Un professore dell’Universita’ di Salerno, Antonio Papa, autore insieme a Guido Panico della “Storia sociale del calcio in Italia”, il libro piu’ importante sul gioco piu’ amato dagli italiani, un giorno mi coinvolse in una ricerca sul tifo. Che trattammo partendo dalla parola: tifo. Era nata dopo la “Spagnola”, la peste che aveva fatto milioni di morti nel mondo, molti di piu’ dell’appena conclusa guerra mondiale ’15-’18; e aveva due versioni: una coniata dagli intellettuali secondo i quali i “tifosi” costituivano una comunita’ rabbiosa e violenta, una sorta di “peste sportiva”; l’altra versione, piu’ popolare, partorita da sociologi, attribuiva ai” tifosi” una straordinaria forza consolatoria dopo una crudele e lunga stagione di lutti. Questa versione ho scelto e ne parlo, oggi, mentre la Nuova Societa’ Disorganizzata chiude il calcio e spegne il tifo, quello sopportabile, a volte entusiasta e trascinatore: vedi i trionfi azzurri del ’34, del ’36, del ’38, dell’82 e 2006. Vedi le immagini ripetute ovunque, in queste ore, del Presidente Pertini che ci ha lasciato trent’anni fa in queste ore. Un tifoso speciale che fece sorridere l’Italia anche quando aveva voglia di piangere. Per carita’, non ho titoli per oppormi alla serrata degli stadi voluta dal governo, ho solo l’esperienza che mi permette di dire “calcio ultima spes”: quando si chiude il calcio si nega l’ultima risorsa se non quella della Scienza, non sempre pronta. In due soli anni la Spagnola fece cento milioni di morti.
Non state insieme, non socializzate, non abbracciatevi, non baciatevi, non stringetevi la mano. Abbiate paura. Domenica, mentre attraversavo un’Italia tremante da Nord a Sud, in auto, in treno, in aereo, fra gente che, lette quelle raccomandazioni, si scrutava senza sorrisi, anzi con aria sospettosa, mi son trovato un angolo solitario e ho visto Genoa-Lazio. Potenza dell’iPad. Datemi dello stupido: mi sono ricreato fino alla commozione. Genova per noi appassionati stava mettendo in scena il piu’ grande spettacolo del mondo, i contrasti, gli inseguimenti, le cadute, le immediate riprese, le sfide agonistiche e le sottigliezze tattiche; e quei cinque gol culminati in abbracci e baci, oddio anche fra avversari, in ammucchiate tali da far inorridire il Ministero della Salute, sostituito all’improvviso dal calcio, da quel gioco consolatorio che non e’ fatto solo di schemi e cifre ma di sentimenti che rallegrano, dispongono al buon pensiero, incoraggiano. E portano fino al tifo, non quello che uccide, quello che da’ anche la felicita’. Ero solo, ho visto anche bel calcio fra due squadre che meritano il massimo successo, la salvezza e lo scudetto. Ho sentito l’applauso fragoroso e sincero per il Genoa e per la Lazio insieme. Ho goduto egoisticamente di uno spettacolo tutto mio. Per favore, non fermate il calcio. Fate giocare le partite a porte chiuse, anzi, in televisione. Cambiera’ poco nella sostanza sportiva e almeno restera’, a questo Paese spaventato, la gioia tutta casalinga della Partita. Cosi’ l’autoquarantena sara’ una medicina vera, non un placebo.
PER FAVORE, NON FERMATE IL CALCIO
GENOA-LAZIO UNA PARTITA DI CALCIO VERO
Frecciarossa Rimini-Milano: vuoto. Da Linate semideserto – modelle e modelli coloratissimi unico segno di vita – a Palermo, Alitalia pieno ma in totale silenzio, una decina di mascherine, ci si scambia sguardi interrogativi: un viaggio nella paura. E dire che appena pochi giorni fa qualche irresponsabile predicava ottimismo, preoccupato dal razzismo da stadio. Quisquilie e pinzillacchere.
La mia domenica senza l’Inter che deve rispondere alla Juve e’ vuota, quasi inutile, il calcio fermo aggrava la situazione. Fermare il campionato e’ come segnalare la massima allerta. Allora e’ vero – pensa la gente – la Cina e’ vicina…Ma no, un angolo di serenita’ c’e’ ancora, e’ Genova, si gioca Genoa-Lazio, il coronavirus non ha preso la Serravalle, e’ rimasto a Milano, spaventata da se stessa, mentre il Nordest trema e qualcuno ha fermato anche il Toro. Si chiedono, a Marassi: perche’ noi no? Poi si gioca. Amen.
Il terrore partorisce una partita eccellente, uno spettacolo di passione che nutre i muscoli, una voglia di battersi che da’ la carica al cervello. Novantacinque minuti di battaglia, cinque gol, e spero abbiate visto quelle scene proibite di baci e abbracci, ammucchiate da Mexico Settanta, Italia-Germania 4-3, aspetti di vedere la testa di Giggirriva che spunta dal mucchio e invece sono i semplici eroi di un bellissimo 2-3, Marusic, Immobile, Cassata, Cataldi e infine Criscito, un uomo chiamato bandiera, che realizza il gol della speranza. Finisce la partita, il pubblico di Marassi sembra non aver paura di nulla, neanche della retrocessione, e esplode in un applauso disperato. Innamorato. Sul campo, biancocelesti e rossoblu’ stesi sull’erba a respirare, o si abbracciano. Come fratelli. Una partita di calcio vero. Un momento di sport epico. Non c’e’ solo la felicita’ della Lazio ormai a un punto dalla Juve. C’e’ il gioco piu’ bello del mondo esibito in una domenica di paura. Fatela vedere a tutti, questa partita, corretta, leale e appassionata, fatela vedere ai bambini che ci guardano gia’ con occhi innamorati e agli scettici, ai moralisti che ogni giorno, da alti scranni, da palazzi di antica civilta’, mostrano la faccia peggiore del Bel Paese.
PIPPO E SIMONE, LA GRANDE AVVENTURA DEI FRATELLI TORTELLI
Non è insolita, nello sport – ma non faccio nomi – l’esistenza di “fratelli coltelli”: amici nella vita e rivali sul campo, o peggio, ovunque rivali, perfino nemici. Non a caso si rammenta con tenerezza la favola di Fausto e Serse Coppi, il Campionissimo e il gregario uniti da una passione comune, separati da un insanabile dramma. Conosciuti Pippo e Simone Inzaghi, due ragazzi dotati di sani umori della provincia emiliana, li ho ribattezzati Fratelli Tortelli – con squisita ricetta piacentina già nota a Giovanni Boccaccio – evocando l’atmosfera famigliare colta in una antica intervista a Mamma Inzaghi, quando i due stavano spiccando il volo verso orizzonti di gloria: un passaggio all’Atalanta, giusto per prendere la patente, eppoi Juve e Lazio, già Formula 1. Piacenza non è di umor generoso come il resto della regione, crea spiriti riservati come Giorgio Armani la cui presenza è spesso più percepita che reale. Nel caso degli Inzaghi – Pippo del ’73, Simone del ’76 – nell’amore fraterno si combinano due spiriti: quello un po’ balzano di Filippo, che ha bisogno di caricare la fantasia con vacanze romagnole tipo Papeete, l’altro che suggerisce a Simone una lunga, continua fermata nella borghesia romana. Pippo, una volta appesi gli scarpini, si muove sulla scena calcistica con la fantasia del bomber, puntando prima Venezia, territorio cadetto, dove ha fortuna, poi Bologna, sede a dir poco allegra, dove affonda, incompreso e triste come i tifosi che volevano a tutti i costi comprenderlo perché lo ritenevano in sintonia con la città e la squadra; osserva Simone che non si muove di lí, diventato praticamente laziale, e anno dopo anno costruisce una squadra forte e bella a volte anche annoiando, perché è bravo, competente, maestro e allievo insieme ai ragazzi che una società intelligente gli lascia tirar su facendone una squadra. E senza disfarla – come succede di là del Tevere – per fare cassa eppoi magre figure. Lotito lo chiamano Lotirchio finchè scoprono la sua generosità nel fermare la vendita di Milinkovic Savic, rinunciare a un pacco di milioni per tentare un colpaccio da scudetto. Perché no? Simone glielo lascia immaginare, provare, non solo sognare.
Il Pippo rinsavito cerca una sorta d’esilio, gli spenti sorrisi di Bologna li hanno ferito. Prova Benevento per provare se stesso. E gli va bene non solo perché era bravo a Venezia e un bravo non si inventa, ma perché gli sta vicino un presidente, Vigorito, che gli dà tutto il suo appoggio, da imprenditore e forse anche da padre. E il Benevento spopola, gioca già in A mentre è in B. Si promuove da solo. E Pippo stavolta ha un vantaggio, il suo scudetto/promozione l’ha già praticamente vinto. La Lazio di Simone avrà vita durissima, d’ora in poi ma certo le sarà d’aiuto la simpatia di chi vede nella squadra la realizzazione attualizzata del modulo italiano, e non solo: le duellanti classiche, Juventus e Inter, si affrontano con l’antipatia di sempre, come se il potere di vincere fosse solo il loro, che barba che noia. La Lazio rasserena il campionato dei veleni. Buon divertimento.
L’ANSIA DI CONTE, LA LEZIONE DI INZAGHI E IL COMANDANTE SARRI SORRIDE
La Juve è tornata sola ma in realtà ha trovato nella Lazio – oggi seconda a un punto – una preziosa alleata: Simone Inzaghi, sportivissimo, ha riservato all’Inter di Conte lo stesso trattamento offerto alla Signora; e se ci sarà – sono convinto che ci sarà – una sfida scudetto fra Torino e Roma sarà bella, spettacolare, non rabbiosa, non vendicativa come quella che sta da tempo meditando Conte. L’intensità, virtù riconosciuta del suo calcio, tradisce ansia. A Roma l’Inter ha ricevuto anche una lezione di calcio d’alto pregio da una squadra ch’è identificabile in quel gesto d’Inzaghi quando incassa il gol nerazzurro: calma, ragazzi, non è successo niente. Solo un ribaltone!
Chissà se gli esegeti del Sarrismo hanno gradito quel siparietto dal contenuto inedito sul finale di Juve-Brescia: un vecchio allenatore che gioisce per avere ritrovato un giocatore perduto da sei mesi per infortunio. Non è un Conte agitato ma un mister paterno, sereno: “Quando ho deciso di fare entrare Chiellini? L’ha deciso lui, si è tolto la tuta, ha detto sono pronto, e mi ha guardato con l’aria di chi aveva già deciso”.
Il Comandante Maurizio non è uno di quei novellini o furbetti che fanno il compitino in panchina, prendendo note magari illeggibili su dettagli magari impensabili; lo fa, a modo suo, dicono con una grafia minuta, e mi fa pensare semplicemente a un tic che cela o rivela pensieri. Il Comandante Maurizio è un vecchio combattente che fa la A come faceva la C, lavorando sugli uomini e sul pallone, e il ritorno di Chiellini lo aiuta a scongelare nello spogliatoio e sul campo certi dubbi, certe incertezze spesso suscitate dai più giovani – sicuramente da Dybala, evidentemente affetto da un narcisismo che si manifesta quando gli si nega il palcoscenico – come dai più svagati che complicano la vita al tecnico, il quale confessa “ho troppi giocatori dalle caratteristiche originali, bravissimi ma complicati”. Ecco, questo è il Sarri che dalla vittoria sul Brescia – direi ovvia – riparte non solo con i tre punti che gli servivano ma con lo spirito smarrito a Verona. Una sconfitta come tante, forse, ma già Guardiola stava viaggiando verso Torino, già gli opinionisti/estetisti che non sentono profumo di Sarrismo ma di Bonipertismo (vincere è l’unica cosa che conta) stavano mollandolo al suo destino. Se volete, il miracolo di un sorriso del Comandante è già il primo dono di Chiellini. In questo campionato non c’è nulla da buttare. Ogni squadra è un pericolo, ogni partita un romanzo. Per i grandi appuntamenti, mentre è in arrivo la Champions, arrivederci al primo marzo, Juve-Inter.
(ITALPRESS).
A SARRI E’ CAPITATO QUEL CHE CAPITÒ A MAIFREDI
Maurizio Sarri sta vivendo un’esperienza che potrebbe segnarlo profondamente, visto il suo carattere e la sua storia. Il fatto che sia un toscano nato a Bagnoli, luogo di infelici esperienze istituzionali e politiche, lo fa sferzante e dimesso insieme, eppure forte, come testimonia la sua lunga carriera di panchinaro che ha goduto molto e molto sofferto, almeno nell’orgoglio. Finalmente arriva al top – Napoli, Chelsea, Juventus – e scopre che il suo successo non è tutto frutto del suo lavoro e del suo ingegno ma di un’abile congiura mediatica che s’inventa il Sarrismo, una sorta di religione con tanto di predicatori televisivi che vogliono liberarsi dello scomodo Allegri, un altro toscano tuttavia sgarbato, non disposto a salamelecchi, cresciuto in una città anarchica, Livorno, il cui inno (portuale) è “once once bevi di meno ponce”, luogo di prendingiro che sanno vivere, come l’indimenticato Lucarelli.
A “i’Ssarri” è capitato quel che capitò a Maifredi. Gigi fece vedere un calcio nuovo a Bologna, incantò cronisti poetanti che ne promossero idee e immagine finché l’Avvocato disse a Luca:”Mi piace”, e Gigi finí alla Juve, presto defenestrato perché il suo calcio era troppo “emozionante”. Inutile nella fabbrica dell’auto e degli scudetti. Andrea Agnelli – mi dicono – non s’innamorò di Sarri, non è come il nonno, è un freddo, si fida del suo staff, dunque accettò l’idea di applicare alla Juve vittoriosa ma antipatica (ai suoi tifosi, gli altri la detestano) di Allegri una sorta di benefica ventosa traspirante qualità e genialità proprio mentre il “traditor tradito” Antonio Conte andava a sedersi sul trono della Beneamata. Vi facciamo vedere noi, dissero Paratici e Nedved. E s’è visto. Niente. La Juve è prima perché per sue doti faticherebbe di più a esser seconda. La Juve perde perché si è dimenticata quanto sia fastidioso perdere ed è difficile trovare in giro uno juventino perdente, un testimone del tempo: vinceva anche con Parola e Vycpalek…
Atto…semifinale (non auguro a nessuno crolli anticipati): Sarri viene demolito proprio da chi lo creò: gli opinionisti e qualche critico brillante che cerca di attribuire potere ai mediatori che ne hanno tanto bisogno. E dunque “ì’Ssarri” ‘un conta nulla e c’è addirittura chi invoca il ritorno di Allegri. Come fosse la fine di un regime, come voler restituire al Comandante Maurizio quell’immagine da Che Guevara tradito e eliminato dai padroni ricchi e borghesi. Ma è solo una storia di calcio che, a parte il ben noto Contismo, sta mostrando la sua faccia più vera – incredibile dictu – a Roma: la Lazio di Simone Inzaghi che vince e non incanta i poeti. E i gonzi son finiti.
INTER E JUVE AFFIANCATE MA OCCHIO ALLA LAZIO
Conte ce l’ha fatta, ha agguantato la Juve. Non solo: ha mortificato il Sarrismo elevato a religione dagli incensatori a voce libera. La Juve è caduta a Verona, subendo anche una lezione di calcio, l’Inter ha conquistato un derby romanzesco sottraendolo al Milan in costruzione in pochi minuti con Brozovic e Vecino (51′ e 53′: magie) e addirittura strappandoglielo con De Vrij al 70′. Fino al trionfante sigillo di Lukaku.
L’ubriacante avvio dei rossoneri con i gol di Rebic al 40′ e addirittura l’autografo di Ibrahimovic al 46′ ha solo contribuito al risveglio della Beneamata addormentata. Adesso si ripartirà con le due nemiche alla pari che si picchieranno fino allo sfinimento. Ma dovremo tenere presente, sempre, il terzo incomodo, la Lazio che non piange e non esulta, che avanza serena dalle retrovie del mondo dorato, senza strafare, estranea agli affaroni e ai ripensamenti di gennaio. Il calcio italiano, se i mandolinisti permettono, è qui…
C’è una novità. In Italia come in Spagna, dove Real e Barça sono stati sbattuti fuori dalla Copa del Rey dalla Real Sociedad e dal Bilbao. La novità è che il fatturato non fa più punti con l’abituale prepotenza. Cosí la Juve vien messa sotto e castigata – nonostante un Ronaldo in grande spolvero – dal Verona che in sei giorni è uscito indenne anche dagli scontri con Milan e Lazio. Cosí il Napoli, cresciuto a mozzarella e fatturato, nel senso che fu proprio De Laurentiis a inventarsi l’inghippo economico per giustificare certe amare sconfitte (e fornire involontariamente alibi ai tecnici) è stato letteralmente violentato dal Lecce che da quando ha incontrato Conte s’è caricato d’intensità, di rabbia, di potenza. E non dico del Bologna che stende la Roma perché la Roma è ormai nel gruppo di quelle squadre che chiamavamo provinciali, gli va già bene se pensano all’Europa League. Ma c’è un’altra novità: i Verona e i Lecce non appartengono più al filone retorico delle provinciali coraggiose da una botta e via (chi non ha sognato di far fuori una volta, almeno una volta, la Beneamata e l’Odiamata?), non si scomoda più Davide che abbatte Golia, si prende piuttosto nota che non bastano soltanto i campioni, a fare la differenza, perché se non li hai funzionano competenza, lavoro, fantasia, spirito di gruppo e la capacità di tecnici che non sono soltanto i reclamizzatissimi Conte e Sarri, possono chiamarsi semplicemente Juric, Liverani, Nicola, oppure – salendo un po’ la scala dei valori – Mihajlovic, De Zerbi, Ranieri, fino al migliore del suo mondo, Gasperini, e al migliore sul campo, Simone Inzaghi. Tutta gente che col fatturato non c’entra, tecnici che non sbagliano la formazione a luglio e la rifanno a gennaio. Non so quanto potrà tenere – soprattutto quanto dovrà difendersi dagli influssi maligni di un mondo anti Lotito – ma la vera protagonista di questo mezzo campionato degli outsider è la Lazio.
ECCO PERCHÈ COMMISSO HA REAGITO MALE
Commisso speaking? Dicono che negli Usa certi discorsi non si fanno perché domina il fair play. Balle. Certi discorsi non si fanno perché certe cose – ma non chiamiamole proprio porcherie, piuttosto distrazioni, da distrarre – là non succedono. Tant’è vero che il calcio “alla nostrana” non è mai attecchito. Ho partecipato alla fondazione di quella Lega invitato da Giorgio Chinaglia quando passò al Cosmos e da alcuni calabresi e siciliani trapiantati in Usa (e magari visti come eredi di vari padrini) i quali si preoccupavano di dirmi quanto fosse importante per loro garantire la correttezza delle partite. Stupivo. E mi facevano anche sapere che le partite sarebbero sempre finite con un vincitore e un vinto per garantire gli scommettitori, dunque introducendo i calci di rigore. Poi, una volta arrivati lì a sperimentare la loro organizzazione – era il ’71 – con Long John, Bobby Moore e Pelè vedemmo cose da trasecolare: partite date al puro divertimento, agenti a cavallo in campo al primo accenno di rissa e infine, dopo i novanta, i tifosi armati di punteruoli e bidoni a raccogliere cartacce, bottiglie vuote e altra monnezza. Dicemmo a Chinaglia:”Giorgio, questo non è calcio!”. E lui: “Ma hanno molti soldi…”. Pelè rise a tutti denti, ammise che in quell’atmosfera – fair play – non si poteva giocare calcio ma soccer e che la sua unica virtù era un giocar leggero che non avrebbe fatto molti danni. E infatti diventò lo sport preferito dalle ragazze americane. Ecco perché Commisso ha reagito tanto male a un arbitraggio meschino che, con quel secondo rigore inesistente, lo portava a ricordare altri torti arbitrali subìti con Inter e Genoa. (Impedite – per favore – che il correttore automatico continui a trasformare i torti in torte). Ha investito nella Fiorentina tanti soldi e in cambio – anche per la sua paterna passione per Montella – ha preso solo schiaffi. Ma se i danni – pensano tanti che conosco – me li faccio da solo, provvedo a correggermi da solo; i danni esterni sono considerati ovvi, ma alla terza patacca mi ribello. Protesto. Denuncio. Che poi ci vada di mezzo sempre e solo la Juve dipende dalla scarsa correttezza dell’informazione, soprattutto quella dei blog, colpevolista ad oltranza e dunque degna di battersi solo con i cultori dell’innocenza totale.
Già che c’è – e immagino che resterà tanto con noi – Commisso dev’essere aggiornato anche sulla condotta maligna della VAR, un’invenzione spacciata per arma di giustizia e deterrente antiviolenza, in realtà divenuta strumento di tortura per professionisti e appassionati e incentivo alla rissa continua. WAR – guerra – non VAR.
CAMPIONATO DI EMOZIONI MA LA VAR È DIVENTATA…WAR
Le tre viaggiano a pieno ritmo: Juve 54, Inter 51, Lazio 49. I gol sono quasi tutti loro, anche se la classifica dei bomber vede in testa l’Incredibile Immobile (25), poi Ronaldo (19) e infine Frate Lukaku (16) che Lele Adani (letto Gianni Mura) ha promosso Guida Spirituale dell’Inter. Sembrerebbe una favola, dopo anni di noia (si fa per dire) bianconera. E invece una domenica finalmente quasi rispettosa della tradizione e dei valori pallonari viene oscurata da una polemica arbitrale che riaccende fra le due massime rivali, la Beneamata e l’Odiamata, la rabbiosa contesa rinata con Calciopoli. Un arbitro debole e incerto, un Var alla sua altezza, due rigori (uno certo, l’altro no) che Ronaldo realizza e il gioco è fatto. Col tempo la Var s’è perfezionata, ha raggiunto il livello che ho sempre temuto: la chiameremo War, la vecchia rissa calcistica è diventata guerra. Una delle peggiori, un progressivo avvelenamento del clima agonistico mentre il campionato cerca di sfornare emozioni con Juve, Inter e Lazio in lotta per lo scudetto; con le seconde forze che, guidate dall’Atalanta, consumano imprese edificanti: vedi Cagliari, Bologna, Verona, anche il Lecce; e infine con le pene di squadre come il Toro che danno sapore alla zona pericolo. Ma le parole, come pietre, e gli scritti, come mazze, demoliscono l’immagine di un torneo in salute le cui conclusioni – scudetto, Europa e retrocessione – saranno difficilmente accolte dai contendenti infuriati. Si giudica il presidente della Fiorentina: una certa ragione ce l’ha – sento dire – ma esagera. Quando si inveisce contro le ingiustizie non si esagera mai. E Commisso, dopo aver subito un rigore inesistente a Casa Juve (la cui forza superiore è stata ancora una volta minata dall’insipienza di un arbitro) è passato dalla cronaca alla…storia elencando una serie di sviste arbitrali a favore di altri avversari – Inter compresa – che da mesi stanno demolendo la sua voglia di “giocarsi” in Italia. Il dramma – ché di questo si tratta – raggiunge anche punte comiche quando si viene a sapere che il presidente degli arbitri Nicchi si autocandida per il quarto mandato. Immagino che lo sostenga la convinzione di aver fatto il bene del calcio regalandogli la Var/War ma gli farei notare che lo strumento infernale non ha salvato la ghirba del suo produttore, Tavecchio, una vita da volpe diventata una fine da pollo. Si chiede il bis.





