifica mondiale della ricchezza. E parlare di “povero calcio” – lo ammetto – puo’ sembrare una bestialita’ ma sarebbe scorretto citare solo i problemi dei professionisti (compresi quelli di C) ignorando i Dilettanti, il principale movimento sportivo presente in Italia: 12.350 societa’ e 66.025 squadre, per un totale di 1.045.565 calciatori (di cui il 64% impegnati nell’attivita’ di Settore Giovanile e Scolastico) e 564.473 partite ufficiali disputate. Centinaia i club candidati alla sparizione, decine di migliaia gli addetti ai lavori che rischiano la disoccupazione, e tutto questo non risulta agli oppositori del ritorno del calcio maggiore i quali sono convinti che il gioco del pallone sia intrattenimento per zuzzerelloni che adorano poche decine di Ronaldi rallegrati da adorabili compagne che esibiscono il sederino su Instagram.
Quando il vero ministro che conta, quello della Salute, fara’ ripartire il calcio – non c’e’ fretta, “prima la salute”, come disse Zhang Jr. – i Padroni del Vapore dovranno approfittare di questa pausa tragica per ripensare il loro mondo, le loro regole, spendendo piu’ sentimenti che tecnica. Anche oggi, mentre la pandemia non e’ ancora spenta e certe “liberazioni” sono provvisorie, il calcio maggiore parla di soldi, di stipendi non pagati o tagliati, finendo come minimo sotto gli strali dei demagoghi. Allora, cari presidenti, volete sapere cosa fare con i vostri calciopaperoni strapagati? Tagliate pure gli stipendi esagerati e il raccolto regalatelo ai Dilettanti disperati.

SASSUOLO, BOLOGNA E PARMA “LIBERATI”, TORNANO AD ALLENARSI NEL RISPETTO DELLE NORME

Mentre la Spal conferma la sospensione delle attività, il Sassuolo, “liberato” da un decreto della Regione Emilia-Romagna, decide di cominciare da lunedì gli allenamenti individuali facoltativi. E’ il primo club, ma subito dopo anche il Bologna ha annunciato che, da martedì, i campi di Casteldebole (ma non gli spogliatoi che resteranno chiusi così come al Mapei) saranno a disposizione dei tesserati che ne vorranno usufruire, quindi è toccato anche al Parma, nel frattempo anche Sardegna (Cagliari) e Lazio (Roma e biancocelesti) hanno dato l’ok per le sedute singole. È l’unico modo per evitare il fallimento o una montagna di ricorsi tale da imporre non solo un ulteriore danno al calcio professionistico ma anche alla lentissima italica giustizia o al Tar del Lazio che anni fa ribattezzammo – impazzava il povero Gaucci, a Catania – Bar del Lazio o Tar dello Sport. Il ministro Spadafora ha molto gradito – poco o nulla conoscendo della storia del calcio – il blocco governativo al campionato francese che già mobilita tribunali, primo il Lione di Rudi Garcia (te pareva!) che nella protesta ha rammentato le ultime famose parole della ministra dello sport, signora Roxana Maracineaunu: possibilista, prometteva la ripresa in agosto. Tutto il mondo è pays.
Da noi l’invadente Luttwak va da Floris a denunciare lo stato della giustizia in Italia, si prende qualche formalissimo “ma come si permette?” ma nel merito ha pienamente ragione. La giustizia italiana nella denuncia della Commissione europea è sempre più inefficiente; i tempi per risolvere contenziosi civili e commerciali aumentano. Nel 2016 ci volevano 514 giorni per arrivare ad una sentenza di primo grado, nel 2017 ce ne sono voluti, in media, 548. Un mese in più. E’ il dato più alto di tutta Europa. Ma l’Italia è maglia nera anche per le sentenze di secondo grado e terzo grado. Oltre due anni per un secondo pronunciamento (843 giorni), e tre anni e mezzo per la sentenza definitiva (1.299 giorni). Non brilla neppure la giustizia amministrativa (quella che ci interessa): nel 2017 ci sono voluti 887 giorni per decidere in questi tribunali. Paradossalmente, in casi estremi, ricordo che in altre situazioni d’emergenza furono consigliate due soluzioni ai tanti casi portati in giudizio: o il taglio di Alessandro definito “il nodo di Gordio”, o il taglio di Massimino – “C’è chi puó e chi non puó. Io può” – forse insolente ma molto pratica attuazione e esibizione di potere.
Il ricorso a una mobilitazione permanente dei “puniti” dal cosiddetto Piano B” – stop definitivo alla Serie A e agli altri tornei con interventi anomali d’emergenza sulle sante regole del campionato – come dicevo è giá annunciato non solo dai classici mugugni ma da minacce concrete di impugnarne le decisioni.
E mentre il presidente federale Gravina è l’unico coerente nella richiesta di riaprire i giochi – salvo diversa decisione del Governo, non di un singolo ministro – le altre parti – sindacati allenatori e giocatori – alternano possibilismo a intransigenza: mentre i loro iscritti vogliono scendere in campo quando si potrà, ottenendo intanto il giusto diritto ad allenarsi anche singolarmente, come hanno deciso di fare Sassuolo, Bologna e Parma, “liberati”: in strutture a porte chiuse, nel rispetto delle norme di distanziamento sociale e senza alcun assembramento. È un buon inizio. Solo il mantenimento dei patti con Paytv e sponsor potrá consentire un adeguato soccorso alle serie minori in nome dell’ignorata solidarietà. Se c’è un’occasione per riparlare del calcio come “metafora della vita” è questa. Il resto, una burla.
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(ITALPRESS).

PRIMO MAGGIO BANDIERA DEGLI UOMINI DI TUTTO IL MONDO

Pasqua, Liberazione, Primo Maggio, tre occasioni di festa, tre amari appuntamenti con il Coronavirus. Ma se i primi due eventi vivono di sentimenti spesso anche opposti – per ragioni politiche o religiose – il terzo e’ bandiera degli uomini di tutto il mondo, in origine rossa, oggi multicolore. La religione del Lavoro e’ la piu’ forte ma oggi la sua bandiera non sventola con l’energia rivoluzionaria di un tempo, e’ anzi a mezz’asta e quanto fino a ieri s’e’ dibattuto anche in lacrime per la salute dei cittadini oggi riguarda tutti i lavoratori. Feriti e umiliati, pian piano avviati alla miseria, e non c’e’ categoria indenne dal male indotto involontariamente – ma senza contromisure di salvezza – con una durezza in certi casi insensata. Si sta addirittura ricreando una sfida feroce fra Sud e Nord che il tempo e il benessere avevano indebolito, lasciando che il “razzismo territoriale” riguardasse soltanto certi ultra’ da stadio. Ben venga la riforma annunciata da Colao, supercapo della superforce, che dovrebbe tener conto delle diverse realta’ e esigenze delle regioni, delle province, dei comuni in base al contagio registrato.
Il primo giorno di Maggio, diventato nel tempo orgogliosa vetrina di opere e non solo di ideali, e’ mortificato anche per i sogni e le speranze che introduceva nei giorni piu’ neri della pandemia. Un mese mariano per i cattolici ridimensionato anche dal Papa; un mese festoso per i laici in attesa della raccolta agricola e della stagione turistica ridotto ad anteprima di un fallimento; e per gli appassionati del calcio che s’apprestavano a cogliere i traguardi sognati – vittoria e salvezza – con le relative feste di piazza o di borgata.
Maggio vedra’ – ci auguriamo – la ripresa dell’industria e del commercio, di un’idea di vita com’era prima del 5 marzo; vedra’ anche gli sportivi “individuali” corricchiare nei campi, nei parchi e nei luoghi concessi dai decreti, mentre latita la minima attivita’ di squadra, sia pure sotto forma di allenamenti regolamentati ad hoc. Si sente la mancanza di un dirigente autorevole che sappia dire – con la forza di una famosa sgrammaticatura massiminiana – “C’e’ chi puo’ e chi non puo’, io puo'”. Eppure – non tutti lo sanno – anche nel calcio ci sono i lavoratori, giocatori e addetti vari, che oggi pagano duramente i privilegi di cui hanno goduto. Il loro ministro e’, bonta’ sua, molto preoccupato della loro salute ed e’ deciso a non esporli a rischio. Ricordo la battuta corrente: “E cosa succede se giocando un calciatore s’infetta?”.
Ho fatto mia la domanda sui giornali, in radio, in tivu’:”E cosa succede se si ammala un lavoratore in fabbrica e in ufficio? Sono forse uomini diversi con necessita’ diverse?”. Ha detto Ivan Rakitic, croato del Barcellona: “Sono pronto a correre il rischio di essere contagiato, ma voglio tornare a giocare. So che sara’ un rischio molto piccolo, dovremo giocare con le massime misure di sicurezza, sapendo che non saremo mai sicuri al cento per cento, noi come qualsiasi lavoratore. Anche i dipendenti dei supermercati si cambiano negli spogliatoi e hanno le stesse possibilita’ di contrarre il virus rispetto a noi, o forse anche di piu’. Loro corrono quel rischio e anche io voglio farlo”.
Qua la mano, Ivan. Buon Primo Maggio.

DOVREMO STUDIARE UN CALCIO DIVERSO

Circola una notizia maliziosa, anzi maligna: il campionato non riparte se non torna Cristiano Ronaldo. Chi l’ha messa in circolazione e’ sicuramente un anti-Juve e cercare di individuarlo e’ quasi impossibile visti i nemici che si ritrova. Una volta la battezzai Odiamata mettendola a confronto con l’Inter, la Beneamata. Vinceva tanto anche allora – anni Settanta – ma lasciava spazio addirittura alle provinciali come Cagliari, Verona e Sampdoria che sottraevano scudetti anche a Milan e Inter; oggi, dopo il filotto, e’ la Nemica, e’ normale accusarla di tutto. D’altra parte anche con il Coronavirus e’ in testa a tutti: il primo a scappare dopo il Derby d’Italia dell’8 marzo, Ronaldo; il primo a subire il contagio, Rugani (con fidanzata!), il primo a disertare, Higuain; il primo – per sottolinearne il valore ormai acquisito anche da Sarri – a vivere concretamente l’aggressione del virus, Dybala, che se lo sta trascinando da un decreto all’altro fino alla prima liberta’ concessa dal governo, quella d’incontrare una “congiunta: ma lui lo sta facendo dall’inizio della quarantena con la sua bella Oriana; che pochi giorni fa ha comunicato di essere ancora positiva, sicche’ non stupisce che oggi si riveli anche la perdurante positivita’ di del suo innamorato; per finire, il primo a espatriare dopo l’inizio della Fase 2 e’ uno juventino, De Ligt, rientrato in Olanda con la scusa che nel suo Paese potra’ allenarsi liberamente. Da noi no. Da noi siamo arrivati a esibire una sorta di calcioproibizionismo che dovrebbe portare il dibattito a livelli intelligenti. E cosi’ non e’. Basta pensare all’ininterrotto “mercato” che offre ogni giorno arrivi e partenze anche se cala ogni giorno la speranza di riprendere a giocare. Non solo: i nomi che si fanno sono tutti di stranieri, i cui colleghi che prima gia’ facevano fatica a venire a giocare in Italia e accettavano solo a fronte di ingaggi scandalosi, oggi si negherebbero o rincarerebbero le pretese causa Coronavirus. Il calcio e’ fabbrica di paradossi: riesce a scandalizzare anche al tempo del Coronavirus.
Io prenderei la palla al balzo e agevolerei il desiderio di alcuni pedatori stranieri di restare al paesello nati’o frettolosamente raggiunto, ad altri di potersene andare da questi luoghi infetti: applausi – e cittadinanza onoraria – a chi resta. Proposta di decreto aggiuntivo in data 24 maggio: “Non passa lo straniero”. E’ un mio antico sogno quello di tornare a godere un campionato tutto italiano, mi hanno sempre detto “e’ impossibile”, stavolta potrei farcela: perche’ mentre nel Paese si comincia a combattere la battaglia contro la miseria e la fame sarebbe finalmente l’ora di metter fine allo sperpero di milioni per conquistare calciatori che, sbarcati nel Paradiso del pallone gia’ lo vedono come un Inferno.
Non faccio il moralista da strapazzo che ha condiviso obtorto collo per decenni la scandalosa realta’ del calcio, segnalo soltanto che l’odiosa negativita’ del ministro Spadafora dipende in buona parte dall’approccio culturale del tutto negativo con lo sport dei milionari, lui che viene da tutt’altro mondo, lui che non risparmia i club e le squadre ma neppure i singoli atleti. Con l’aria che tira, il razzismo che scendeva dagli spalti al campo oggi ha preso un’altra via: dalla politica al gioco. Ripartenza o no, i problemi del futuro non saranno solo economici e sportivi: dovremo studiare un calcio diverso. Questo ha gia’ dato. Ecco perche’ e’ importante giocare le ultime partite e decidere le ultime sentenze.