La Barba al Palo di Italo Cucci

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ANDREAZZOLI E LA ROMA, SE L’AVESSERO TENUTO CHISSÀ…

Mi dissero ch'ero matto quando nel 2013, saltato l'ennesimo Zeman, mi piacque moltissimo il suo sostituto, Aurelio Andreazzoli, che mi parve subito – a quei tempi avevo anche una poltrona in tivù – dotato di qualche virtù minima assente in altri interlocutori: educazione, preparazione tecnica, dialettica, cultura. Destai stupore, soprattutto nell'ambiente romano che quando si parla di allenatori esprime varietà di concetti che giunsero ad escludere dal novero dei competenti anche Capello, osteggiato dai più perché indipendente e intransigente. Durò anche troppo, lasciò uno scudetto. Irripetibile?

Dicevo di Andreazzoli – in onore del quale Rodrigo Taddei inventò un passo di danza ribattezzato "l'Aurelio" – ch'era arrivato a Roma da Udine con Spalletti, eppoi con lui esiliato; rientrato con Montella, Luis Enrique e Zeman (che poi sostituì, come dicevo) e ancora con Rudi Garcia al quale aveva ceduto la panchina pur restandogli a fianco. Forse ero matto io, a stimarlo naturale conduttore della Roma, ma continuo a pensare che furono matti coloro che se ne liberarono per continuare la collezione di tecnici che parrebbe voluta da uno Zamparini giallorosso.

L'ho rivisto domenica, Andreazzoli, nel suo stadio romano, mentre teneva testa senza iattanza al suo antico amore ch'era stato costretto a lasciare per aver perduto – se ben ricordo – una Coppa Italia con la Lazio (vedere gli altri): in piedi, sereno, col mezzo sorriso intelligente di sempre, non tradiva emozioni ma giuro che si divertiva a "giocare" la sua Ex con mosse tattiche razionali, rivelando insieme la forza del suo Genoa e la debolezza altrui gestita alla meglio dal signor Fonseca. E ho concluso che se l'avessero tenuto, i Baldini e gli americani, la Roma sarebbe guarita e vincente da anni.

Ho letto che Andreazzoli farebbe parte di una fantomatica Task Force di Sacchi – ex ore suo – insieme a Gasperini e Giampaolo. Ho il sospetto che l'ottimo condottiero della superba – non più sorpresa – Atalanta s'accontenti di avere avuto maestro Galeone. Lascio all'Arrigo, tutt'intero, il Giampaolo che ha mandato in campo a Udine il Milan di Gattuso, ma disarmato. Che il tecnico rossonero possa essere indicato come leader degli "estetisti" (in assenza di Sarri) dice che prima o poi risentiremo parlare di Allegri. Nel frattempo mi accontento di Martusciello.

IL CAMPIONATO APPENA NATO DIVERTE

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Gaudeamus. Il campionato appena nato – o mai nato, secondo critici fallaci – diverte. Accusa (vedi Juve) la folle preparazione asiatica e (forse) i malanni di Sarri; oppure (vedi Napoli) il tentativo di Ancelotti di tradire se stesso, già equilibrato miscelatore di difensivismo e offensivismo e d’improvviso sbadato costruttore di una difesa che ha già beccato sette gol; soffre anche le povere alchimie di Giampaolo il cui Milan paga l’assenza di un bomber, tanto che fossi in Scaroni – uomo di grandi imprese finanziarie – toglierei un pensiero all’Inter comprando (o prendendo in prestito) Maurito Icardi.

Per ora ci siamo divertiti – dico da spettatore più che da critico- con i risultati sballati di Juve e Napoli e anche (mano sul cuore) con un Bologna-Spal emozionante non solo per la presenza in panchina di Sinisa Mihajlovic, un Uomo chiamato Speranza. E non solo per sè.

Mi sono fermato al Derby romano perché è la migliore spiegazione del discorso che vado facendo: come si diceva un tempo, un 1-1 pieno di gioco, divertente, sei pali per felicemente concludere la gara con i gol di Kolarov e Luis Alberto. E aggiungo un dettaglio importantissimo: ci si aspettava che all’Olimpico succedesse la fine del mondo con chissà quali intemperanze dei laziali per celebrare la morte dell’Irriducibile Diabolik. E invece nulla, nessuno ha dovuto rimandare inquieti quesiti per incidenti al ministro degli Interni Salvini (anche questo si aspettavano i catastrofisti).

Un inizio di campionato divertente – dicevo – perché non è ancora tempo per dibattiti fra sapienti e saccenti, fra risultatisti e estetisti. Fra Ancelottisti e Martusciellisti: pare che “No Sarri, no Party”. Ce ne faremo una ragione. Nella speranza che anche gli arbitri, dopo la frenata di Di Bello a Bologna, che ha voluto dire la sua sul “mani” rivisitato, e dopo aver visto all’opera Orsato, decidano di recuperare dignità e facciano gli arbitri e non i servitori di una macchinetta arrogante.

PRESTO PER LE SENTENZE, DOPO LA SOSTA NE CAPIREMO DI PIÙ

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Ho scoperto che il Sarrismo offensivo è pura chiacchiera quando dopo il 3-0 della Juve sul Napoli qualcuno ha affermato "si vede già la mano di Sarri". Una balla. Come se io – patito di difensivismo – volessi attribuire a Sarri lo 0-3 successivo. Per fortuna Koulibaly ha riportato tutto al calcio "mistero senza fine bello", detto in omaggio a Gozzano ma soprattutto a Gianni Brera che l'ha travasato nel più banale linguaggio del pallone.

Prudenza vorrebbe si evitassero sentenze in una fase di campionato del tutto anomala: non è ancora chiusa – mancano poche ore – la campagna acquisti/cessioni e neppure è completata la preparazione fisica dei giocatori (si vede dall'intensitá del lavoro nerazzurro guidato da Conte a trasferte asiatiche già pericolosamente decise). Si può sbagliare, piuttosto, ideologicamente. Nulla di complicato. Se la Juventus spende in fretta una montagna di soldi per accaparrarsi De Ligt viene spontaneo immaginare una conferma dello spirito vincente bonipertiano pensando a "primo, non prenderle" aggiornato da Bearzot con " secondo, è obbligatorio vincere", così che, alla faccia degli "estetisti" già operosi (si chiamavano qualunquisti) la sua Italia esibì in Argentina e in Spagna il gioco più bello del mondo (di opposto parere Brera e Sacchi, per una volta d'accordo).

E invece no – mi fa notare un lettore pignolo – la Juve ha acquistato il ragazzo dell'Ajax che l'ha sconfitta in Champions così come aveva deciso di far suo Ronaldo dopo quel gol tanto bello da suscitare un'ovazione allo Stadium. Nonostante significasse l'ennesima fine di un sogno.

Può aver ragione, il mio critico, ma ho ancora speranza (per la mia tesi) che Sarri guarisca presto per completare l'educazione di De Ligt, una fase di lavoro già prevista con la panchina di Parma che aveva irritato il ragazzo; tant'è che l'improvvisa chiamata a sostituire Chiellini ne ha dimostrato gli ancora ovvi limiti. E dunque taccia, per favore. La superdifesa della Juventus si chiamava Buffon, Bonucci, Chiellini, Barzagli, è andata via via perdendo pezzi, si è disunita ma è rimasta in piedi con altri protagonisti spesso improvvisati grazie non solo al giocatore ma all'uomo Chiellini, uno che da quando Lippi lo ricostruì tatticamente è sempre stato anche l'allenatore in campo (e l'uomo l'abbiamo rivisto nell'abbraccio a Koulibaly, con un bel sorriso e la stampella da povero infortunato, non da battagliero Enrico Toti). Il poderoso difensore del Napoli, improvvisamente trasformato in un Niccolai sciagurato, ha altri problemi: non ha ancora capito, come tanti, cos'abbia in mente Ancelotti, un tempo il più pratico dei mister, l'equilibratore di gioco, e in mancanza di certezze si esibisce con un gol da contropiede eccellente e con un autogol spettacolare.

Il resto lo vedremo meglio dopo la sosta azzurra, quando non si potrà più avanzare scuse. Al momento solo l'Inter ha deciso chi essere, ovvero la squadra/laboratorio di Antonio Conte. Pura energia. Alla faccia degli estetisti.

NAZIONALE A VELE SPIEGATE, AGLI EUROPEI DEVE PROVARCI

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Vincono insieme, le due Nazionali, la Rossa a Monza e l'Azzurra a Tampere, lo spazio e l'emozione li consuma quasi tutti la Ferrari, Leclerc surclassa Immobile, ma è un giorno, un'occasione, ahimè, una tardiva rondine autunnale, quasi smarrita, felicità istantanea, del doman non v'è certezza, ne riparleremo la prossima primavera. L'Azzurra di Mancini è invece qui, a vele spiegate, alla sesta vittoria, titolare del suo futuro immediato, e chiede una carezza che non sia consolatoria ma complimentosa, affettuosa. Ci ricordiamo o no dov'eravamo un anno fa? Seduti davanti alla tivù, al Mondiale di Russia non ci avevano invitato, discutevamo di Ronaldo, di Modric. E oggi parliamo di noi, allora. È rinascita, questa, o illusione? Chiediamolo prima alla Grecia – senza timori nè spocchia – poi vedremo nella fase cruciale.

Fatto ricorso agli strumenti apotropaici – metalli, sia ben chiaro – vi racconto cosa ho ricordato, domenica sera, dopo il quasi deciso approdo europeo: una sorta di flashback. Avevo trascorso settimane, forse mesi, nel Sessantasei, per digerire la Corea di Pak Doo-Ik, e venne l'ora di pensare all'Europeo '68 la cui fase finale ci fu affidata. Ma prima battemmo la Romania, Cipro, la Svizzera, ai quarti c'è la Bulgaria, soffriamo a Sofia, poi la battiamo e fra Napoli – Urss e monetina – e Roma – due finali con la Jugoslavia – e diventiamo Campioni d'Europa. Forever. Nel senso ieri e mai più.

È arrivata l'ora di riprovarci. Temevo la fantasia di Mancini – uno dei calciatori più istintivamente dotati, si chiama anche classe – paventavo sdilinquimenti da Bel Giuoco, e invece no, è un Mister intelligente, pratico, ha messo a frutto l'Inghilterra e l'Inter insieme alle lezioni di Mastro Vujadin e ha deciso – se non sbaglio – di fare a modo suo, innovando anche il ruolo. Come Conte, più di Conte: selezionatore e allenatore insieme. Cerca giovani spesso ancora sconosciuti ai tecnici di club – non solo Zaniolo, mezza Italia sa di primavera – ne testa le capacità tecniche e gli umori extracampo, lavora anche sulla vecchia guardia, osa insegnare a Verratti posizione e disciplina tattica, si avvale dei "brasiliani" con perizia da tecnico scafato e lavora per ricreare una difesa degna dei decenni juventini ormai archiviati con l'addio di Barzagli e il crack di Chiellini; resta Bonucci a mostrare il carattere che si deve avere in battaglia, senza svenevolezze, anche con cattiveria agonistica sempre più sgradita agli estetisti e ai politicamente corretti.

Aggiunge, il Mancio, alle già dette virtù, il fascino del campione che si fa tecnico, cosa rara in Nazionale, posso dire Fulvio Bernardini, Cesare Maldini, Dino Zoff, Marcello Lippi e Antonio Conte che quando parlavano ai "ragazzi" potevano aggiungere il bello dell'esperienza personale. Ho sempre amato i "tecnici del parastato", Bearzot in testa, anche Valcareggi, colui che guidò i post-coreani, "Quelli del Sessantotto": Zoff, Burgnich, Facchetti, Castano, Salvadore, Rosato, Guarneri, Ferrini, Lodetti, Juliano, De Sisti, Mazzola, Anastasi, Domenghini, Prati, Riva. Bei tempi.

IL BOLOGNA DISPERATO RIBALTA IL BRESCIA, VIVA SINISA

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Il Bologna battezzato "disperato" da Mihajlovic, dopo l'eroica impresa di Brescia passerà alla storia. Come la città di Bologna "sazia e disperata" cui si rivolse il cardinale Giacomo Biffi per descriverne l'inconscia mancanza di ideali. Sinisa ha speso sabato la stessa parola forse dando l'impressione di non conoscerne l'esatto significato, e invece no: "solo chi cade può risorgere" è un antico motto che saggi tifosi bolognesi coniarono quando le imprese eroiche della squadra "che faceva tremare il mondo" scemarono e le cadute dovevano essere recuperate con una speranza disperata.

Il Bologna piegato dal Brescia ha toccato il punto della disperazione e si è ribaltato, dentro e fuori, nell'anima e nei muscoli. Come voleva Sinisa, che sa bene cosa vuol dire "disperato". E ribelle. Contro il male, contro il destino, contro l'accettazione prona di un malessere. Mai come oggi s'è capito cosa voleva dire Jean Paul Sartre con "il calcio metafora della vita", la partita metafora della vita. Anche la Spal ha rimontato la Lazio, ma quella è un'altra storia. La vita è qui, dov'è Mihajlovic, in una camera d'ospedale, in una casa dove una famiglia l'aspetta senza piangere perché lui l'incoraggia.

Sinisa aveva detto ancora, dei suoi ragazzi – tanto era sicuro di quel che diceva – "disperati con qualità", dunque dotati della capacità di riemergere dall'abisso. Cosí racconta il tabellino di Brescia-Bologna: 10', 1-0 Donnarumma, 19', 2-0, Donnarumma, 36', 2-1, Bani, 42', 3-1, Cistana, 56' 3-2 Palacio, 60', 3-3 autogol Sabelli, 80' 3-4, Orsolini. Tanto per cambiare, il risultato del cuore si firma Quattro a Tre, come quella notte a Mexico City…

Poi c'è il dettaglio, Sinisa al telefono che al 3-1, nell'intervallo, non gliele manda dire, è un'esplosione di rabbia in vivavoce, e la prima risposta gliela dà Palacio. Che non segna un gol in campionato da una vita (3 marzo a Udine) e il cuore e il piede glieli arma il suo mister. E il gol della vittoria lo segna Orsolini ch'è diventato indispensabile da quando a Bologna è arrivato Sinisa. Cerco di evitare la retorica incombente ma in questa storia ci sta tutto il meglio e il bello del calcio. Quante volte ho sentito calciatori dire:"Ci siamo battuti per il mister", che forse era sul punto di essere cacciato o subiva attacchi ingiusti dalla critica. Come Bearzot nell'82, caso esemplare. Ma qui, amici, c'è un uomo che si batte per la vita e non chiede commiserazione, chiede solidarietà, dippiù, di battersi insieme. E questi ragazzi del pallone, abitualmente ritenuti superficiali, viziati, egoisti, hanno risposto così, quasi un urlo da stadio: viva Sinisa.

MILANO-CORTINA E’ UNA VITTORIA DEL CONI

Adesso che abbiamo vinto, hanno vinto tutti. E invece ci tengo a dire che l'assegnazione all'Italia, per Milano e Cortina, delle Olimpiadi invernali del 2026, è una vittoria dello Sport. Che si chiama CONI, Comitato Olimpico Italiano. È giusto sottolinearlo proprio nel momento in cui il CONI ha subìto un duro, umiliante ridimensionamento dal Governo. Nel momento in cui Giovanni Malagò da autorevole presidente dello sport nazionale è stato formalmente e sostanzialmente declassato a "curatore" dell'applicazione della volontà governativa. Ma ha vinto lui perché una delle poche istituzioni importanti e sane del Paese è proprio il CONI, non a caso rispettato anche dalla dittatura fascista che gli ha lasciato sempre l'autorità di Ministero dello Sport. La stessa autorevolezza e autorità ottenute nel dopoguerra da Giulio Onesti, grazie all'aiuto di Giulio Andreotti, quando la Repubblica aveva pensato di abolire l'Istituzione. C'è, nel successo dell'Asse Milano-Cortina, anche e ovviamente la forte partecipazione dei due Comuni e delle due Regioni che con Sala e Ghedina, Fontana e Zaia, hanno lavorato compatti, dimentichi delle diverse posizioni politiche.

Con il presidente Mattarella a benedire l'unione nei giorni in cui l'Italia viene descritta come il Paese della disunione.

Non è la prima volta che lo Sport dà una lezione alla politica che coltiva – soprattutto nei media – l'insana passione per il disfattismo. Anche Torino 2006, l'edizione dei Giochi invernali il cui successo è sicuramente stato il viatico per il trionfo di Milano e Cortina, è stata felice risultato di unità politica e sportiva. Ma ho l'età e l'esperienza diretta per dire che Cortina 1956 fu il primo emozionante, commovente gesto d'orgoglio e indipendenza dell'Italia umiliata e distrutta dalla guerra: le nostre montagne innevate furono il messaggio di pace al mondo, rinnovato con grandezza…imperiale dai Giochi di Roma 1960, definiti la prima grande Olimpiade dell'Uomo. È lo sport – come dicevo – a dar manforte alla politica, a un Governo che sta per essere processato dall'Europa che ci considera – forse leggendo le cronache nostrane – un povero paese di poveri sognatori. La Grande Bellezza dell'Italia e la grande unità dello Sport hanno vinto una grande battaglia davanti al mondo che ci guarda stupito. Ah, questi italiani.

PLATINI E UNA VICENDA SPORTIVA E POLITICA SCANDALOSA

Platini ai ferri a Nanterre, trattenuto dai gendarmi dell'ufficio anticorruzione: la notizia ha nell'immediato il sapore della vendetta. Non è una cieca difesa di Roi Michel, che ho sempre rispettato, ma una reazione logica al suo recente sfogo contro le istituzioni calcistiche mondiali accusate di averlo trascinato in malafede nel fango. Innocente. Dopo essere stato, anche se parzialmente, riabilitato dall'accusa di violazione etica dei principi sportivi – otto anni di squalifica, ridotti a quattro, per l'accusa di Sepp Blatter di avere intascato una tangente per votare pro Qatar mondiale 2022 – ci si aspettava un logico, comodo silenzio. Una risalita. Una campagna per riconquistare il potere. Non una tardiva sparata che ha riaperto l'antica querelle qatariota. Con quel che ne consegue. Una vicenda scandalosa, comunque, e non solo sportiva ma politica. Con protagonisti o comprimari che si chiamano Gheddafi, Sarkozy, sceicchi e emiri vari tutti – tranne il defunto rais libico – ospiti al pranzo del peccato servito all'Eliseo nel novembre del 2010. Il dolce, l'assegnazione al Qatar del Mondiale 2022. Un mondiale a cinquanta gradi ma da giocare d'inverno. Un mondiale disumano per i lavoratori addetti alla costruzione degli stadi. Un mondiale che per gli inglesi non si doveva fare; e infatti è la stampa londinese che da anni recita la parte dell'accusa esibendo documenti e forse prove di una corruzione portata a termine da uno sceicco del Qatar, Mohamed Bin Hammam, già presidente della Confederazione asiatica già radiato dalla Fifa, l'ente oggi presieduto da Infantino che, incassati 880 milioni di dollari dal Qatar, non ha pensato a rivedere la designazione. Pecunia petrolifera non olet.

Invischiato nella vicenda, ovviamente, anche il mitico emiro Al Thani, membro del Cio, padrone del Paris St. Germain, di Al Jazeera, della Costa Smeralda. Del Qatar con fondo sovrano di 600 miliardi di dollari. Di mezzo mondo. E anche dell'hotel Gallia che ricorda gli antichi splendori del calciomercato. Tutti contro Platini, in questo momento, ma Michel non molla e protesta la sua innocenza. Pregiudizio, vendetta o bufala? È certo che l'imputato n.1 è ancora il Qatar. Riusciranno a togliergli il mondiale? Platini disse – votando per gli emiri – che il Qatar mondiale se l'era sognato. Ora dice a se stesso, dopo la denuncia di corruzione: sogno o son desto? Il seguito alla prossima puntata.

NAPOLI PRENDE UNA LEGNATA IN CASA SAMP

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Capita di prendere lezioni di calcio. Ieri sera è successo al Napoli. Meglio ancora: una legnata. Quasi uno scoop. Di Giampaolo parlano bene, anche troppo, è una versione del Maestro Sarri. Così si è preso la soddisfazione di castigare il Maestro Ancelotti. Con un gioco nuovo che è la somma di due giochi vecchi: il tikitaka e il contropiede. Ha fregato anche me: guardavo infastidito quell'insistito valzerino, possesso palla frenetico di una Samp inedita, quasi sfottente, poi in un attimo la squadra s'è compattata ed è partito il contropiede mentre tutti gli avversari cincischiavano tentando d'impossessarsi del pallone. E ho visto Defrel cogliere e colpire di destro il pallone (lui sinistro) e metterlo in rete. Imparabile. Dieci minuti, non il solito gol bislacco preso dalla Lazio o dal Milan: un'azione proprio bella, ben costruita, il Napoli beffato come un sodalizio di novizi. Defrel: l'ho visto giocare a Cesena, sei/sette anni fa. Ne parlai bene in tivù – uniche segnalazioni che mi consento, o scritte – ma non ebbi grande ascolto. Rimuginavo questa storia, ho fatto in tempo a vedere un quasi-gol di Milik e Defrel ci ha rifatto, meglio di prima, un contropiede assassino: Napoli in barca, come mai da anni. E prime riflessioni. Quasi in automatico: la Juve non ha avversari, più che mai, anche se Ronaldo fa solo passerelle e vende magliette. Perché quell'Inter, niente di speciale anche a Bologna; perché quella Roma, peggio che peggio. (Visto a Marassi Walter Sabatini, l'uomo cui hanno impedito di perfezionare Roma e Inter); perchè quel Milan promette bene ma deve ritrovare l'Higuain napoletano per far sognare scudetto. Juve sola più di sempre perché questo Napoli è impazzito.

(ITALPRESS) – (SEGUE).