La Barba al Palo di Italo Cucci

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CRISTIANO COME DIEGO, L’ORA DELLO SCANDALO

Quando Cristiano Ronaldo è arrivato in Italia dal Real Madrid per indossare la maglia della Juventus ho ricordato un altro arrivo, meno trionfale dal punto di vista esteriore ma altrettanto importante per quello che significava tecnicamente : parlo di Diego Armando Maradona. Anche lui – argentino – veniva dalla Spagna, da quel Barcellona non ancora ai vertici del calcio mondiale, e fu presentato ai tifosi napoletani, accorsi in ottantamila allo stadio San Paolo, il 5 luglio 1984. Cristiano ha subito promesso di battersi per la conquista della Champions, trofeo che la Juve insegue inutilmente da 22 anni. Diego allora dedicò se stesso ai "ragazzi poveri di Napoli, com'ero io a Buenos Aires". Un borghese, Cristiano, e un emarginato, Diego: due campionissimi che ho messo insieme perché vittime di storie extracalcistiche che li hanno colpiti come persone. Mettendo a rischio la loro attività e l'immensa popolarità anche se questa era manifestata per Diego da un popolo innamorato (in Italia e nel mondo) che lo seguiva negli stadi, mentre Cristiano è un idolo dei Social con decine di milioni di followers. Fra due epoche ben distinte quel che non cambia è lo Scandalo. I cui contenuti sono simili – amori avventurosi – escludendo per Cristiano ciò che distrusse Diego, la droga, mentre un suo rapporto extraconiugale con la nascita di un figlio ha avuto un finale dignitoso e patetico insieme dopo trent'anni con il riconoscimento di Diego jr.

Ecco il punto, raggiunto faticosamente per non cadere in sensazionalismo o facile moralismo: due grandi campioni osannati in pubblico con un privato che improvvisamente irrompe sulla scena assecondando un movimento socioculturale in difesa della donna divulgato da denunce e arresti clamorosi e da una sigla, #metoo, che intimorisce numerosi impuniti conquistatori. Maradona non ha paura: ha pagato di persona e non di moneta. Ronaldo è in mano a armatissimi avvocati e a una giustizia, quella americana, fortemente influenzata dalla ribellione delle donne. Un giorno scrissi a Diego – era un amico – che mi addoloravano le sue compagnie, quel mondo equivoco che nasce all'improvviso intorno ai campioni del calcio in particolare, gli dissi che sarebbe finito come Pinocchio col Gatto e la Volpe: così fu, ma riuscì a rinascere. Cristiano, miliardario altoborghese in favore del quale s'è mosso anche il premier del Portogallo, s'è creduto in una botte di ferro circondato com'era di rinomati e costosissimi legulei. Ha creduto che gli avvocati e il denaro potessero preservarlo dalle speculazioni spesso partorite da colpevoli accordi "segreti" che prima o poi finiscono in prima pagina. Umanamente è possibile – se non giusto – augurargli di uscire senza troppi danni da questa vicenda, anche se per uno che ha eletto a sua divinità l'Immagine un conto da pagare ci sarà. Stupisce, tornando sul campo meramente sportivo, che un club importante e potente come la Juventus, non abbia controllato quel che da mesi già girava intorno a Cristiano Ronaldo, ovvero lo scandalo di Las Vegas rivelato da "Der Spiegel" e "Sport Ilustrated". Il ricorso a famosi avvocati da "Law & Order" porta spesso a vittorie di Pirro.

VITTORIA IN POLONIA NON È UN MIRACOLO

Le vittorie sono raramente miracoli e non lo è quello della giovane Italia di Mancini che ha sconfitto la Polonia di Boniek dandole anche una lezione di calcio, nonostante ci opponesse un pugno di giocatori che abbiamo valorizzato nel nostro campionato al punto di temerne la forza distruttiva. Non sarebbe stata una novità: da tempo diamo ai "nostri" stranieri un'istruzione tattica che ci viene rivolta contro quando li affrontiamo nelle loro nazionali e talvolta corriamo ai ripari…nazionalizzandoli: come è successo a suo tempo con l'argentino Camoranesi, facendolo addirittura diventare "mondiale" azzurro; così oggi con Jorginho, eccellente centrocampista italo-brasiliano di cultura italica; forse domani con Allan, allevato a Udine da Francesco Guidolin ma – si dice – anche da un nonno italiano a Rio de Janeiro.

Vaghezze a parte e pessimismo della ragione (siamo comunque i cacciati dal Mondiale russo) è servita a curarci, a farci vittoriosi, la paura di perdere, di retrocedere in Europa (il Continente è per noi un incubo diffuso); ma – dico io – anche e soprattutto il desiderio di vincere, l'unica cosa che conta. Vincere giocando – dopo un anno senza vittorie ufficiali (ultima vittima degli azzurri di Ventura l'Albania) – la partita più bella della gestione Mancini. Tutto questo mentre Sacchi stava spiegando a Pep Guardiola che non esiste vittoria vera senza bel gioco. Dove nasca, l'impulso estetico, è materia di eterno dibattito. Nel caso di questa effervescente, dinamica e metronomica Italia ritrovata, a mio avviso si deve riconoscere che non tutti i convocati di Mancini – alcuni accolti addirittura con dubbi e sufficienza, come Piccini, Biraghi, Barella e Lasagna – ispiravano certezze; ma il calcio, che spesso è un mistero, si raccomanda come sport difficilmente praticabile con la sola fantasia miracolistica o l'estetismo fine a se stesso: ce ne rendiamo conto oggi che proprio dagli Anonimi Azzurri è nata una prestazione mista di qualità e orgoglio. Confermando che la prima cosa che si richiede al Commissario Tecnico è di essere un valido selezionatore, poi un allenatore con le personali idee tecniche e tattiche. Oggi parliamo di sorpresa (o di miracolo, come dicevo) ma la qualità dell'esibizione di gruppo conferma invece l'esito positivo di una ricerca e di un lavoro di campo prodotto da un tecnico la cui affidabilità è superiore all'immagine disincantata che offre, spesso per questo facendosi sottovalutare. Chi ricorda Mancini giocatore ne ha apprezzato le qualità di attaccante fantasioso, ribelle, guidato da uno spirito felicemente anarchico, mentre siamo abituati a CT provenienti quasi tutti da ruoli "quadrati" di difensori o centrocampisti ritenuti, a torto o a ragione, "pensatori" e organizzatori di gioco. Dai Sessanta ad oggi gli unici attaccanti sulla panchina azzurra sono stati Fulvio Bernardini ("Ma ho fatto anche il portiere " – mi diceva) e Roberto Donadoni, entrambi ottimi "stilisti" con capacità magistrali.

Alla vigilia di Polonia-Italia molti avevano già accettato la resa di Mancini anticipata in conferenza stampa: "Se perdiamo non conta, noi dobbiamo lavorare per gli Europei". E allora m'era tornato in mente Sarri che genialmente aveva buttato Coppa Italia, Champions e Europa League "perché il Napoli deve pensare allo scudetto". Scudetto tristemente perso in un albergo fiorentino. Mancini – proviamo a capirlo oggi – voleva probabilmente metter le mani avanti e soprattutto difendere i "ragazzi" con i quali avrebbe comunque dovuto cercare l'altra promozione continentale, gli Europei 2020. Convinto personalmente che questa Uefa Nations League serva soprattutto ad allenarsi per l'altro e più importante torneo, era comunque disdicevole quell'esito disastroso – caduta nella B d'Europa – che tuttavia non è stato del tutto sventato (il 17 novembre si giocherà Italia-Portogallo, immagino con Cristiano Ronaldo in campo, e il 20 Portogallo-Polonia). Dopo l'esclusione dai Mondiali, un altro flop avrebbe garantito gare di prefiche e esibizioni di Cassandre. Da un successo colto con tanta fatica – non riesco a capire chi dice "con fortuna" se non riferendosi al gol di Biraghi realizzato nei minuti supplementari, al 92', come spesso accade in campionato – traggo due note importanti: la prima riguarda Mancini, travolto dall'entusiasmo dei "ragazzi" (Bernardeschi lo ha abbracciato freneticamente come fosse un compagno, non il suo tecnico) che ci eravamo persi da tempo, ancor prima delle lacrime milanesi di Buffon; la seconda riguarda il Sistema, vale a dire l'ingresso al vertice della Federazione (pare ormai scontato) di Gabriele Gravina come presidente. Il successo azzurro è beneaugurante ma soprattutto libera l'apprezzato dirigente (dico io, conoscendolo da lungo tempo) da eventuali alibi: la Nazionale sta trovando da sola la sua strada, è ora di porre mano alle impellenti riforme dei campionati, degli eccessi di stranieri e della ridicolizzata giustizia sportiva. Immagino che Cristiano Biraghi da Cernusco sul Naviglio, e il suggeritore Kevin Lasagna da San Benedetto Po, figli dell'italica provincia, non abbiano ancora realizzato la straordinaria portata del loro gol che ha portato una ventata d'allegria al Quirinale e offerto un sorriso al Presidente Mattarella. Che ne aveva bisogno.

CR7 NON BASTA PER VINCERE, VENTURA DEVE TENTARE L’IMPOSSIBILE

Derby a parte, a bocce ferme il motivo più interessante del campionato resta lo striminzito pareggio. Non leggetemi con lo spirito di quegli juventini che ridacchiano (amaro?) ostentando una sorta di generosità nei confronti non tanto del Genoa ma dell'intero campionato. Sanno anche loro che non è cosí. Sa anche Allegri – e lo fa capire – che certa mollezza dei suoi uomini è il peccato che la Signora si porta appresso da una vita. Da Belgrado ad Atene, a Cardiff, l'improvvisa scoperta – quando ormai è troppo tardi – di non essere superuomini battibili da chiunque reputi motivo di eterna memoria avere sfidato e battuto o contenuto la grande Juventus. Magath è passato alla storia cosí. Daniel Bessa ci sta pensando. Restasse impunita, questa fermata juventina introdurrebbe fatalmente cattivi pensieri per la Champions che in questa stagione la Juve vuole fortissimamente. E per la quale si è dotata del superdotato Cristiano Ronaldo.

Il cerimoniale prevede che tutti – dirigenti e critici, tifosi esclusi – neghino che CR7 garantisca la conquista europea, anche se la sentono più vicina. Visto quel ch'è successo sabato, si può dire che la Juve si è portata a casa l'Impossibile, il calciatore che non si ferma nè si arrende mai. L'avete visto: si è battuto su ogni pallone, instancabile, altro che il divo ben pasciuto portato in Italia a fine carriera. Ha segnato con umiltà un bel gol, l'ha festeggiato come fosse un gesto clamoroso mentre gli altri magari dicevano "ne abbiamo fatti tanti anche noi". Alla fine, pareggio sancito, Ronaldo era grigio. Incavolato. Lui che ha vinto dieci volte di più di tutti gli altri, e nel mondo più della stessa Juve, ora dovrà spiegare ai compagni – e anche a Allegri – che cosí si può vincere in Italia, non in Europa. Il nostro campionato è qualche volta vivace ma sostanzialmente deciso dai bianconeri. La Champions ha bisogno di un'altra mentalità e guarda caso sono arrivati insieme chez nous Ronaldo e Ancelotti che hanno vinto insieme la Decima con il Real. Che bello sarebbe vedere Juve e Napoli felici e audaci duellanti anche in Europa.

Noterella finale. Dicevo – a proposito della Juventus – che le farebbe bene recuperare umiltà. Farebbe bene a tutti. Quando si è detto e scritto che Ventura ha avuto l'umiltà di ricominciare dal Chievo s'è raccontata una gran balla: pura presunzione pensare di mettere a dispisizione dei poveri tanta ricchezza di idee. Visto il risultato meglio farsi umili davvero e tentare – sapendolo – l'impossibile.

LA JUVE PIÙ È BRUTTA E PIÙ FA PAURA

Io ho Ronaldo, gioca sempre, supero qualche crisi e con lui vinco comunque – dice Allegri. E rallegro i bambini.

Io ho Mertens – dice Ancelotti – e continuo a inseguirti anche se pareggio con la Roma come tu col Genoa.

E il confronto continua. Nella bruttezza. La Signora più è brutta più fa paura. È una strega. È questa la forza che supplisce a quella mancanza di bellezza invocata dagli esteti dell'ultima ora, quelli che non hanno mai visto giocare non dico Meazza e Piola, e neanche Boniperti e Valentino Mazzola, ma neppure Platini e Maradona. E che ora assistono alle ridenti prodezze di Cristiano Ronaldo e fuggirebbero lontano. Fino in Patagonia. Ogni esempio italiano facessi sarei accusato di scorrettezza geografica. O sociale.

Il calcio che iersera ho visto giocare da Napoli e Roma era di un altro mondo, senza morsi, al massimo calcioni. Un mondo dove non si gioca calcio con alta espressione tecnica e furbe trame tattiche. Se solo dopo un'ora la squadra di Ancelotti ha trovato un minimo registro per i suoi assalti lo deve a Mertens, mobile quanto serviva per scivolare fra gli omoni giallorossi, la miglior forza espressa da Di Francesco.

Ancelotti stavolta ha sbagliato a non spender subito Mertens che comunque s'è visto annullare due gol, prova che almeno lui cercava il pareggio. Finché l'ha trovato, al 90', per mantenere vive le speranze di scudetto. Ma quanti errori, quanto rara l'intesa che gli azzurri hanno saputo mostrare più volte in passato, segreto dei loro successi, ieri sera smarrita prima per indolenza poi per affanno.

Solo l'Inter di un anno fa mi aveva fatto contare una cinquantina di errori tecnici, voglio dire passaggi sbagliati, palle perse, intese sballate, palloni alle stelle salvo quello di El Shaarawy che entra al 14'e costringe il Napoli a una caccia innaturale e velleitaria visto che si proietta all'attacco fino all'area di porta anche Koulibaly che oggi non è fisicamente e psicologicamente il guerriero che sconfisse la Juventus sei mesi fa. È certo – dico per inciso – che la Roma, perduto Alisson, ha trovato in Olsen un portiere miracoloso. Accompagnato da un apparato difensivo che definire catenaccio è un palliativo e tuttavia gestito con intelligenza, come se a lungo provato. Di Francesco rischiava la panca, Ancelotti la rincorsa alla Juve. Ne riparleremo.

LE PAROLE DI VENTURA APPRONO SCENARI DI PESSIMISMO

Luca Campedelli, presidente del Chievo, ha appena compiuto – come s'usa dire – i suoi primi cinquant'anni. Avrei voluto dire "festeggiato" ma se avesse qualche peso la disperata avventura della sua squadra, sesta sconfitta consecutiva e un fastidioso sottozero, si dovrebbero escludere torte, candeline e canzoncine. Eppure. Chi lo conosce bene lo dice molto pratico, senza quell'eterno sorrisino potrebbe essere anche cinico. Insomma, si dice che da quando l'hanno condannato per quella storia delle plusvalenze – e gli è andata bene, 3 punti di penalizzazione rispetto alle disastrose previsioni – si sia come messo il cuore in pace, pensando più al futuro che al presente. Un passaggio in B cosa sarebbe, rispetto al miracolo di 17 campionati giocati in Serie A dopo avere fatto una scalata storica dalla Lega Regionale Veneta del 1968 (quando nasceva Campedelli) alla massima serie nel 2001? Non diamo per scontata la resa del presidente che da 26 anni sta in trincea ma sono le parole di Ventura – due sconfitte su due – ad aprire scenari di puro pessimismo. A Cagliari la sconfitta non l'ha amareggiato più che tanto, anzi, ha visto la squadra crescere: "Abbiamo fatto quasi un tempo, adesso proveremo a allungare a un'ora". Mancava dicesse "siamo usciti a testa alta" e invece è andato oltre, quasi spiegando i progetti più o meno segreti del presidente: "La penalizzazione pesa molto sul piano psicologico, ma adesso dobbiamo creare i presupposti per fare qualcosa: se non sarà possibile salvarsi bisogna ringiovanire l'organico e pensare a ricostruire in vista delle prossime stagioni". È cosí, Campedelli ha pensato al futuro e scegliendo Ventura, che se ne intende, ha garantito che il Chievo sia in buone mani per l'eventuale risalita. Fanno comunque effetto, le parole del tecnico, perché rammentano il progetto di rinascita della Nazionale dopo la storica bocciatura svedese: ringiovanire e ricostruire. Tavecchio, presidente di un ente pubblico, ha dovuto dimettersi; Campedelli, presidente di un club privato, può fare quel che vuole, anche regalare panettoni a tecnici perdenti (solo a D'Anna è stato negato). Ma se domani, per puro caso, il predecessore di Ventura in Nazionale, Antonio Conte, fosse chiamato a sedere sulla panchina dei blancos, non gli salterebbe agli occhi la differenza, chi al Chievo chi al Real? Ma a Chievo – va ricordato – gli asini volano…

LA FISICITÀ GATTUSIANA DEL MILAN DOPO LE MANITE DI NAPOLI E INTER

Anni fa Santa Madre Chiesa avanzò sommessamente la proposta di riavere la Domenica occupata interamente dal calcio. Ricordo che si oppose più d'altri Tavecchio, presidente dell'allora potente Lega Dilettanti. Ci ho ripensato ieri: visto il programma, culminato con la visione di un Milan inguardabile, premiato da una fortuna sfacciata, potremmo veramente restituire la Domenica ai santi e lasciare ai fanti gli altri giorni della settimana peraltro già occupati da anticipi, posticipi, recuperi, Coppe e Coppette. Di notevole, questo Milan, ha acquisito soprattutto una fisicità gattusiana, ovvero evidente ma scomposta, forzuta ma insofferente a regole e misure. Inadeguata a un possibile ritorno di Montolivo ch'è rimasto in panchina con gli occhi sbarrati dallo stupore. E tuttavia di "Ringhio" c'è il carattere, lo spirito… resistenziale che produce, guarda un po' come con il Genoa, e sempre con Romagnoli, un successo clamoroso quanto ingiusto che punisce l'Udinese dell'ottimo Lasagna, più calciatore di Suso e Castillejo che ho visto sbagliare clamorosamente tiri in porta favorevolissimi; gli eccessi muscolari finiscono per influire sulla qualità dei pedatori visti in altre occasioni tecnicamente più dotati. Ma questa è – sento dire – la filosofia di Gattuso, in verità racchiusa in una parola impronunciabile.

Di notevole (si fa per dire) la domenica ha offerto una speranzosa goleada della Lazio di Immobile, le comiche di Ventura a Chievo e un evento particolare, il clamoroso successo del Torino a Marassi contro una Sampdoria che poche settimane fa era riuscita a battere il Napoli di Ancelotti, una sconfitta che potrebbe aver peso decisivo nella corsa scudetto. Mentre Giampaolo è tornato a mostrare l'incompiutezza dei suoi presunti capolavori, Mazzarri ha colto il successo dovuto a un lavoro straordinario e al recupero di Belotti, autore di una doppietta gradita anche a Mancini. Con le manite di Napoli e Inter e la resistenza della Roma a Firenze prima dell'impegno di Champions credo si sia formato stabilmente il trio dei rivali della Juve più accreditati. È quanto resta di emozionante in questo torneo che Agnelli, annoiato dai successi, voleva abbandonare, almeno secondo le clamorose rivelazioni di Wikileaks. Come non capirlo?

(ITALPRESS).

I FORTI NON MOLLANO, IL NAPOLI RESISTE

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I forti non mollano. Mentre un’Inter pantofolaia si fa demolire a Bergamo, il Napoli resiste al secondo assalto genovese e stavolta addirittura vince con grande coraggio e umiltà e la Juve normalizza il match di Milano annunciato come evento epocale. Per il Napoli segna soprattutto il destino, per la Juve apre il gioco Mandzukic, uno sportivo paziente e saggio, che accetta d’esser trattato da manovale, risolve in gol i problemi della Signora e non fa una piega: la Juve è piena di divi, lui con Chiellini rappresenta gli Uomini. E scusate la retorica ma ci sta se ogni tanto ci tocca vedere il volto ringhioso (non l’unico, ovviamente, a San Siro) di Bonucci costretto alla panchina per evitare (si dice) punizioni fisiche. Ha lasciato un bel ricordo a Milano, naturalmente, almeno nelle dorate vie dello shopping.

La lotta più dura e attesa, a ben vedere, l’hanno esibita Ronaldo e Zapata, con CR7 nei panni dell’implacabile giustiziere. Il generoso rossonero è stato colpito da due illustri pallonate, è scampato al l’abbattimento, ha anche sorriso e s’è preso due carezze dal portoghese. What else? In effetti è mancato il duello vero, quello ampiamente reclamizzato, fra Higuain e Ronaldo, voluto in particolare (secondo le cronache) dall’argentino scaricato dalla Juve – lui portentoso crack – per far posto al Mito collezionista di palloni d’oro. Ma Higuain, poveretto, dopo avere invocato e ottenuto un bel rigore, se l’è fatto parare dal buon Szczesny, ingiustamente criticato dopo la batosta dell’United. Con Gonzalo in versione vorrei ma non posso (con relativo attacco isterico da frustrazione e espulsione) il Milan ha accusato una netta inferiorità rispetto alla Juve a sua volta felice di avere una sorta di talento pratico nei momenti più difficili. Nonostante Cristiano soldato della Verità, pur esibitosi in uno dei suoi gol magistrali; nonostante Dybala Gioia del pallone. Quel che conta, per la Juve – diochenoia – è vincere. Tanto per cambiare. Chi ha preteso di far volare il Milan dovrà accontentarsi di vederlo correre con vistosa esibizione di fisicità senza idee. Mediocre. E basta. Chi pensava di avere ritrovato Milano protagonista deve solo sperare che la Pazza Inter ritrovi L’intelletto perduto a Bergamo. O a Appiano Gentile. Dalla sosta si ritornerà a parlare di Juve e Napoli, Napoli e Juve. Vuoi vedere che tirano a diventare Real e Barça?

VENTURA HA ABBANDONATO IL CHIEVO

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Ventura ha abbandonato il Chievo. Se n'è tornato in qualche buen retiro imprudentemente lasciato per tentare una nuova avventura. Per lasciare almeno un gesto rimarchevole anche in futuro si è dimesso. Rinunciando – si dice – alla moneta. Come fece – e ancor ve n'è memoria – nel 1992 Corrado Orrico, uno degli 82 allenatori dell'Inter in 110 anni. Orrico ebbe un 'impennata d'orgoglio che lo portò a una scelta autolesionista. Fu salutato con simpatia. Ventura no. Sentite il saluto di capitan Pellissier: "Chi ama questa squadra non la può abbandonare solamente perché le cose vanno male, non è così che si fa, non fate come Ventura, si vince e si perde insieme come deve essere in una squadra. Mai mollare fino alla fine". Ed è la parte più dolce dell'addio.

E adesso, con parole compassionevoli oltre il merito, molti si chiedono:" Chi gliel'ha fatto fare?". Non a lasciare ma a prendere il Chievo. "Voglia di rinascita" – parola di psicologi frettolosi." Presunzione" – sospetto di conoscenti maliziosi. "Ingaggio"- volgarità di nemici. "Così impara" – parola di Tavecchio. "Una cena con Campedelli" – dico io, e aggiungo: pasta e fasoi, fritole, risotto all'Amarone, Amarone medesimo in goti, pandoro Paluani meglio subito. E il fascino di una proposta che con l'aria che tira da un anno a questa parte il Gian Piero proprio non se l'aspettava. Forse ha anche sottovalutato le sue colpe. Tavecchio se n'è andato in buon ordine, colpevole solo di aver sbagliato allenatore quando i politicamente corretti hanno tolto il tutore – Lippi – a Ventura. Se dovevano essere in due vuol dire che uno non bastava. Ma questo è un ragionamento da sempliciotti come me. Aggiungo che al Gian Piero è mancata anche la virtù maggiormente apprezzata da Napoleone nei suoi generali: la fortuna. Che l'ha abbandonato per dissociarsi dal narcisismo tattico del CT (sfida alla Spagna in pompa magna) che gli ha anche consigliato la scelta finale di rinunciare a Insigne, l'unico vero campione in circolazione azzurra. Eppoi, come non capire che la sciagurata cacciata dal Mondiale russo sarebbe stata aggiunta – con doppio pubblico ludibrio – a Belfast '58. Allora (io c'ero) la storica invettiva di Giulio Onesti contro i presidenti "ricchi scemi" costituì un alibi perfetto per Alfredo Foni, il ct sconfitto che in realtà viene ancora ricordato per le sue bufale dai giocatori di quel tempo, come Gino Pivatelli, ma trovò ben sette ulteriori ingaggi con tanta fantasia e una bella faccia tosta. Ventura sará ricordato come l'Uomo Immagine di questo calcio depotenziato dagli eccessi esotici (tradurre con parole acconce la sciagurata sortita di Tavecchio su Optì Pobà) e di denaro, il primo demolitore degli antichi eroi pedatori. Belfast '58 sarà dimenticata, si ricorderà Milano 2017, non per l'Expo ma per il Flop. Musica contemporanea. Chievo resisterà e gli asini – quelli veri, resistenti alla fatica e alle umiliazioni – torneranno a volare.