Non per puro diletto (nel caso Dazn, Diletta) ma per lavoro seguo con attenzione le trasmissioni di calcio e ho notato la sparizione del dibattito altamente intellettuale fra Estetisti e Risultatisti. L’ultima sfuriata di Conte a San Siro per un pareggio procurato da un epurato illustre, Nainggolan, e la figuraccia di Sarri a Napoli testimoniano l’ormai irreversibile ricerca del risultato a tutti i costi (per divertirsi lo fa solo l’Atalanta quando incontra gli eredi poco onorevoli del Toro). Con metodi lontanissimi dalle guardiolate (e fa tenerezza sentire Gattuso che spiega a Capello le sue trovate tattiche riferibili d’ora in avanti come “Tikitaka alla napoletana”) si sta recuperando lo stile italiano definito dai contestatori “ancien régime” forse perché un giorno lontano ci fece vincere mondiali e Olimpiadi. Nel “ripasso” di Napoli -Juve si sono viste chiaramente disposizioni 5-4-1 molto simili al paradossale modulo 9-1 predicato per anni da Fabio Capello. (A proposito, avrete notato come Don Fabio sia rimasto l’unico critico degno di tal nome, sia pur soggetto all’errore e tuttavia libero di dire ciò che vuole, per censo o ricchezza non so).
In tal contesto, ho trovato più che apprezzabile il risultato della Lazio nel derby anche se alcuni suoi ammiratori ne sono usciti scandalizzati, come la maggior parte della critica che ha invece trovato accenti encomiastici per il Bel Giuoco della Roma, avendo goduto di un gol papera (come i laziali peraltro). Convinto di intendermi di classifiche, mi permetto di dire che domenica il pareggio casalingo dell’Inter è stato più dannoso della sconfitta esterna della Juventus, proprio come il pareggio della Lazio è stato il miglior risultato del derby: l’educazione e la sportività di Simone Inzaghi che si è rallegrato con a Fonseca dicendogli “meglio tu di me” sono stati equivocati come lamento; a parte che i lamenti appartengono di diritto a Mazzarri e al suo nuovo concorrente Antonio Conte, la Lazio che deve anche recuperare una partita non aveva alcun interesse a rischiare secondo il detto “un bel gioco dura poco…e rende anche meno”. Non va giù che l’ottimo Gasperini dia spettacolo con un’Atalanta che esibisce una versione rivoluzionaria del gioco all’italiana, né che l’Inter dia il meglio di sè in contropiede, come ha dimostrato un’azione fantastica di Lukaku finita nel nulla perché quando fugge veloce come un treno non trova nessuno pronto a dargli manforte (vediamo chi, dei tre nuovi stranieri, funzionerà da spalla in assenza, forzata, di Lautaro). Non va giù che la Lazio possa legittimamente aspirare allo scudetto: spende poco, e bene; trova giocatori ottimi e se li tiene; ha un bomber italianissimo che se per un derby ha sonnecchiato, come Omero, ci riserverà altre poesie. E Simone, Simone è il meglio. Per l’ennesima volta, inelegante, ricorderò di avere suggerito a Lotito di rinunciare a Bielsa El Loco e di tenersi Inzaghi il Saggio.
FINITO IL DIBATTITO TRA ESTETISTI E RISULTATISTI
DERBY DI ROMA HA DATO UNA LEZIONE DI SPORT
Alla faccia dei catastrofisti, una rara buona notizia: il Derby è finito senza incidenti, anzi dando una rarissima lezione di sport da un pulpito – quello del calcio – raramente all’uopo abilitato. In uno stadio che può essere “abolito” solo per interessi privati di qualche magnate (ehm ehm) coreografie bellissime e 94 minuti di gioco sono stati esibiti per registrare le ambizioni non più cittadine di Lazio e Roma, naturalmente dispari dopo l’1-1 che conforta i giallorossi mentre galvanizza i laziali ormai addosso all’Inter. Va da sè che la Beneamata è al vertice dei pensieri di Simone Inzaghi: anche Tare, al solito prudente, non esclude il diritto della Lazio a pensare allo scudetto o almeno a farsi sfidante della Juventus. I commentatori dell’etere hanno applaudito la prestazione della squadra di Fonseca, criticato l’ attendismo di Inzaghi: e dire che basterebbe la classifica per capire chi ha ragione. In tempi di estetismo fallito per l’abiura di Sarri, felicemente approdato alla riva dei risultatisti, il calcio “all’italiana” di Simone eccita preventivamente certa critica che farebbe bene – opino – a dedicare maggiore attenzione al pre-fallimento dell’Inter che non ha modulo ma neppure gioco nonostante abbia speso un patrimonio.
Conte l’Intenso è diventato Conte l’Inquieto, raccogliendo il sesto pareggio della stagione. Ma mentre di Parma, Fiorentina, Roma e Atalanta s’interessa soprattutto l’archivio, i pareggi di Lecce e di San Siro con il Cagliari rivelano l’inconsistenza di certi orgogliosi disegni del tecnico nonostante l’Inter occupi stabilmente le prime pagine di gennaio per il mercato fatto e sognato. Marotta ha convinto Zhang a spendere nonostante i 170 milioni investiti l’estate scorsa; arrivano Young, Moses ed è atteso Eriksen ma l’Inter non cambia e delude il tecnico a priori, visto che mentre i nuovi festeggiavano il nerazzurro lui ironizzava sul Real che resta a Madrid e non si sposta a Milano: non è un incoraggiamento per chi deve scendere in campo, neanche per Lukaku e Lautaro; el Toro, oltretutto, con una esibizione di rabbia davanti all’arbitro, ha assunto lo stesso atteggiamento di Conte nel finale che ha ignorato il dettaglio più importante del match: il gol di Nainggolan, dell’esiliato che proprio in questo momento fa pensare all’altro ripudiato, Maurito Icardi, il parigino ormai destinato all’Arco di Trionfo. Colpisce, di questa Inter, il vittimismo arbitrale. Cosa penserà Suning dopo avere speso cifre folli senza riuscire a impensierire la Juventus che i problemi, quando li ha, se li crea da sola?
DA GATTUSO NAPOLI SI ASPETTAVA DI PIÙ
Un amico napoletano mi dice – e scrive – “se per caso il Napoli non abbia sbagliato a affidarsi a Gattuso”. Poi cerca di farmi intendere che “De Laurentiis dopo la seconda partita di Gattuso aveva pensato di richiamare a Ancelotti”. Già impegnato con l’Everton – dico io – da molto tempo prima di chiudere col Napoli. È una trama, questa, insolita per il calcio. Certi salti logici e infantili inganni e complotti balordi sono pane della politica, dove si finge di conoscere tutti i misteri e non si sa quasi nulla; mentre il calcio ha tante di quelle voci che alla fine almeno i competenti e i non sensazionalisti sanno distinguere facilmente il vero dal falso. Le bugie hanno breve durata, da queste parti. Come le sparate, le denunce, gli appelli. Come sa anche Sarri – tradotto da Ronaldo – basta vincere e tutto è chiaro. Il dibattito presuntuoso sul Giuoco di Qualità è finito, ha perso solo Allegri che comunque si fa risate dei maestrini dalla penna rossa sbugiardati dal “vincere unica cosa che conta”.
All’estremo opposto c’è Gennaro Gattuso con tante sconfitte – le peggiori in casa – che non solo mettono in discussione il suo permanere sulla panchina del Napoli ma tout court la sua competenza e professionalità. Tipo: vedi Napoli e poi muori. Come dire è meglio che ti dai all’ippica. Distrutto. Anche da quelli che inspiegabilmente l’avevano accolto come il salvatore della patria.
Scrissi, a suo tempo, che scegliendo Gattuso De Laurentiis aveva voluto dare uno schiaffo ai sapientoni e agli estetisti numerosi in città. Naturalmente non pensava che Gattuso avrebbe fatto così male: lui era sicuro che il famoso Ringhio avrebbe fatto del suo meglio per raddrizzare la baracca e mantenerla nei quartieri alti. Fino a giugno. Poi grazie, soldoni e via, avanti un Signor Tecnico, magari un Allegri (altra sofferenza da infliggere ai critici sarristi, ma almeno di qualità). Non aveva fatto i conti, l’eclettico presidente, con la psicologia (elementare) di Gattuso. Arriva al Napoli, ohibò, e prima di tutto vuol farla pagare al Milan che l’ha tagliato per trovare di peggio: Maldini, Boban, vedrete…Poi si mette in testa di battere il Maestro che gli ha insegnato tutto, Carlo Ancelotti, e siccome non ci riesce si fa scappare anche qualche cattiveria su Sir Carlo. E qui siamo in politica, dove ogni governante nuovo quando non sa che fare dà la colpa ai predecessori, fino alle calende greche. Gattuso, non contento degli scivoloni formali, si inventa poi anche di giocare coraggiosamente, trasformandosi da fabbro in scultore, da imbianchino a pittore. Facendo mosse inspiegabili che tuttavia spiegano ampiamente la crisi del Napoli. Paradossalmente la situazione presente lo aiuterà a sanare il futuro. Siccome a Napoli già si parla e si scrive di rischio retrocessione Rino Gattuso non più Ringhio (ahilui) è finalmente – forse – l’allenatore giusto al posto giusto. Gennaro – laico – salvaci tu.
LAZIO BELLA E DANNATA
Bella e dannata. Tradizione ribelle. Una carezza e un pugno, direbbe Adriano. La Lazio è un ossimoro. No, non è schizofrenia. È un tormento storico, inesauribile, che è finito per diventare la sua immagine permanente, spesso trascinata nel fango della violenza, sempre ripulita e assolta da quel tocco celestiale che centovent’anni fa ereditó dalla Grecia Olimpica. È antica ma ha una storia costantemente ravvivata dalla cronaca, nera o rosa che sia, e anzi lá dove c’è il nero, luttuoso o politico, c’è la sua anima contestabile ma immanente. Uno dei pilastri della Lazialitá, Renzo Nostini, fiorettista olimpico (ma anche premiato nel nuoto, nel pentathlon moderno, nel rugby, presidente per anni della Polisportiva Lazio) mi confidava in amicizia ch’era colpa o merito del calcio se l’immagine fondativa veniva spesso offuscata. Ma ne reclamava, sempre e con forza, l’italianità d’anima e di stile. Come dire che se Simone Inzaghi, ottimo tecnico fortunatamente (per lui e per la Lazio) mai scoperto dai grandi club, fa giocare la squadra “all’italiana” un motivo c’è: si fosse seduto sui troni della Juve, dell’Inter o del Milan i filosofi e gli estetisti lo avrebbero massacrato. Adesso devono sopportarlo. Augurandosi che non vinca lo scudetto. A parte le belle parole, i paroliberi non hanno mai gradito i successi laziali troppo “politici” anche sul campo.
Vi racconto una storia inedita. Nel 1962, poco più che ventenne, scrivevo su un quotidiano romano, Telesera, diretto da un bravo bolognese, Mario Bonetti, che un giorno mi chiamò per dirmi ch’era cambiato editore, in sostanza tutto: “Si chiama Ernesto Brivio, lo chiamano ‘l’ultima raffica di Salò’. Ci capiamo…”. Non mi disse ch’era anche presidente della Lazio, forse l’unica nota seria di un personaggio che girava per via Veneto con un leoncino al guinzaglio (sempre meglio…portabile di un’aquila), vantava origini fasciste ma anche una milizia cubana a fianco del dittatore Fulgenzio Batista che non gli impedí di ammirare Che Guevara. Al giornale fece molti danni (me ne andai quando cominciò a pubblicare in prima pagina annunci personali tipo “il generale Taldeitali è atteso domani alle 13 nel mio ufficio”) alla Lazio portò Juan Carlos Lorenzo, Il bomber Rozzoni detto “Orlando Furioso” e un po’ di soldi che – ci teneva a precisarlo – vinceva alla roulette. Quando “pieno e cavalli” non risposero più saltò per aria e fuggí all’estero. Non ricordo dove. Piú o meno in quel tempo conobbi Tommaso Maestrelli che allenava al Sud e mi stupii, una decina d’anni dopo, quando fu chiamato a guidare la Lazio nonostante il passato di partigiano che non gli impedí di guidare giocatori di segno contrario con i quali vinse nel ’74 uno scudetto fantastico.
Nella sana follía della Lazio ci sta tutto, anche l’epica baraonda economica di Sergio Cragnotti che, a differenza di Brivio, i soldi per la Lazio li trovó nei pomodori e nel latte, finendo tuttavia nei guai come lui: peró non fuggí all ‘estero ma a Montepulciano ed è ancora amatissimo dai laziali che gli devono uno scudetto bellissimo.
Ci sta, nella Lazio, anche Claudio Lotito, del quale potrei scrivere pagine, anche d’encomio, senza piacergli. È un mio vanto. E tuttavia sono stato fra i pochi, al suo ingresso nel calcio, ad applaudirlo. Prima per la riforma del tifo che gli è costata la damnatio degli ultrá, poi l’abilitá amministrativa e gestionale che mi ha fatto dire di lui ch’era il miglior presidente, naturalmente anche per aver scelto un dirigente come Tare, non costretto all’ubbidienza cieca, pronta, assoluta. Ha un grande difetto, Lotito: parla di calcio non avendone la necessaria competenza. Quando ha definito “casuale” lo scudetto di Lenzini e Maestrelli, di Chinaglia, Wilson, Martini, D’Amico, Re Cecconi (da ricordare con una preghiera, come il tifoso Paparelli) e degli altri “eroi” ha sottratto alla Lazio uno dei momenti piú belli della sua storia.
JUVE CAMPIONE D’INVERNO MA NON PROTAGONISTA ASSOLUTA
La Juventus è campione d’inverno ma non è protagonista assoluta. Il riposino natalizio – checché se ne dica – ha fatto bene a tanti. Non avremmo visto un’Inter-Atalanta dal contenuto atletico di 4 partite “normali”. Nè un’Udinese, un Verona, una Samp cosí in palla dopo aver vissuto il clima deleterio della zona retrocessione. Riposato, a modo suo, anche Ibra, alla faccia di chi lo crede troppo vecchio: a Cagliari sembrava quello di dieci anni fa, e non solo per i gol ma per l’inossidabile intelletto (si fa notare, lo svedese, là dove si esibiscono tatuaggi e scemenze).
Tirate il fiato: non avremmo visto, senza la sosta, una Lazio compatta e determinata battere un Napoli tatticamente sconnesso tuttavia in ordine fisicamente. (Gattuso anche se riposato più di tanto non può fare). Era la stessa Lazio che prima delle vacanze si era permessa di battere la Juventus due volte. A proposito della quale va detto che la più recente impresa all’Olimpico, tradizionale territorio “nemico”, dice due cose: 1) Ronaldo riposato vale almeno per un tempo il doppio e passa da spettatore (ultime gare del 2019, Supercoppa compresa) a protagonista; anche se, per proteggersi intelligentemente dal logorío del tempo, l’ho visto, al minuto 40 di Roma-Juventus, rinunciare al confronto diretto con Diawara che arrivava a cento all’ora; come diceva Capello); 2) Sarri ha rinunciato al tridente ma non è una mossa tattica, è un attacco di fifa che si realizza nel secondo tempo con una incredibile botta di fiacca che procura il gol del 2-1 alla Roma e la panchina a Dybala, incavolatissimo. Il fisico c’è, manca il coraggio di sostituire Ronaldo.
Era sicuramente riposato anche Conte ma Gasperini – che non è Divo ma Maestro – lo ha brutalizzato in una delle più belle partite viste negli ultimi anni. È già faticoso dire che la Lazio ha titoli per battersi per lo scudetto, pensate quant’è dura portare sull’altare delle Grandi l’Atalanta. Eppure è la squadra che gioca meglio celebrando a San Siro il meglio del Rito Ambrosiano, quel calcio che fu onorato da Rocco e Viani naturalmente riformato e portato a livello europeo da un tecnico che ha tanto faticato a imporsi. Forse perché non la mena da esotico né da filosofo e fa calcio come Mastro Galeone insegnò a lui e a Allegri (a proposito di Max, mi sono permesso di consigliarlo al Milan due mesi fa, vedo che ci stanno arrivando…). Della Zona Champions è mancata solo la Roma, ha capito troppo tardi l’involuzione bianconera. Fonseca è bravo ma gli mancano certe sottigliezze. Sarà bene che studi…italiano. La Lazio insegna.
COMMISSO E SAPUTO ZII D’AMERICA
Girando per mercatini, a Natale, finalmente scoprendo qualcosa di nuovo da comprare, in particolare oggetti dell’artigianato locale, ho capito che quella è la nostra vera dimensione. In tutto. Siamo un Paese giustamente preoccupato dei frutti avvelenati di certa globalizzazione, vedi il calcio business dei fatturati straripanti, eppure abbiamo in noi l’antidoto naturale, ovvero un senso della misura che aborre il pacchiano e gli arricchiti, i primi a corrispondere al denaro già vicino allo sterco del diavolo ma in particolare simbolo di prepotenza. Quando arrivarono i cinesi e si temeva che potessero comprare tutto il calcio come se fosse l’Esquilino, fummo fortunati: all’oscuro benefattore di Berlusconi, che pagò il Milan come fosse una miniera d’oro senza avvedersi che era esaurita, potemmo opporre i Signori di Suning, garantiti da Massimo Moratti, dunque ricchissimi e solvibili nonché desiderosi di cimentarsi in una delle rare arti sfuggite al loro genio inventivo, il Gioco del Pallone.
Già esistevano gli Amerikani de Roma, quelli che il calcio era più che mai una redditizia passione per il cemento. Oggetto di mille appetiti sfamati, i progetti, inesistenti le realizzazioni, come lo Stadio della Roma che unisco – nel sogno- a quello che tenni a battesimo nell’86. Mai realizzato. Certi campioni non vengono da noi perché sanno che gli toccherebbe giocare in qualche antica risaia o in terreni fatti apposta per gli infortuni. Altri perché le loro performances monetarie sarebbero rivelate al popolo e usate per ritorsioni polemiche contro “i fannulloni”, com’è successo a Napoli per allontanare Ancelotti. Gli investitori stessi – stranieri, ormai solo stranieri visto che se fossero italiani il fisco li divorerebbe – o sono santificati ancor prima di essere conosciuti, come quel signore della Roma che ha prodotto di sè un’immagine accattivante e ha fatto sapere d’esser pieno di soldi, mica chiacchiere, e ha un nome, Dan Friedkin, che sa di cinema e di sogni, la cui generosa offerta è tanto per Roma, pochissimo per Londra e per l’Inghilterra intera dove impianti sportivi in genere e stadi particolari – e nuovi di zecca – dicono di una vera industria galoppante mentre noi sembriamo figli dell’Ilva.
Per fortuna ci divertiamo lo stesso perché il calcio è un gioco e anche un lavoro. Ed è in gran parte in mano a privati italiani calcisticamente competenti. E furbi. Come Lotito che, guarda caso, ha l’unica squadra che gioca davvero “all’italiana”. E guarda caso vince. Non possiamo essere un grande mercato anche perché non esiste la cultura del valore ma lo strombazzamento di qualità spesso inedite o fantasiose: i comunicatori del mercato sono acritici, entusiasti di ogni pedatore annunciato, fanno come Vincenzo Mollica fa con attori e cantanti, mentre i calciatori devono aver le carte in regola, visto quel che costano, e rivelarsi certezze o almeno sorprese. Come Lukaku. Il calcio italiano è di nicchia, per qualità, per ispirazione tecnica, per tradizione. Per sentimento. Mi è piaciuto sentir rievocare prima di Bologna-Fiorentina da Rocco Commisso, l’imprenditore calabrese di New York, l’amicizia cinquantennale della sua famiglia con quella di Joey Saputo, il siculo canadese presidente del Bologna il cui nonno forniva mozzarelle al fratello di Rocco, pizzaiolo nella Grande Mela. Questi sono gli Zii d’America. Questi siamo noi. Vuoi mettere con Elliott? Con Vuitton?
LUKAKU MAESTRO DI CONTROPIEDE MA L’ATTACCO DELLA JUVE RESTA SUPERIORE
Non mi fidavo molto di Lukaku, anche se lo avevo ovviamente coinvolto nel mio pronostico sull’Inter da scudetto, convinto di altre virtù nerazzurre che non ho bisogno di ribadire. Ma adesso l’adoro, Romelu, perchè lo vedo interpretare il contropiede da gol come pochi prima di lui, da maestro, come se avesse passato anni a studiarlo, a perfezionarlo, senza darsi conto del fatto che gli opinionisti sacchiani lo hanno abolito, consentendo solo l’esistenza di qualche stracciata ripartenza. Non mi stupisce che parli bene la nostra lingua, Lukaku, e che esibisca serenamente i suoi segni di croce, segni di conquistata italianità: il contropiede ne è la metafora.
Mi tolgo questa personalissima soddisfazione quando ho appena finito di applaudire Simone Inzaghi per la felice interpretazione del calcio all’italiana che sta dando con la Lazio. Ma ecco che due tecnici avveduti, D’Aversa e Maran, degni di appartenere a questo ristretto circolo di competenti, svaccano brutalmente facendosi sommergere di gol da Atalanta e Juve.
La partita di Bergamo doveva in qualche modo celebrare l’affarissimo Kulusevski, fino a pochi giorni fa appartenente a entrambi i club, immagino osservato da Sarri e Paratici in una sfida cosí strana, e invece ne ha tratto soddisfazione solo Gasperini che può confermare al suo boss di non aver sofferto per un attimo l’ormai certo addio dello svedese. Peggio è andata a Maran, fino a poco tempo fa titolare di una squadra che inanellava successi, preparando le celebrazioni del centenario del Cagliari. L’ho elogiato, il solito cinico (prezioso) mi ha avvertito: “Presto si farà esonerare”. È vero che per molti perdere è perdere, per altri – me compreso – tutto è perduto, nella stagione del business e della Var, fuorché l’onore. Nel calcio certi schiaffi non si cancellano presto. Ho visto il Milan, anche con Ibrahimovic, accusare il 5-0 dell’anno vecchio. Non gioca, trema.
Resta un dettaglio importante: l’impresa di Ronaldo nella Juve che Sarri finge (credo) di manovrare con incertezze legate al tridente conferma già la scelta più importante della Signora, quella di tenersi Dybala che con CR7 resta una delle coppie più belle del mondo; eppoi Higuaín, che non entra mai solo per far riposare la Joya: il suo gol lo fa e avverte che il tridente non sarà mai un pericolo. Finché all’Inter non arriverà un Vidal, il potenziale offensivo della Juve resterà superiore. L’Inter esibisce la sua coppia perfetta e punta allo scudetto ma Lukaku e Lautaro, devastanti in contropiede, non mi pare abbiano trovato al San Paolo grandi difficoltà. Il bel Napoli d’antan è sempre più un bel ricordo. È tutto quello che mi sento di dire del paradiso perduto.
LA JUVE “ALL’ARABATA” ERA STANCA E DISTRATTA
Quando ho sentito Lapo Elkann dire “Vergogna!” agli juventini sconfitti ho associato il pur immeritato (per durezza) rimprovero all’irreperibilità dei giocatori che avevano scritti sulle maglie i loro nomi in arabo, lingua che per abitudine tutta italica rappresenterebbe l’Incomprensibile (cosa che non vale per i numeri arabi, come si dovette spiegare a quell’onorevole che animato da sacro fuoco antislamico ne chiese l’abolizione). Si è giovato del…travestimento linguistico anche Ronaldo, notato sul campo di Ryad soprattutto per il cerchietto in testa a tenere i boccoli. Se l’immagine non vi sembra eroica avete ragione: la Juve “all’arabata” era stanca, distratta, demotivata. L’ha confermato Sarri. De Laurentiis avrebbe immediatamente criticato e cacciato l’allenatore – come ha fatto con Ancelotti – perché i tre succitati difetti possono risultare solo da una preparazione sbagliata, fisicamente e psicologicamente, per responsabilità del tecnico. Critico Sarri, dunque, ma non dimentico CR7: ammesso – e concesso – che Lui sia un fenomeno, non si può permettere di snobbare letteralmente un Evento che avrebbe aiutato il sor Maurizio e la squadra a chiarirsi le idee senza drammatizzare. E il punto dovranno farlo, con Lui, perché il problema c’è, evidente, e non mi sembra che la soluzione sia impossibile: si tratta di fare una squadra con una dotazione importante di giocatori, un mix di giovani dabbene e veterani d’alto bordo. Ispirato dal crollo dei rossoneri a Bergamo mi viene da dire che con quella gente che ha Sarri potrebbe fare – c’era una volta – un bel Milan da scudetto e da Champions.
Una squadra l’ha costruita da tempo Simone Inzaghi, al quale vorrei augurare una milizia laziale di almeno 26 anni, come Alex Ferguson all’United, perché se è già miracoloso aver lavorato un decennio con Lotito è ancor più meritevole di applausi la capacità di entrambi di convivere, collaborare, capirsi, scontrarsi e tuttavia trovarsi sempre lí con un impegno: lavorare per crescere. Il giovane Simone c’era già, alla Lazio, quando Lotito rateizzava i debiti, allontanava gli Irriducibili, sparava boutades allarmanti e tuttavia – sul piano pratico – individuava giocatori di talento che sfruttava e cedeva, curando il bilancio. Fino a quando ha deciso di tenerseli, i Bravi Ragazzi, per cominciare a vincere. Sembrava impossibile, c’è riuscito. Alla Lotito. In senso buono. Come quando dice che Milinkovic vale uno sproposito e se lo tiene anche quando gli offrono un pugno di euro in meno. Lui è fatto cosí. Grazie a Tare, il miglior direttore sportivo su piazza – e in sede, nello spogliatoio, al mercato agisce come se fosse lui il presidente, avendo tuttavia grande competenza e senso della misura – Inzaghi ha messo insieme un gruppo eccellente illuminato da Luis Alberto e confortato dai gol di Immobile, dotando la squadra di titolari da panchina sempre pronti a entrare tirati a lucido e efficienti. Sciocco farselo rapire, salvo pensare di ricominciare da zero. Ma alla fine, lo spirito e i numeri tecnici che hanno permesso alla Lazio di colpire e affondare la Juve in due occasioni ravvicinate dice chiaramente che il calcio non è filosofia se non nelle tribune televisive dove molti perdenti nati spiegano il calcio ai vincitori. Com’è successo con Allegri. È un vezzo tutto italico, peraltro verificato, quello di non saper perdere. Ma diventa un dramma in Casa Juve, dove esiste solo la vittoria. All’anno che verrà.





