La Barba al Palo di Italo Cucci

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COSA FAREMO QUANDO TORNEREMO “LIBERI” ?

Credo che ognuno di noi (sono ottimista) stia pensando: cosa faro’ domani, dopo la liberazione fisica dagli “arresti domiciliari”? La quarantena fu attenuata dall’ “Io resto a casa”, mantra che segnalo’ subito entusiasmo creativo, tipico degli italiani; poi ci fu la correzione ironica (quegli “arresti”), l’entusiasmo momentaneo delle balconate canore e in un crescendo drammatico la noia, il fastidio, la rabbia, la depressione, la ribellione. La strada. Ah, non vedo l’ora. Il traffico incasinato, il clacson cretino, il semaforo che ha continuato a lampeggiare anche inutilmente, come tanti che parlavano senza dire niente. Ci sara’ anche, sono sicuro, chi avra’ al contrario difficolta’ a mettere il naso fuori: l’ho visto fare nel ’45, dopo la Liberazione, e non solo dai nuovi imboscati ma da chi aveva anticipato la sindrome di Stoccolma adattandosi alla prigionia della guerra che – sentivo dire – aveva i suoi pregi. Primo: la irresponsabilita’. Credetemi, dico il vero perche’ c’ero e sono sicuro che questa paurosa detenzione cambiera’ un po’ tutti, chi piu’ chi meno, suggerendo ai piu’ ragionevoli adattamenti a un mondo inevitabilmente nuovo, forse peggiore, agli audaci rivoluzioni copernicane, ai fatalisti Inshallah. E non dico per dire.
La paura ci avra’ anche rieducati e ci laveremo sempre piu’ spesso le mani e il resto, anche se ricordo bene l’insegnante di scienze che raccomandava di non lavarsi troppo: rischieremmo di deteriorare la pelle “rendendola piu’ secca, piu’ vulnerabile, piu’ fragile, soggetta a infezioni”- come ribadisce il dottor Google.
Qualcuno si dedichera’ a profonde letture rieducative in rete, gli spendaccioni andranno dallo psicologo (seconda forma della sindrome di Stoccolma), altri da qualche vannamarchi, avrebbe successo Milingo che magari tornera’ in circolazione, come ha promesso un anno fa al Tg1.
Io ascoltero’ sempre piu’ spesso, speranzoso, musica ad hoc, chesso’, la “Sinfonia del Nuovo Mondo” di Dvorak o l’amatissimo “The Final Countdown” degli Europe. Ma soprattutto, felice di aver vinto la battaglia per tornare a vedere le partite di calcio, mi atterro’ ai passi fondamentali del Protocollo varato dalla Federcalcio con la consulenza dei medici sportivi, di Malago’ e Spadafora, evitando Baci e Abbracci, che non e’ la casa di moda sopravvissuta brillantemente a Vieri e Brocchi ma la tradizionale gestualita’ italica che abbiamo trasmesso al mondo intero.
Spero abbiate presente quelle scene di gioia, quelle ammucchiate post gol che l’ultimo derby (pandemico) Juventus-Inter ha affidato alla storia, magari con la faccina del primo “positivo” famoso (calcisticamente sempre) Paulo Dybala che ha preso con se’ anche la fidanzata (e non parliamo di Atalanta-Valencia, andata e ritorno): non si vedranno piu’, neanche in campo. E neanche le strette di mano, calcistiche o…civili. Nonche’ la gia’ predicata “distanza sociale” che piano piano ci togliera’ un’altra virtu’ italica, l’espansivita’.
La peste e la guerra di solito fanno cosi’: aggiungono – magari per poco – riservatezza o timidezza ai nostri gesti esteriori.
L’immagine piu’ bella dell’ultimo dopoguerra e’ sicuramente il Bacio di Time Square, fotografato il 14 agosto 1945 alle 17.51 mentre George Mendonsa e Greta Zimmer Friedman – che non erano innamorati – fra la folla si’ incollavano dolcemente le labbra per festeggiare la pace. Vero? Falso? Fate voi….

I CAMPIONATI VANNO CONCLUSI

Dopo quaranta giorni di liberta’ (scritti a parte) uno mi ha chiesto cosa penso della (presunta) fuga di Higuai’n. Sono arrivato – con licenza – nella valle di Ghirlanda, una distesa di piccole viti che a luglio cominceranno a mostrare i primi grappoli d’oro di zibibbo di Pantelleria. Due agricoltori – a distanza di venti metri l’uno dall’altro – curano il loro tesoro naturale e non fanno domande, le gridano. Son quasi tutti juventini e interisti, i panteschi, e ho quasi sperato di trovarli almeno divisi dalla passione, questi due. Invece, sentito il bianconero preoccupato per il Pipita (che dopo essere stato trattato da traditore a Napoli si becchera’ del disertore a Torino), l’altro quasi infastidito ha gridato:”Ma pensate di ricominciare?”.
Il tono, piu’ o meno quello di Cellino, sarcastico: forse e’ un tifoso del Palermo che gliel’ha data su. Li ho lasciati in pace e la risposta – annoiato e arrabbiato – me la sono ridata da solo dopo averla diffusa su tutti i media, compresa la Domenica Sportiva dove ho ritrovato vecchi amici che mollato Sky lavorano con Skype. Oggi faccio il punto, infilo il messaggio in una bottiglia e lo affido a questo mare che l’indirizzo di casa l’ha sempre trovato, a cominciare da Ulisse che seppe sfuggire alla mali’a di Calipso e riabbracciare Penelope. Chi trovera’ il messaggio, lo consegni a Gravina e Malago’. I quali sanno come la penso. E infatti Gravina continua a dirmi “non mollo”. Mentre l’amico Malago’ fa quel che puo’ con la Divina che guida la ribellione – non faticosa, please – degli “altri sportivi” che hanno su’bito rinunciato a giocare. Primo il Rugby, uno sport di satanassi scappati a gambe levate; poi il basket che s’accontenta di una conclusione…virtuale. E via cosi’, mostrando un sano disinteresse per il maledetto business che contiene anche una versione fallimentare.
Io credo a Gravina, a Mancini, a tutti gli uomini di buona volonta’: toh, anche a Spadafora, ma so quant’e’ difficile salvare il calcio non dai “nemici” esterni ma da quelli di casa. I peggiori. Infatti, dopo l’interruzione anche gli snob che hanno sempre schifato il calcio, col nasino in su’, stanno accusando l’astinenza, proprio come il popolino.
Io ho voglia di giocare, di vedere assegnati lo scudetto e i posti in Europa. E non mi preoccupo tanto dei costi – come Cairo – e della retrocessione – come Cellino – ma soprattutto delle “provinciali” che hanno lavorato duro per riveder le stelle: dico alla rinfusa del Palermo, del Cesena, del Bari, del Monza, della Reggina, del Crotone, del Benevento.
Prima regola (mia): i campionati vanno conclusi, il vero calciofilo non ha altre opzioni. Un’impresa non puo’ non chiudere il bilancio.
Seconda regola (idem): si ricomincia quando si puo’. Quando il Governo liberera’ i cittadini dall’ottantena e i lavoratori torneranno a lavorare, gli imprenditori a investire nella ripartenza (finalmente il neologismo sacchiano usato a proposito). Quando gli italiani riavranno cuore per rivivere l’amata folli’a pallonara. Giugno? Luglio? Agosto, invece delle strampalate tourne’e asiatiche o oceaniche? Semplicemente: prima si chiude il 19-20 poi si comincia il 20-21. Secondo le regole. Onde evitare Tar e Bar ribollenti di rabbia o stupidita’. Giocheremo il Mondiale del 22 in Qatar d’inverno per il puro godimento di Blatter e Platini, perche’ non spostare altre date dopo tanta pena?
Nonostante gli annunci falsi degli ipocriti, nessuno vuole il calcio a tutti costi. Prima la salute l’ha detto Zhang, quello dell’Inter, non altri. Il calcio vuole solo riprendere il suo posto d’intrattenitore degli italiani. Che dopo il coronavirus ne avranno bisogno: ho vissuto la seconda guerra mondiale sulla Linea Gotica – come vivere sull’orlo dell’Etna – e garantisco che la prima medicina, dopo la pace, e’ un sorriso. Ce lo dono’ il Grande Torino, poi fu dolore e amore. Il calcio non e’ stupido, il calcio – aggiorno il pensiero di Sartre – e’ metafora di una vita non agra ma dolce.

I BAMBINI NON SONO DEGLI “UNTORI”, VOGLIAMO PARLARNE?

Ho confessato senza pudore le mie gioie e le mie pene di nonno ottuagenario. Partendo dal fatto, tristissimo, che l’ultima guerra mi ha impedito di conoscere i miei nonni, tutti appartenenti alla fine dell’Ottocento e a una sorta di favola senza lieto fine in cui si narravano soprattutto certi dati estetici: i nonni baffuti con il fiocco nero dei socialisti; le nonne con quelle vesti lunghe non nere perche’ vagamente rallegrate da disegnini bianchi. Le donne di Romagna e non solo. Li ho anche conosciuti, a dire il vero, ma attraverso quelle foto ingiallite infilate nelle vetrine dei mobili da cucina o dai ritrattoni in salotto che raramente rimandavano volti sorridenti. Come se ci fosse una sorta di paura a offrirsi alle antidiluviane macchine fotografiche.
Varcati gli ottant’anni io li ho felicemente esibiti. Fino a quando il Coronavirus non ha fatto circolare l’identikit della sua vittima preferita – il nonno appunto – sollecitando i cosiddetti uomini di scienza a diramarne i connotati. Si’, ero io. Ricercato da Sorella Morte. Scongiuri. Giuro che non mi sono divertito. Poi ho scoperto di essere approdato alla riva degli immuni (cosi’ e’, se Dio vuole, la mia Isola protetta dal vento e dal mare) ma senza trarne un vile godimento: ho infatti cominciato a veder sparire buona parte della mia generazione – anche amici – e con sofferenze fisiche e spirituali immani, nella solitudine, nell’abbandono alle pur pietose mani dei moderni monatti o di quei camion piu’ lugubri dei carri funebri. Peggio ancora, c’era qualche uomo di medicina (come dicevano gli indiani di Tex) che faceva sapere come nel dubbio si soccorressero prima i giovani, come se i vecchi avessero comunque fatto la loro parte. Amen. I comici del web ne ridevano: tutto guadagno per l’Inps! Ah ah.
La consolazione me l’ha data, giorno dopo giorno, la mia nipotina di quattro anni, con la quale condivido un bel giardino, i cartoni di Peppa Pig, i libri con le pagine da colorare e anche qualche telegiornale. Che capisce. Perche’ ha imparato a dire che certe cose non si fanno “se no il Coronavirus ti punisce”. Alla sua eta’ mi raccomandavano di stare alla larga dai panzer della Wermacht. Poi, nel giorno in cui da mezza Italia cominciavano ad arrivare buone notizie di contagi azzerati, di morti ridotte, di pazienti guariti, mi ha colpito una notizia tremenda: “Senza interventi specifici, saranno dunque i bambini i veri ‘untori’ da coronavirus, e quindi sara’ fondamentale non solo riorganizzare gli spazi comuni e le classi, ma anche fornire ai pediatri del territorio, ai pediatri di famiglia, strumenti e presidi fondamentali nella ricerca di Covid-19 nell’infanzia e nell’adolescenza”. Fonte pediatrica istituzionale. Agghiacciante. Ho abbracciato la mia nipotina pensando ai tanti bimbi prigionieri da tanti giorni nei condomini, senza giardino, appena promossi dall’ennesimo decreto a una passeggiatina nel parco vicino a casa e subito bollati di “untori”. Sara’ vero ? – mi son detto come capita ogni volta che parlano uomini di scienza. Poi e’ arrivato un altro comunicato ufficiale, di scienziati. Dall’Alta Savoia, che non e’ in Nuova Zelanda: “I bambini presentano sintomi meno gravi e a quanto pare contraggono e quindi trasmettono il virus meno di quanto si credesse”. Vogliamo parlarne?

GRAZIE AI CAMPIONI FIFA PER IL PENSIERO AI VERI EROI

Il tema e’ importante, decisivo: come ricostruire il Paese che chiamiamo Italia quando avremo sconfitto il virus. O quando l’avremo almeno ferito, stando ai pessimisti scientifici che non credono in Dio ma nel vaccino che non puo’ essere prodotto miracolosamente: non e’ pane, non e’ pesce, non e’ acqua, non puo’ diventar vino. Eppoi: di quale ricostruzione parliamo? Visto come sta reagendo questa Italia alla nuova peste, litigando, scambiandosi accuse feroci sulla gestione del male, opponendo alla tragedia del Nord la prudente e fortunata gestione del Sud spesso solo per speculazione politica, direi “prima l’Uomo poi lo Stato”. Togliendo la maiuscola potrei dire: lo stato di depressione economica, fisica, etica di milioni di cittadini cui il Coronavirus ha tolto la salute, il pane e la liberta’. Immagino che qualcuno potrebbe trarne un nuovo partito. A proposito di partiti: mi sbagliero’ ma credo che nessuno abbia ricordato che 72 anni fa, il 18 e 19 aprile 1948, alle prime elezioni dopo la seconda guerra mondiale e dopo la nascita della Costituzione che dava il voto anche alle donne, vinse la Democrazia Cristiana contro il blocco di sinistra anche perche’ pochi giorni prima il presidente degli Stati Uniti Truman aveva approvato il Piano Marshall, 14 miliardi di dollari per la ricostruzione dell’Europa, e tanti ne ebbe l’Italia ferita da migliaia di bombardamenti degli Alleati. Ecco perche’ in questi giorni si sente tanto parlare di un Piano Marshall per la ricostruzione che alla fine prendera’ il nome di qualche protagonista operativo, cosi’ come nel ’48 si chiamo’ Piano Fanfani. Non fu travolta da scandali – da polemiche all’italiana si’ – quella gigantesca operazione per ridare casa a chi l’aveva perduta, fosse un cittadino o una istituzione: furono ricostruite strade, fabbriche, scuole, chiese, monumenti. Stavolta c’e’ da risanare ben altro, a parte i piccoli e grandi capitali distrutti: coscienze ferite, rapporti sociali squilibrati, abitudini stravolte e famiglie devastate dai lutti e dalle paure. Anch’io che ho prevalentemente raccontato sport sono convinto che ci sara’ un approccio nuovo a una nuova storia fondata soprattutto sulla solidarieta’. Per questo, in un’altra domenica senza calcio, quasi incredibile, alla ricerca di eventi e protagonisti perduti, voglio dedicare un personale grazie a tutti quei campioni che grazie alla FIFA stanno rivolgendo in tivu’ un pensiero pieno di gratitudine agli eroi di questo tempo, medici e operatori sanitari, tanti dei quali hanno perduto la vita per salvare altre vite.
I campioni che hanno parlato per tutti i compagni -, e anche per noi – sono cinquanta e hanno un nome: Holger Badstuber, David Beckham, Bhaichung Bhutia, Lucy Bronze, Gianluigi Buffon, Cafu, Fabio Cannavaro, Iker Casillas, Deyna Castellanos, Giorgio Chiellini, Charlyn Corral, El Hadji Diouf, Youri Djorkaeff, Han Duan, Magdalena Eriksson, Samuel Eto’o, Pernille Harder, Javier Herna’ndez, Luis Herna’ndez, Kaka’, Harry Kane, Carli Lloyd, Harry Maguire, Diego Maradona, Marta, Vivianne Miedema, Ajara Nchout, Michael Owen, Mesut O’zil, Norma Palafox, Pavel Pardo, Park Ji-Sung, Pele’, Gerard Pique’, Alexia Putellas, Sergio Ramos, Nicole Reigner, Wendie Renard, Roberto Carlos, James Rodri’guez, Ronaldo, Bastian Schweinsteiger, Virginia Torrecilla, Yaya Toure’, Marco van Basten, Danie’lle van de Donk, Ivan Vicelich, Arturo Vidal, Javier Zanetti e Zinedine Zidane. Una bella raccolta di figurine straordinarie.

C’ERA UNA VOLTA UN’ALTRA OLANDA

Ho letto sul “Sole24Ore” la scandalosa storia dell’Olanda, straricco paradiso fiscale che succhia soldi anche alla povera Italia “ospitando” alcune nostre grandi aziende, e ho preso nota una volta di piu’ del vuoto di solidarieta’. Il suo governo, infatti, e’ quello che si e’ battuto di piu’ per negarci un vitale soccorso economico. Raccontato come il Paese di mille liberta’, e licenze, forte del ricordo di Rembrandt e di Van Gogh, ma anche di Johann Cruijff e Marco Van Basten e delle ragazze in vetrina di Amsterdam rivaleggia esteriormente con la Francia, con Parigi. E’ una storia che mi piace ricordare. Perche’ e’ cambiata. C’era una volta un’altra Olanda. Desiderai tanto conoscerla dopo aver visto a teatro, a Livorno, nel 1957, “Il diario di Anna Frank”. C’erano Romolo Valli, Elsa Albani, Anna Maria Guarnieri (Anna Frank), Diana Torrieri, Luca Ronconi, Renata Mauro, Mario Maranzana, Ferruccio De Ceresa; regia di Giorgio De Lullo, aiuto regista Lina Wertmu’ller, il meglio del teatro italiano, la Compagnia dei Giovani. Li ho poi conosciuti tutti personalmente. E non ho mai dimenticato l’emozione di quella serata al Teatro “La Gran Guardia” quando una pattuglia di soldati tedeschi scopre la soffitta dov’era nascosta Anna: un immenso grido di dolore, e pianti, come se la scena fosse vera, la risposta di tanti ebrei livornesi alla tragedia vissuta solo pochi anni prima. Uno di loro, mio compagno di liceo al “Niccolini”, mi disse amaro che a quel tempo il governo olandese aveva rifiutato di pagare a Hitler la liberta’ di migliaia di ebrei che furono poi spediti nei lager. Non volli crederci.
E finalmente approdai a Scheveningen per un concentramento del calcio giovanile europeo: era il 1963, l’Ajax di Rinus Michels e di Cruijff era ancora di la’ da venire ma era gia’ ammirabile l’organizzazione calcistica. Scendevi con l’aereo su Schiphol e vedevi decine di campi da gioco, incrociavi le loro squadre e notavi innanzitutto la forza dei vivai. I giovani innanzitutto. Anche perche’ un giovane, un bambino, era l’eroe nazionale: quell’Hans che aveva infilato un dito nel buchetto che si era creato sulla diga impedendo che il mare sommergesse il suo paese. Una leggenda, ma anche un segnale di eroismo civile che realizzava le fondamenta della societa’ e della cultura. Poi nacque il mitico Ajax e tornai in Olanda per godermi le sue imprese e naturalmente quelle della nazionale almeno fino al ’74, quando fu come spenta dalla Germania nella finale di Monaco. E quando la ritrovai in Argentina, nel ’78, le fu negata la vittoria e si appassi’. In quel tempo venne a farmi visita un simpatico signore olandese che propagandava e vendeva gadget calcistici, magliette di Cruijff e compagni in testa. Si chiamava – si chiama – Apollonius Konijnenburg, una barba alla Crusoe e una capigliatura debordante rivelavano solo due occhi furbi e un sorriso accattivante. Lo persi di vista in un momento in cui avevo lasciato il calcio, lo scoprii procuratore e padrone di Rijkard, Gullit e Van Basten. Me ne parlo’ con ammirazione anche Berlusconi.
Poi la favola cambio’ eroe: se andate a cercare il suo nome troverete subito che “dopo Apollonius fu Raiola”. Dopo l’artista la macchina da soldi. L’uomo che e’ diventato piu’ ricco non solo dei suoi Pogba, Balotelli, de Ligt e compagnia ma anche di tanti presidenti che si sono serviti della sua potenza mercantile. Un rinomatissimo e venerato Signore del pallone che ha realizzato il prodigioso salto dalla pizza al miliardo, dal McDonald al Paradiso. Fiscale. Perche’ non chiedergli aiuto?

I CAMPIONATI VANNO CHIUSI, NEL FRATTEMPO FILM IN TV

Come tanti, in tivu’ ho sostituito le partite di calcio con i film. Non mi rallegra rivedere certe ambiziose partitissime d’attualita’, che in realta’ non fanno storia, ne’ le cosiddette classiche d’antan che per fortuna ho visto e raccontato dal vivo e che ora mi offrirebbero soltanto momenti di acuta nostalgia se non il rimpianto del bel tempo perduto. Sono abituato a guardare avanti e mi ha rincuorato la decisione degli inglesi di far concludere la Premier League, il campionato piu’ popolare del mondo, nei termini che personalmente ho indicato per i nostri tornei, a cominciare dalla Serie A: attendere le decisioni governative per il “libera tutti” eppoi finire la stagione interrotta nella data possibile. Voglio vedere come potrebbe l’Italia obbedire ai predicatori di depressione che odiano il popolarissimo gioco del pallone se non chiamandosi fuori dall’unica Europa che per ora funziona: l’Uefa. Nel frattempo – come dicevo – film in tivu’.
E’ andato in onda sere fa un film che ho realizzato insieme all’amatissimo Maestro Pupi Avati una trentina d’anni fa – “Ultimo minuto” con un Tognazzi sensazionale – e mi e’ parso di rivivere una favola anche se in realta’ era nato per denunciare un malessere. Poi ho ricevuto, fra le tante, una mail del lettore Massimo Moletti che mi dice: “Caro Cucci, tra le tante brutture della tv moderna qualcosa di positivo si vede: in questo periodo di coronavirus si ha piu’ tempo per guardare la tv e in questi giorni sto guardando uno dei buoni progetti del gruppo Mediaset (cine 34 ), un canale interamente dedicato al cinema italiano…”. Viva il cinema italiano, sicuro. Un giorno raccontero’ le mie esperienze rivisitando l’amicizia con un attore italiano popolarissimo. Ma mi permetta di dire che l’isolamento mi ha consentito di vedere l’altra sera un capolavoro che forse inconsciamente avevo perduto per non rivangare un immenso dolore: dico del “Pianista” di Roman Polanski. Confesso che con l’aria che tira e la legittima voglia di spensieratezza avrei preferito continuare il mio imperterrito rapporto endless con la “Signora in giallo”. Ma ho fatto bene: a volte la sofferenza produce tenerezza. Cosi’ e’ stato rivivendo una storia di guerra fra il ’39 e il ’45, fra il ghetto ebraico di Varsavia e le deportazioni nei campi di concentramento, con protagonista un grande pianista e un ufficiale tedesco che resta affascinato dal suo Chopin. Una storia vera che ha risvegliato in me l’orrore di una visita a Auschwitz dove, superato quel cancello con la famigerata scritta “Arbeit Mach’s frei- il lavoro rende liberi”, arrivava all’ultima fermata il treno dei deportati. E li’ – mi racconto’ un custode – le famiglie venivano disgregate, da una parte gli uomini, da un’altra le donne spesso separate dagli “inutili bambini”. Dopo quella visita, pur girando il mondo fino alla Cambogia di Pol Pot e i tanti luoghi delle stragi belliche, Hiroshima compresa, non ho mai trovato i segni di una crudelta’ piu’ efferata e bestiale. E puo’ capitare che un film come “Il pianista” ti consoli dei giorni di morte che stai vivendo.

ADDIO A SEPULVEDA, IL MALEDETTO VIRUS NON RISPARMIA NESSUNO

Nell’attesa della liberazione dal Coronavirus, che arrivera’ ben oltre il 25 aprile, il dibattito fra intellettuali a piede libero si arricchisce di preziosi dettagli. C’e’ – ad esempio – chi spende 100 righe per rivelare perche’ fra i contagiati ci sono piu’ maschi che femmine – e gia’ c’e’ l’avevano detto – ma soprattutto perche’ ci sono pochissimi neri. Ho finito di leggere il pezzo sicuramente interessante ma in un altro giornale viene denunciata, come fosse eterna colpa degli schiavisti del Sud, il fatto che negli Stati Uniti muoiono piu’ neri che bianchi, quasi insinuando che la sanita’ sia gestita dal KluKluxKlan. C’e’ poi chi prova a smentire il mio modesto pensiero sull’esistenza della “livella” che non guarda in faccia a nessuno, inventandosi una Morte sociale che colpisce soprattutto i poveri: come se le centinaia di anziani defunti nelle case di (eterno) riposo non rappresentassero una realta’ se non sempre benestante comunque ben diversa dagli homeless (vietato parlare di barboni).
Il maledetto virus non guarda in faccia nessuno, tant’e’ vero che in mattinata arriva la notizia della morte per Coronavirus di Luis Sepulveda, il settantenne scrittore cileno che nell’ospedale spagnolo di Oviedo ha involontariamente dettato la sua ultima storia d’amore: ricoverato a febbraio con la moglie Carmen, sposata due volte, se n’e’ andato dopo averla vista guarire. Con lui la morte ha avuto un solo riguardo: gli ha permesso di scrivere un’ultima pagina improntata a dolcezza e passione, secondo il suo stile celebrato dai capolavori “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegno’ a volare” fino a “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore”.
Era stato non un intellettuale comodista ma un severo contestatore di Pinochet fino a pagarne le conseguenze con carcere e tortura e dunque, fedele al suo detto “Le biografie degli uomini coerenti sono brevi” non aggiungero’ altri dettagli alla sua importante figura di autore, muovendomi solo verso la sua reclamizzata passione per il calcio che lo faceva citare spesso da giornalisti sportivi italiani evidentemente non appagati da Gianni Brera, Giovanni Arpino, Oreste del Buono, Pier Paolo Pasolini, Mario Soldati, Alberto Bevilacqua, Alfonso Gatto, Manlio Cancogni. E dico solo di autori che ho personalmente conosciuto. L’intreccio fra scrittori e giornalisti (senza la specifica “sportivi” che non ha piu’ senso da decenni) ha creato anche confusione creando nei primi la convinzione di essere tecnici, nei secondi di essere validi romanzieri. Un’illusione. La prova non la da’ Wikipedia, fabbrica di celebrita’, ma l’immortalita’. E dunque non diro’ che Sepulveda ha legato la sua opera a Ronaldo e Messi, definiti il Gatto e il Topo, ne’ alla genialita’ di Zdenek Zeman e Marcelo Biella. Preferisco ricordarlo poeta amoroso:
“Cosi’, ancora una volta
facilmente come nasce una rosa
o si morde la coda una stella cadente,
seppi che la mia opera era scritta
perche’ La Piu’ Bella Storia d’Amore
e’ possibile solonella serena e inquietante
calligrafia dei tuoi occhi”.

L’INGHILTERRA APRIREBBE WEMBLEY PER CHIUDERE I TORNEI, COPIONI!

Come sapete, io sono apertamente favorevole alla conclusione comunque del campionato interrotto. Non sparo date, penso che ci si debba attenere alle decisioni di chi ci governa. C’e’ abbastanza anarchia, in giro, perche’ ci si metta anche noi “pallonari” a far casino. L’ho detto: prima si finisce un romanzo, poi se ne comincia un altro. Tempo fa ho scritto un pezzo che non voleva tanto dar consigli ai manovratori federali quanto far conoscere attuazioni altrui – in particolare cinesi, guarda caso – nell’emergenza. Ora leggo che “in Inghilterra la pandemia da coronavirus non ha ancora raggiunto il picco, ma i 20 club di Premier League vogliono finire la stagione e stanno studiando il miglior modo per farlo. Questa settimana sara’ decisiva per fissare la ripresa, con ogni probabilita’ a giugno. Scontato che si giochi a porte chiuse, per limitare i rischi di contagi, la Football Association avrebbe messo a disposizione lo stadio Wembley, dove verrebbero giocate 4 partite al giorno”.
Idea!, hanno esclamato gli amici – invero pochi – di Archimede Pitagorico e di Eta Beta, l’uomo del futuro. Copioni!, direi io se davvero la Premier prendesse questa decisione. Perche’ io la storia di un campionato giocato in un solo stadio in una settimana l’ho vissuta in diretta e gia’ raccontata piu’ d’una volta.
Era l’Ottantuno, fui invitato dal governo cinese che aveva perduto Mao nel ’76 e eliminato prima Lin Biao poi la Banda dei Quattro capeggiata dalla moglie del Grande Timoniere, Jiang Qing. Il nuovo presidente Den Xiaoping, era desideroso di aprirsi, se non alla liberta’, almeno a una stagione di pseudodemocrazia. Forse aveva sentito parlare di “panem et circenses” e chiese all’amico Chen Cheng Da di organizzargli un campionato di calcio. Prima invitarono l’Inter di Mazzola e Beccalossi, finsero entusiasmo, poi invitarono me a spiegare lo sport piu’ popolare del mondo ai giornalisti sportivi, gli unici relativamente preparati (e sicuri per il regime) ad affrontare un tema cosi’ borghese: una decina di giorni fra Pechino, Shangai e Canton, dove vissi pienamente la vicenda calcistica. Dopo avere sperimentato il rigore di Pechino e conosciuto la sua immensa bellezza, la fantasia di Shangai, con annessi dettagli politici e la visita a una grandiosa fabbrica di palloni, ” il Ferrovia”, da esportazione in Asia, finalmente la Cina piu’ umana, occidentalizzata da una Fiera dove vidi la prima Miss Cina della storia e dove il calcio gia’ muoveva conoscenza e competenza.
In quel momento cominciava la fase finale del campionato: dopo le partite giocate nelle province, le vincenti andavano ad incontrarsi in uno stesso luogo e in uno stesso stadio non potendosi permettere di affrontare trasferte di migliaia di chilometri. Vidi un paio di partite e raccontai un calcio “buffo” seguito da un pubblico da teatro che rideva quando un calciatore cadeva, gridava di dolore se si faceva male e applaudiva quando segnava un gol. Le squadre avevano quasi tutte una dotazione di maglie simili: una bianca e una rossa. Rientrato in Italia, mandai a Cheng Chen Da un regalo: la creazione di una dozzina di magliette di vari colori e con l’effige dell’animale che compariva abitualmente nello stemma della citta’. Presuntuosi come sono, se la Premier davvero concludesse il campionato “alla cinese” rivelerebbero di avere inventato anche il calcio.