Due campionati: al sabato quello delle grandi, alla domenica il resto. Che detto così fa già capire tante cose. Per carità, succede per quelle quattro che vanno in Champions, tutto in regola. Ma il sabato nazionale è tutto di Juventus e Inter. Il Napoli e l’Atalanta ci stanno a far figura. E per fortuna la santa domenica viene comunque onorata da partite emozionanti, fin drammatiche. A cominciare da un Bologna-Parma che si gioca per Mihajlovic, per il suo dramma che per fortuna pare avviato a serena conclusione ma coinvolge tuttora una squadra tecnicamente modesta che gioca – come suggerì Sinisa – disperata. Solo così, con un gol di Dzemaili al ’95, ha raggiunto un bel Parma che può aspirare, se non si distrae troppo, a una posizione “europea”. Tradizionale il successo della Lazio con il Sassuolo grazie a Immobile e Caicedo nel finale, pressoché ovvio quello della Roma sul Brescia (ma occhio al Mancini che Fonseca sta coltivando come un fiore, mentre il Mancini ct gli ha restituito un Florenzi pienamente riabilitato). Il top del flop riguarda in verità la Fiorentina sconfitta dal Verona grazie a Di Carmine. Sul fronte giocatori non c’è neppure confronto: il presidente “mericano” Commisso non ha fatto mancar nulla a Montella, compreso quel Ribery che ci ha fatto l’onore di accettare l’Italia. Assorbita con una certa disinvoltura (dicono, ma non ci credo) la pesante sconfitta di Cagliari, la botta di Verona non sarà facilmente digerita dal vertice viola, visto che Pradè ha già parlato di “ridimensionamento”. Mentre Montella non ha saputo che giustificare la brutta sconfitta con l’assenza di Chiesa. Misera scusa. Chiesa in realtà manca dall’inizio del campionato. Da quando la Fiorentina ha rinunciato a bei soldoni per darlo alla Juve che era pronta (mi dicono) a ricambiare con milioni e Dybala. Follìa. La Juve è stata fortunata a tenersi Higuaìn e Dybala, dimostratisi i più forti del gruppo. Merito di Sarri? E Ronaldo? Attenti al turnover! Non sempre ripaga. L’Inter purtroppo non si è pentita in tempo con Icardi: l’ha spedito a far gol a Parigi, si è visto che ne aveva più bisogno a Milano. Ha vinto Wanda.
MANCINI GARBATO ANARCHICO BORGHESE
Roberto Mancini è un garbato anarchico borghese (per Longanesi il concetto d’anarchia si poteva applicare ove vi fosse pensiero possibilmente libero) che ha realizzato un calcio rivoluzionario e tradizionale insieme: prima interpretando come rari maestri il ruolo di selezionatore, poi facendosi allenatore secondo istruzioni ricevute da due tecnici fantasiosi quanto tradizionalisti, Marino Perani – il mai compreso ex giocatore del Bologna con la vocazione di talent scout e maestro – e Vujadin Boskov – lo slavo senza drammi nè proclami – che prima d’altri mister esperti di marketing seppe parlare allo spogliatoio. A questa fortunata dote ricevuta in gioventù verdissima, Roberto aggiunse una virtù quasi esclusiva: un bon ton nato in famiglia, a Jesi, in un contesto tutto marchigiano di genio e regolatezza.
Una sera del 2008, a Pechino olimpica, parlando in tv con la
jesina Valentina Vezzali, le rammentai il già famoso concittadino pallonaro, e lei rispose: “Vuoi dire Federico II…”. (Tacqui, io, nato in un borgo modesto, nido di buona cultura ma privo di famosi 9 famigerati eroi del passato, tant’è che quando me ne andro’ potro’ aspirare almeno al nome in un pianello). Evidentemente la grande schermitrice non riteneva il calcio uno sport aristocratico, ma sbagliava: non nell’accezione piu’ vasta, che’ in realta’ il gioco del pallone ha una sua amorevole natura plebea fatta di bimbi poveri, di famiglie speranzose, di palle di stracci peraltro rotolanti anche sulla spiaggia di Ipanema e nei campetti tutt’erba e buche della periferia; ma se avesse conosciuto bene Roberto l’avrebbe scoperto baronetto di buone maniere, raffinato nei modi e nelle abitudini, un po’ troppo a’ la page con gli sciarponi nerazzurri, ma nella sostanza capace di gestire una squadra d’alto livello e una conferenza stampa piena di trabocchetti. Milano, pur avendogli dato molto, concedendogli la guida della Beneamata che lui ha ricambiato con successi importanti, ha rischiato di collocarlo in un pantheon minore per far posto, fra gli Immortali, a Jose’ Mourinho. Solare ingratitudine ma anche ignoranza, perche’ lo Specialone e’ un mago del marketing mentre il Mancio e’ un esperto di calcio. Ricordate quando si diceva – un po’ per scherzo un po’ per la cronaca – che nello scudetto della Sampdoria di Vujadin avevano messo mano anche Mancini, Vialli e Dossena? Oggi possiamo dire Mancini sicuramente. Ma lui, generoso, ha voluto vicino a se’, nei giorni del trionfo azzurro, Gianluca e le sue pene sperando di alleviarle insieme. Esperto – dicevo – perche’ Mancini il calcio lo ha vissuto istintivamente giovanissimo, ha aderito agli insegnamenti ricevuti, ma poi l’ha ricercato nei campi di allenamento e nelle partite, arrivando a studiarlo alla fonte, in Inghilterra. Come aveva fatto Vittorio Pozzo piu’ per curiosita’ e diletto finche’ trovo’ qualcuno che gli sfido’ la Patria Pallonara. In tempi in cui la Patria era molto richiesta. Come adesso. Ero a Palermo, l’altra sera, e alla “Favorita” dedicata al mio amico Renzo Barbera e’ andato in scena non solo un confronto calcistico ma un evento patriottico. Trentamila con l’Inno offerto dalla fanfara dei bersaglieri (guarda un po’) a veder l’Armenia – mai preceduta da titoli allarmanti e piuttosto da dieci successi di fila della Nuova Nazionale, nata dalle ceneri dell’Italia di sVentura – dicono di una gran voglia di azzurro e dell’immensa fiducia che ha guadagnato Roberto. Soprattutto perche’ non si vende inventore del calcio ma interprete di una disciplina tutta italiana, come fu per l’Alpino Bimondiale che stupi’ anche Adolfo Hitler, ai Giochi del Trentasei (lo dico perche’ la vittoria dei calciatori azzurri non era prevista, ritenendo egli, Adolfo, gli italiani omarelli da mandolino) con una squadra-a-sorpresa; proprio come la Nazionale del Mancio che nessun critico avrebbe mai realizzato, denunciandola anzi, insieme al suo autore, per
certe leggerezze che il mister stesso denuncia promettendo di
correggerle. Gia’, perche’ Mancini non e’ un caporale, un sergente di ferro, un colonnello alla RoccoViani (fa ridere la terminologia militare usata in un Paese dove non s’e’ mai vinta una guerra; da soli…) ne’ uno psicologo sottile alla Scopigno ma preferisco farlo somigliante – tenetemi, please – a Fulvio Bernardini che da giocatore era narciso, da allenatore tattico raffinato ma istintivo, non da quaderni e lavagne. Maturato alla Samp – ricordavo – Mancini e’ cresciuto e si e’ laureato alla azio, con la quale vinse il secondo tricolore attribuito a Eriksson (con Marchegiani, Boksic, Mihajlovic, Nesta, Simeone, Stankovic, Couto, uno squadrone) ma anche allora si insinuo’ la “tutela” del Mancio, sicche’ fu facilissimo per lui farsi frettolosamente allenatore, crescere in panca come sul campo, vincere, affermarsi a livello internazionale, diventare ricco e corteggiato in Italia e all’estero. Con una piccante annotazione: sul campo era uno spettacolo, realizzava pienamente l’immagine del calciatore moderno grazie a un’innata qualita’ tecnica che lo faceva insieme uomo-squadra e realizzatore, suggeritore e protagonista, solista e finalizzatore: insomma leader insostituibile. Legato a un modulo tattico versatile come il 4-3-3 Roberto va cercando giovani calciatori non gia’ ” schedati” dai tecnici di club ma ancora malleabili, addirittura non ancora responsabilizzati sul campo: cosi’ e’ nato Zaniolo, con Biraghi, Tonali, Orsolini, Barella, Castrovilli, Mandragora, Meret, la carica dei 22 (i ragazzi del 97) controllata da Sirigu, Bonucci, Jorginho e dalle stelle come Ciro Immobile, Chiesa, Bernardeschi, Florenzi, Insigne, Donnarumma, Belotti. L’han detta esagerata, l’Italia del 9 a 1 all’Armenia. No. Semplicemente felice.
ANCORA DYBALA CONSENTE IL PRIMATO BIANCONERO
Questo è il calcio, ragazzi. Conte scarica la batosta dell’Inter a Dortmund sulla società che gli ha dato solo ragazzi di belle speranze come Sensi del Sassuolo e Barella del Cagliari e proprio Barella lo salva da un pericoloso pareggio con il Verona; la Juve ha cercato in tutti i modi di liberarsi di Dybala ed è proprio lui, una volta di più, a salvaguardare il primato bianconero, addirittura sostituendo Cristiano Ronaldo che se ne va mortificato. La fortuna aiuta gli audaci. Soprattutto se la ricchezza gli consente di sbagliare. Un bel Milan ha cercato di opporsi alla Juve ma non ha fortuna. Nè milioni. La crisi continua.
Aspetti l’ultima partita per conoscere l’esito provvisorio della sfida fra Inter e Juventus ma t’accorgi che se è loro la classifica non gli appartiene il bello del campionato. Come direbbe De Laurentiis, è solo la classifica del Fatturato, con la Signora che continua a investire nel sogno europeo e la Beneamata il cui leader, Antonio Conte, piange miseria nonostante i cinesi gli abbiano dedicato un ingaggio record e duecento milioni di rinforzi.
Noi, illusi innamorati del calcio provinciale, abbiamo goduto per l’impresa del Cagliari, e non solo per i cinque gol rifilati alla Viola ma per lo spettacoloso gioco “italiano” prodotto allegramente da Rolando Maran e dai suoi ragazzi, quasi un omaggio ai 75 anni di Gigi Riva finalmente accarezzato da un sorriso, dalla malcelata voglia di onorare la sua storia nel cinquantenario dello scudetto sardo che firmò nel 1979 insieme a Greatti, Cera, Albertosi, Nené, Greatti, Domenghini e compagni guidati all’impresa di Manlio Scopigno. Giocare bene e vincere è la risposta alla rissa scoppiata fra “estetisti” e “risultatisti” nel nome di un Allegri ch’è andato in vacanza con i milioncioni di Andrea Agnelli e di un Sarri vittima di una normalizzazione piemontarda. Anche se i corifei della sua presunta rivoluzione continuano a cantarne la gloria. Sì, siamo nel bel mezzo di un cambiamento epocale (almeno sognato) che possa liberare il torneo dalla dittatura bianconera senza necessariamente passare sotto il dominio dei nerazzurri. Stanco di improduttivi duelli, il Napoli sembra avergliela data su. E la Champions?- direte voi. Io la rispetto ma non posso cancellare la memoria di un torneo che si chiamava Coppa dei Campioni. Per questo accolgo felice le new entries del campionato.
PESO, POTENZA E QUALITÀ CAGLIARI DEGNO DELL’EUROPA
Sembra passata un’epoca – non un anno – da quando ho sentito illustri Accademici della Sarriball School infierire sul gioco banale di Max Allegri che immagino felice protagonista di una storia d’amore senza minutaggi, guardoni, arbitri e palloni. Non va altrettanto bene agli Accademici, rimasti senza argomenti, vista la deprecabile banalità imperante sui campi dopo l’allontanamento dell’ultimo dei Mohicani Sacchisti e Sarristi, Marco Giampaolo. Il suo Milan è stato massacrato al punto che Pioli trova difficoltà a portarlo sui binari della tranquillità – non oso dire salvezza – soprattutto per la depressione psicologica che ha colpito i rossoneri, paradossalmente allontanati dal campionato che nei decenni hanno onorato mentre oggi destano un pò di pena e tanta curiosità nel torneo degli Altri, al termine di domeniche senza Juve, Inter, Napoli e Roma. E tuttavia la lezione di Pioli – modestia, lavoro, dignità – stava dando i suoi frutti: Romagnoli e compagni esibivano una energia insolita e tenevano testa a una Lazio di peso superiore per ottanta minuti, prima di sgonfiarsi e di cedere definitivamente – dopo trent’anni! – a Correa che rivalutava il bellissimo gol iniziale di Ciro Immobile. Ora la Lazio è con Atalanta e Cagliari nella Zona Sorpresa.
La festività è stata infatti onorata dall’unico evento tecnico di qualitá, Atalanta-Cagliari, la vera partita di pallone, sabato compreso, visto che Juve, Toro, Inter, Bologna, Roma e Napoli hanno prodotto argomenti soprattutto per il dibattito arbitrale e altre delizie. Gli Accademici forse non lo sanno, o non vogliono ammetterlo, ma il Gioco è prerogativa proprio dell’Atalanta e del Cagliari. La Dea l’ho già cantata; oggi mi piace ritrovare nel Cagliari, fra Pedro, Simeone, Nainggolan, Oliva e compagni, il peso, la potenza e la qualità di una squadra degna dell’Europa, e non solo. Maran ha finalmente l’occasione di vestire elegantemente il suo eterno calcio di necessità che sa diventare anche spettacolo. Italiano. A modo mio. Le grandi non si stanno esibendo per il piacere degli esteti, Juve e Inter in particolare devono offrire a Sarri e Conte solo punti, ammetto che vivono più di assoli che di cori, ma volete mettere le emozioni di questa stagione rispetto all’ininterrotto dominio del “barboso” Allegri? Se non ci fosse la VAR sarebbe un campionato bellissimo.
CON LA VAR L’ARBITRO E’ FINITO
Ho fatto televisione per quarant’anni. Mi ha dato fama e soldi. E mi sono divertito. Ho chiuso quando è arrivato un cambiamento sostanziale del mezzo che ha sostituito i giornalisti con gli opinionisti, in genere ex calciatori alfabeticamente deboli, realizzando la disfatta di una professione (resiste, per fortuna, il mestiere). Il sindacato e i perditempo un giorno aggredirono Bonolis perché a Domenica In aveva intervistato un tizio detto il Mostro di Genova; oggi consentono la rimozione dei giornalisti perinde ac cadaver e l’esercizio abusivo a millanta intervistatori da strada. O da campi.
Non è un caso che nell’improvviso vuoto culturale dell’informazione sportiva – spazi riempiti solo da tv, Rai esclusa – pochi affaristi ascoltati da Tavecchio (prima usato poi cacciato) abbiano potuto imporre la VAR, ovvero effettuare un vero colpo di stato ai danni del gioco – per me – più bello del mondo, ottenendo come primo risultato la distruzione degli arbitri e l’avvio alla demolizione del gioco. Fra sabato e domenica – seguendo ormai in schiavitù da video Juventus, Inter, Bologna, Napoli, Milan e Fiorentina – ho avuto la conferma che l’arbitro è finito, con grande soddisfazione di Nicchi, Rizzoli (e Collina): ancora una volta la perfetta direzione di Roma-Milan da parte di Orsato, un arbitro libero e bravo, ha denunciato i limiti di una categoria schiavizzata; ma passi, qualcosa succederà quando si farà acuta la crisi di vocazioni; ma c’è di peggio: gli arbitri e i loro nuovi strumenti hanno reso inguardabili le partite, interrompendole e spezzettandole contro l’innata natura del gioco continuo, veloce, reclamizzato come nuova espressione d’energia rispetto al “vecchio calcio lento e elaborato” e invece dannato a improvvide attese. I tre minuti e cinquantanove secondi di attesa a San Siro per sapere se Lukaku avesse o no segnato dovrebbero far vergognare i complici di una presunta riforma che evidentemente ha fini di lucro: ho chiesto dieci volte di conoscere i costi d’uso e di acquisto della VAR, nessuno mi ha risposto. Evidentemente mi nuoce esser giornalista.
E la pace promessa? Ricordate quando gli ex fischiettoni assicuravano che “non ci saranno più risse”? L’altro Lukaku, quello della Lazio, ha fatto ribollire Firenze, mentre altre manifestazioni d’allegria si erano già svolte in mezza Italia, sempre a cura dell’Associazione Arbitri, nota associazione a deprimere.
L’accostamento tv-VAR mi è venuto ricordando antiche esibizioni televisive di qualità. Come dire un Processo alla Tappa con Sergio Zavoli, padrone del mezzo, nel 1969 e un Processo politico del ’71 con Enzo Forcella, intellettuale di qualitá prestato ai nuovi media. Con Zavoli dibattito svelto, appassionante, in diretta; con Forcella – non sua la colpa – ore e ore di registrazione con interruzioni, ripensamenti, rifacimenti, fino alla noia.
Così ho trascorso l’ultima giornata di campionato, scoprendo peraltro una protagonista che può fare a meno dei diabolici strumenti arbitrali: l’Atalanta. La miracolosa Dea del gol ne prende e ne fa così tanti, che gliene neghino o no, da dar comunque spettacolo. Sarebbe bello se vincesse lo scudetto.
LA ROMA VINCE CON I CAMPIONI CHE VOLEVA CEDERE
Ci sono momenti, nella vita del pallone, in cui il calcio euclideo lascia via libera al gozzaniano “mistero senza fine in bello”. Soluzione che Giovanni Brera escogitava quando il risultato – o altri eventi – sfuggivano ai suoi pensieri. E ai suoi calcoli. Non osò definire misteriosa la vittoria dell’82 e se la cavò con la famosa metafora dell’Italia “squadra femmina”. Sì, il contropiede è sempre di moda, ma Liverani lo conosce meglio di Sarri, D’Aversa lo adotta meglio di Conte, Semplici lo esegue come Ancelotti. Perché il contropiede non è solo voglia ma necessità di vincere.
Cominciamo da iersera. Il Milan fa il secondo tentativo di rinascita con Pioli, ma non ci riesce. Ha una squadra che vorrebbe ma non può anche perché manca di campioni. Ma il bello è che la Roma vince perché i campioni li ha solo perché non è riuscita a cederli. Gol di Dzeko- promesso all’Inter e trattenuto solo per volere popolare – e di Zaniolo, lui pure in odor di ripudio fino a quando il problema l’ha risolto Mancini (“Tenetelo”) dopo la sgridata azzurrina presa con Kean. E dire che nel calcio circolano dirigenti strapagati che certe follie non dovrebbero farle ma si salvano con…la fortuna (o altri, come Boban e Maldini, che sono ANCHE un po’ sfigati, oltre agli errori commessi sul mercato, a partire da Giampaolo). Fossi il presidente Agnelli, sanzionerei Paratici, Nedved e forse me stesso per aver cercato disperatamente di cedere Dybala, Higuaìn, Cuadrado che oggi sono gli elementi più sicuri di una Juve che il problema più grosso se l’è creato comprando quel De Ligt cui Sarri dovrà spiegare il calcio italiano dalle origini. E non voglio infierire, perché confesso di essere uno straordinario estimatore di Conte: ma perché ha lasciato che l’Inter si privasse del suo uomo migliore, Maurito Icardi, per fare un dispetto alla di lui bella e intelligente consorte? E dove sono – mi chiedo sommessamente – tutti quelli che profetizzavano la fine del Mauro in una inospitale Parigi? A tutta ‘sta gente che guadagna cifre folli mentre infuria una esiziale miseria chiederei la restituzione di qualche milione. Da dare in beneficenza. A me, naturalmente, che non ne posso più di Baroni ex rampanti, di Visconti dìmezzati, di Cavalieri inesistenti. E di incompetenti.
RANIERI COME IL MEDICO DELLA MUTUA
E’ testaccino. Papà aveva lí, a Testaccio, dov’è nata la Roma, una macelleria, e leggenda vuole che Totti, da Pupone, l’abbiano tirato su con le sue bistecche, anche se stava a Porta Metronia. Non lo avrete mai sentito parlare in romanaccio, è educato, misurato, discreto come i suoi sorrisi. Ma è romano de Roma e gli trovo – dopo i suoi passaggi…terapeutici al Parma, alla Juve, all’Inter, alla Rometta stessa e oggi alla Sampdoria – una qualifica tutta nuova: il medico della mutua. Anche se gli mancano la maschera, le parole, i guizzi un po’ cialtroni e la teatralità vistosa di Albertone Sordi. Che gli voleva bene. E lo so perché ero con lui quando girava in Romagna “Il presidente del Borgorosso Football Club” e mi scroccava chiacchiere e sigarette.
Mentre infuria il dibattito fra Risultatisti e Estetisti, lui, Claudio Ranieri, classe 1951, 21 panchine, trofei raccolti in ogni serie, si raccomanda per qualità obsolete: serietà, competenza, talento magistrale. Che in patria – a parte Catanzaro, dov’è un idolo – gli hanno fruttato poca gloria ma molto denaro. Perché Mr.Ranieri è un allenatore internazionale laureato in Inghilterra. Il primo italiano all’estero, anzi il secondo: il primo a “bucare” è stato il mio amico Enzo Ferrari che se ne andò dall’Udinese al Saragozza nel 1984. Uno spot. Ranieri è primo al mondo per l’impresa di Leicester 2016, vittoria con monumento. Alla romana, insomma. Lui dopo Giulio Cesare.
Il destino ha voluto che lo chiamassero per la seconda volta a sostituire Eusebio Di Francesco, romanista come lui, gli somiglia anche per educazione, compostezza, ma prima deve lasciargli la panchina della “Maggica” eppoi quella della Samp proprio mentre arriva la Roma di Fonseca, ovvero di Dzeko e Zaniolo. Quando il sor Claudio entra a Marassi non riesce a celare una pur furtiva lacrima: il popolo blucerchiato l’accoglie con applausi ma io credo che la commozione l’abbiano suggerita il giallo e il rosso. Tant’è, il match finisce alla pari, uno dei sei Zero a Zero di questo campionato, in sostanza un volemose bene. Il lavoro comincia oggi. Genova per lui è un derby nuovissimo di fondo classifica con il Genoa che si sta liberando di Andreazzoli, uno come lui, modesto, educato e competente, malcapitato nella stagione in cui i giocatori, più che i presidenti, licenziano gli allenatori. Come Di Francesco. Come Giampaolo, in particolare, un tecnico che avrei lasciato a Genova. Per il bene della Samp. E del Milan. Visto come correvano con Pioli? Gli è scappata la vittoria per un soffio anche perché non hanno novanta minuti nelle gambe. Chiedere al predecessore. A proposito, il primo whatsapp ricevuto all’alba diceva:”Ma Ranieri non potevano prenderlo al Milan?”.
CENNI DI VITA DAL MILAN, CON PIOLI PUÒ TORNARE DEGNO D’EUROPA
Come si dice? Questo è il calcio, bellezza. Ma non mistero, non poesia, una disciplina impietosa. Spesso anche ingiusta. Stavolta no: Milan-Lecce 2-2 è verità. La conferma di un Lecce coraggioso, la promessa di un Milan rinato. Anche una storia di uomini, come è sempre successo. Ora anche di più. In qualità più che in quantità. Quando i calciatori non vogliono il tecnico che gli hanno imposto, magari dicendolo genio, lo fanno fuori. Come il quotato Di Francesco che aveva scritta in faccia la sconfitta: non aveva ancora digerito la cacciata dalla “sua” Roma. Come il maestro Andreazzoli, una manita per segnalare a Preziosi “non lo vogliamo più”. Perché, non è ancora dato di sapere, forse è troppo civile. Ingenuo di sicuro. E il genio Giampaolo? Brutalmente scaricato.
Arriva Pioli e almeno per un tempo corrono tutti come leprotti, si scatenano sull’avversario come cinghiali, s’inventano faine: uno zoo minore, non sono ancora leoni ma Pioli un po’ di coraggio gliel’ha messo in corpo. Gliel’ha gridato – non sussurrato, come ai cavalli, trattandosi in realtà di una classe d’asini presunti – che sono pagati per fare il loro dovere. Ma sono sicuro che nei colloqui vis à vis, franchi e veritieri, voglio sperare, gli hanno raccontato quello ch’era successo: la predica dell’ajatollah Giampaolo non l’hanno proprio capita.
Qualcuno, al Milan, goduto il bel gol di Cahlanoglu, patite le pene dell’inferno dopo il rigore di Babacar, risorto a felicità con il gol-viagra di Piatek e infine agguantato da Calderoni, avrà detto: calma con l’ottimismo, abbiamo pareggiato con il Lecce, mica con il Real. E invece il test è importante, perché il Lecce è una bella squadra, forte e fastidiosa come vuole il suo tecnico incazzoso. Che precisa l’altro modus vivendi più diffuso nel calcio: quando i giocatori “amano” il mister, per lui danno tutto, anche di più. Perché si sono intesi. Il Milan “vagabondo” massacrato dalla Fiorentina, i giocatori ridimensionati a bufale si sono in buona parte riscattati. Ci hanno almeno provato. È la cura Pioli. Se riesce a farsi amici in giocatori – come Liverani – può far tornare un Milan degno d’Europa.





