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MEDICINA E TECNICA, CONVERGENZE PARALLELE

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Il primo ominide scese dagli alberi 5 milioni di anni addietro, per arrivare a ‘sapiens’ e ‘habilis’ 100.00 anni prima dei nostri giorni. È intuitivo immaginare che la prima visita medica fu fatta in una caverna o in una radura della preistoria, come gli animali: lambire le ferite, liberare dalle spine, bagnare con acqua fredda contro l’arsura della febbre, disimpegnare i più semplici bisogni del parto. Era la ‘medicina istintiva’, nell’alba della specie umana.

Successivamente – anche nell’epoca della medicina teurgica, magica, demonistica, empirica – le pratiche della medicina si incrociarono con la tecnica. Una selce scheggiata per perforare e tagliare pelle e carni malate; antichi attrezzi metallici per la trapanazione del cranio nella medicina egiziana e nella chirurgia greca, romana, medievale e arabo-musulmana. Nel corso dei secoli e dei millenni si sono succeduti: il ‘pulsilogio’ che tastava il polso; il microscopio allora a chiamato ‘occhialino’, l’antesignano del termometro, tutti opera del genio di Galileo Galilei. 

Duecento anni addietro Laennec inventava lo stetoscopio, e via via nel tempo si sono succeduti lo sfigmomanometro, gli apparecchi per anestesia, il galvanometro a corda, nel 1893 battezzato da Einthoven ‘elettrocardiografo’, nel 1895 i raggi X scoperti da Röntgen che vinse il primo Premio Nobel per la Fisica, raggi che permisero di vedere l’uomo di dentro, senza dissezioni o amputazione. L’officina delle diversità, con uno sforzo continuo che ricorda il mitico Prometeo. Ricordando un famoso ossimoro potremmo dire: medicina, chirurgia, fisica e tecnica convergenze parallele. Tant’è che nei paesi anglosassoni il medico è chiamato ‘physician’.

Fin dai tempi di Ippocrate la medicina – che egli definiva ‘arte lunga’ – è stata una partica bastata su scienze ed esercitata in un mondo di valori. Il medico consigliava il malato, forse lo guariva, ma sempre lo consolava, con uno sguardo antropologico nei penetrali dell’uomo infermo.

La medicina attuale caratterizzata da continua e crescente rivoluzione tecnologico-digitale – che qualcuno paragona a una navicella verso l’ignoto – pone nuovi problemi e risvolti nei rapporti tra biodiritti, clinica e malato, con sconfinamenti verso derive utopiche.

 

Bisogna prendere atto dei radicali cambiamenti avvenuti nella professione medica per molteplici cause, tra cui lo sviluppo drammatico della tecnologia, l’ultraspecializzazione, l’espansione dell’informatizzazione e della comunicazione globalizzata, l’impatto dell’economia e del peso delle ricadute finanziarie sempre crescenti nella medicina e nelle scelte del medico, l’aziendalizzazione delle attività sanitarie e l’ingresso della managerialità in scala differenziata, ma pregnante, nell’attività professionale di ogni singolo medico. 

Il progresso scientifico-tecnologico della medicina può ridurre l’uomo solo ad organi, cellule, geni e reazioni chimiche. Nella nostra Terra, a conferma di tali possibili derive, il numero di dispositivi intelligenti tecnologici connessi in rete supera quello degli esseri viventi. Appare sempre più necessario il governo umano della tecnica. Le Medical Humanities (MH) permettono di recuperare fondamento umano, sensibilità e spiritualità’ del malato per riconquistare la dimensione olistica del paziente. Le scienze umane sono il ‘respiro della mente’. Il medico non può ridursi a semplice lettore di grafiche e l’uomo infermo non è solo un ammasso di molecole, un ipotetico strumento meccanicistico, che può essere analizzato e trattato per settori autonomi e separabili in base a una ipotizzata e deleteria ‘medicina dei tagliandi’, come un’automobile e i suoi pezzi di ricambio. Bisogna riconoscere al malato lo status di persona, titolare di diritti che intende continuare ad esercitare. 

 

Il medico si trova al centro di una variegata temperie, che non permette di saldare scienza e valori umani. La sfida sanitaria non è solo tecno-economica, ma soprattutto etico-sociale e culturale. La memoria storica diviene sorgente non sostituibile di informazioni. Merita una riflessione l’antico rapporto, ancora insuperato, tra il cittadino infermo, il medico e la società.

Pertanto da più parti si invoca una formazione che promuova l’incontro delle insostituibili caratteristiche umane ed etiche che devono anzi essere preservate e rafforzate, il metodo clinico e investigativo del passato con quelle emergenti caratteristiche e competenze che richiede la società moderna con tutta la sua complessità, le sue innovazioni e le sue continue trasformazioni. In tale contesto si propone di coltivare una serie di valori, tra le quali: ‘empatia con il paziente ed i congiunti’; predisposizione psicologica ad aiutare; contatto umano e fisico con il paziente. ‘Scrivere una ricetta è facile – affermava Kafka – ma ascoltare la sofferenza è molto, molto più difficile’. 

Nuovo paradigma della medicina è il benessere spirituale, che è unico per ogni persona. L’uomo ha una dimensione fisica e psicologica, ma anche spirituale, come afferma il concetto dualistico corpo-anima, ove la spiritualità non si riduce solo alla religione.

 

Anche l’Oms-Organizzazione mondiale della sanità, definisce la ‘qualità della vita’ come percezione dell’individuo e della propria posizione nel contesto dei sistemi culturali, valori e prestazioni sanitarie. Bisogna superare la scissione tra scienza, medicina e cultura umanistica, per tentare una risposta flessibile alle esigenze di una società tecnologicamente sofisticata.

È necessario trovare un gusto equilibrio e una saldatura tra scienza e umanesimo, in quanto il medico si trova sempre più al centro di complesse difficoltà. Pertanto si auspica una formazione che promuova l’incontro tra insostituibili caratteristiche umane ed etiche che devono anzi essere preservate, metodo clinico del passato e sistemi emergenti digitali.

Le ‘Medical Humanites’ sono discipline che offrono un valido aiuto per la comprensione della condizione umana generale di un individuo assistito, oppresso da dolore, ansia, depressione, disperazione. Si fa riferimento a: storia, filosofia, etica, antropologia, sociologia, psicologia, biopolitica, biodiritti, problemi del fine vita, cure palliative, terapia del dolore. Lo studente apprende solo un po’ di deontologia, cioè la dottrina dei doveri, nell’ambito della medicina legale. L’esplosione della tecnologia nei vari settori della società contemporanea – Intelligenza Artificiale (I.A.), Big Data, Robotica, Cibernetica, Genomica – fa entrare la medicina nel post-umano, tant’è che alcuni parlano di ‘Homo Tecno Sapiens’. La tecnologia si deve sviluppare per fornire un supporto utile agli umani, per superare i loro limiti, estendere la comprensione e l’utilizzo di enormi quantità di dati, al fine di arrivare alla medicina delle ‘5p’: predittiva, preventiva, partecipativa, personalizzata, di precisione

 

Il cittadino apprende i tentativi di creare un’interfaccia tra uomo e computer, attraverso micro-chip inseriti nel cervello, collegati – con fili più sottili di un capello – con il robot, per dialogare e trasformare il pensiero in azione, realizzando il cyborg, l’uomo bionico,  con una vera e propria colonizzazione digitale. L’I.A. è diventata una disciplina complessa – nata nel 1956 – con molte sottodiscipline di ricerca, per trovare soluzioni che un agente intelligente deve potere svolgere. Una specie di ‘antropologia sintetica’. In medicina convivere con i robot può esser un’opportunità per divenire più umani, attraverso una dinamica interattiva, che gli sperimentatori hanno denominato ‘empatia artificiale’. Se l’I.A. è ben realizzata si può capire quali valori inserire in tecnoscienze così avanzate, potenti e pervasive, riflettendo sempre sui valori umani fondamentali. La tecnica deve rappresentare un futuro allineato a questi ideali, per troncare eventuali rischi di abusi sugli umani, attraverso l’evoluzione guidata in ‘Human Information Technology’.

 

Problema ancora insoluto è il rapporto tra creatività umana e I.A., che segmenta il mondo, poi lo riconosce e quindi può manipolarlo sulla base degli algoritmi. Bisogna comprendere e guidare queste straordinarie innovazioni: il ‘Neuralink’, vale a dire lacci neurali che traducono l’attività cerebrale in una rete informatica decifrabile da una macchina; le reti neurali artificiai; la creatività esplorativa, combinatoria e trasformatica digitale. 

Oggi la scienza biomedica si fonda su una triade: umanesimo, tecnologia, post-umanesimo. Ancora una vota convergenze parallele. È, pertanto, necessaria un’etica dell’interazione tra uomo e macchina. Uomo, robotica e informatica viaggiano a passi sempre più rapidi l’uno verso l’altro. Dobbiamo metterci  a scuola della storia.

L’I.A. non deve fare paura se l’uomo avrà la capacità di guidarla: collaborare, come per il passato, con la tecnologia per comprendere l’orizzonte degli eventi futuri. L’high-tech, su queste basi migliorerà la nostra vita presente e futura.  

Ricordiamo il profondo e sapiente ammonimento di Jacques Maritain, capace di rappresentare la bussola perenne nell’arte medica e nel rapporto con il paziente, debole, sofferente, indifeso. L’uomo – affermava il filosofo – non è soltanto un mezzo, ma è ben più un fine. La dignità della persona umana non vuol dire nulla se non significa che, per legge naturale, la persona umana ha il diritto di esser rispettata, è soggetto di diritto e possiede diritti. Vi sono cose che sono dovute all’uomo per il fatto stesso che è uomo.

IL FUTURO DELLA MEDICINA, SCIENZE UMANE E POST-UMANE

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La medicina attuale caratterizzata da continua e crescente rivoluzione tecnologico-digitale – che qualcuno paragona a una navicella verso l’ignoto – pone nuovi problemi e risvolti nei rapporti tra biodiritti, clinica e malato, con sconfinamenti verso derive utopiche. Bisogna prendere atto dei radicali cambiamenti avvenuti nella professione medica per molteplici cause, tra cui lo sviluppo drammatico della tecnologia, l’ultraspecializzazione, l’espansione dell’informatizzazione e della comunicazione globalizzata. Il progresso scientifico e tecnologico della medicina ha ridotto la dimensione umana solo ad organi, apparati, cellule, geni e reazioni chimiche. Le Medical Humanities (MH )permettono di recuperare la dimensione umana, il ruolo della personalità, la sensibilità, la spiritualità’ del malato. La Medicina e le MH insieme riconquistano la dimensione olistica del paziente. Il medico si trova al centro di una variegata temperie, che non permette di saldare scienza e valori umani. La sfida sanitaria non è solo tecno-economica, ma soprattutto etico-sociale e culturale. La memoria storica diviene sorgente non sostituibile di informazioni. La cura è molto più antica della terapia. Prima della svolta scientifica il medico dedicava molto tempo e attenzione nel raccogliere dati o impressioni concernenti la storia clinica. 

Il medico antico usava tutti e cinque i sensi per farsi un’esperienza della malattia. La comunicazione era intesa come ascolto, inclusione e coerenza: un coinvolgimento attivo delle persone, definito oggi ‘engagement’. Pertanto da più parti si invoca una formazione che promuova l’incontro delle insostituibili caratteristiche umane ed etiche che devono anzi essere preservate e rafforzate, il metodo clinico e investigativo del passato con quelle emergenti. Caratteristiche e competenze che richiede la società moderna con tutta la sua complessità, le sue innovazioni e le sue continue trasformazioni. In tale contesto si propone di coltivare una serie di valori, tra le quali: ‘empatia con il paziente ed i congiunti’; predisposizione psicologica ad aiutare; contatto umano e fisico con il paziente. Nuovo paradigma della medicina è il benessere spirituale, che è unico per ogni persona. L’uomo ha una dimensione fisica e psicologica, ma anche spirituale, come afferma il concetto dualistico corpo-anima, ove la spiritualità non si riduce solo alla religione. Bisogna superare la scissione tra scienza, medicina, storia, filosofia e cultura umanistica, per tentare una risposta flessibile alle esigenze di una società tecnologicamente sofisticata. Se l”arte lunga’ – secondo la bella definizione di Ippocrate – si riduce solo a pratica, scienza, efficienza e tecnica, ne deriva una prassi ambigua della terapia. Entro questi confini la cura del malato non è capace di dare sollievo alla sofferenza spirituale, luogo polimorfo e dimensione intima della persona. 

 

La malattia grave minaccia l’integrità dell’uomo infermo, con crollo dell’identità spirituale accompagnato da dolore, ansia, depressione, disperazione, disfacimento dei rapporti umani. Dialogo, comunicazione, ascolto, medicina narrativa, consenso informato che deve divenire consenso compreso e compiuto: sono questi alcuni dei cardini della buona medicina. Pensiamo a quei poveri e indifesi malati – sottoposti a prestazioni inutili, pesantemente invasive e mutilanti – che hanno firmato fogli e fogli incomprensibili. Sovviene alla memoria il ricordo dell’incontro, nei Promessi sposi, tra il dottor Azzecca-garbugli e l’ingenuo Renzo, tranquillizzato – scrive Alessandro Manzoni – nel ‘mirar proprio quelle sacrosante parole, che gli parevano dovere essere il suo aiuto’. Con risultato infausto, allora per il Tramaglino ora per il fiducioso paziente. Le ‘Medical Humanites’ (MH) sono discipline umanistiche che offrono un valido aiuto per la comprensione della condizione umana generale di un individuo assistito, e per il miglioramento dell’empatia fra medico e paziente. Esse sono uno strumento utile per coniugare la professionalità dei dottori e sanitari con le conoscenze umanistiche. Il lavoro del medico ed il suo rapporto con il malato si arricchiscono con la conoscenza di saperi espressivi di modelli spirituali ed etici. Si fa riferimento a: filosofia, etica, antropologia, sociologia, psicologia, biopolitica, biodiritti, problemi del fine vita, cure palliative, terapia del dolore. 

Senza dimenticare la storia della medicina che non è solo memoria e conservazione storiografica, ma riassume travaglio, sconfitte, riprese e avanzamento della scienza biomedica. Queste cognizioni, inoltre, riportano la medicina al centro delle dinamiche sociali, culturali, importanti per capire l’esperienza e le reazioni alla malattia in ogni singolo paziente. Da questo punto di vista è fondamentale l’apporto offerto dalla ‘Società Italiana di Storia della Medicina’ che non è solo ricordo che riassume travaglio, sconfitte, riperse e avanzamento della scienza biomedica ma la storia dei luoghi, degli ambienti, delle strutture, delle persone che hanno operato, dei loro percorsi di formazione, della loro collocazione nella società, del loro rapporto con le istituzioni e con i malati e, naturalmente, è la storia dei malati. 

La storia della medicina è fondamentale e deve essere inquadrata come storia del pensiero e dell’arte medica che inevitabilmente coinvolge anche tematiche bioetiche e gli stessi moderni concetti di Governance. Le MH vogliono essere luogo in cui la medicina non solo rafforza i propri rapporti co le scienze sociali e comportamentali, ma deve entrare in dialogo con la filosofia morale e con gli apporti delle arti espressive che si propongono di ricondurre la pratica delle sanità alle sue finalità originarie: essere medicina per l’uomo. I concetti espressi rappresentano il patrimonio di memoria e cultura – o ‘quiddità’, vale a dire l’essenza in termini filosofici – della ‘Società Italiana di Storia della Medicina’, una delle società scientifiche più antiche d’Italia. 

Tali valori perenni rappresentano il passato e il presente, anche se quest’ultimo nel nostro Paese non ha visto quasi mai praticare queste linee-guida nei Corsi di Laurea di Medicina e Chirurgia e delle Professioni Sanitarie, specie infermieristiche. Ma un sodalizio vivo, vitale e attivo deve avere la capacità presbite di guardare lontano, individuando i nuovi orizzonti verso i quali stanno navigando la scienza e la clinica medica. Ci sono sempre mete da raggiungere. L’esplosione della tecnologia nell’arte lunga di Ippocrate e nei vari settori della società contemporanea – Intelligenza Artificiale (I.A.), Big Data, Robotica, Genomica, Proteomica, Metabolomica e altre – omiche – fa entrare la medicina nel post-umano, tant’è che alcuni parlano di ‘Homo Tecno Sapiens’. La tecnologia si dovrebbe sviluppare per fornire un supporto utile agli umani, per superare i loro limiti, estendere le capacità e per trovare correlazioni utili in enormi quantità di dati. Un’intelligenza artificiale complementare, per capire quali valori inserire in tecnoscienze così avanzate, potenti e pervasive, riflettendo sempre sui valori umani fondamentali. La tecnica deve rappresentare un futuro allineato a questi principi, per troncare eventuali rischi di abusi sugli umani, attraverso l’evoluzione guidata in ‘Human Information Technology’. Pertanto molti intellettuali e uomini di scienza invocano il bisogno di un’etica della tecnologia, dell’I.A., della Robotica. 

La dirigenza della ‘Società Italiana di Storia della Medicina’, consapevole della fondamentale importanza – presente e futura – di tali problematiche ha costituito, nell’ambito associativo una ‘Sezione di Scienze Umane e post-umane in Medicina’, concordando con l’alto ammonimento del grande filosofo e sociologo Alain Touraine che invitava alla creazione di un principio centrale, fondato su un sistema di valori culturali, che possa governare la tecnologia. Perché non è possibile che avvenga il contrario: cioè che sia la tecnologia a determinare cambiamenti di valori spirituali in una società. La struttura etico-culturale istituita vuole rappresentare una lanterna della scienza per un nuovo ‘Patto di Esculapio’.

VERSO L’IMMORTALITÀ DIGITALE

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Un desiderio forte e costante dell’uomo di ogni tempo: la memoria, l’essere ricordato dopo la morte.

Dopo il gran botto, il big-bang, tredici miliardi di anni fa, dal quale scaturirono spaventose scariche elettriche, universo pluriverso, stelle, galassie, buchi neri, materia oscura e pianeti, l’origine della vita sulla terra viene fatta risalire a tre miliardi di anni addietro. Da allora nacque la vita primordiale e – nei tempi e con continue e successive evoluzioni – si è arrivati all’uomo.

Non entriamo, in questo articolo, sulle ipotesi “abiotiche” o “biotiche” di quel processo materio-energetico che gli scienziati chiamano vita. La prima afferma che scintille elettriche nella primordiale atmosfera di ammonica, idrogeno e vapore acqueo hanno determinato il sorgere di molecole organiche. La seconda sostiene che la vita arriva sulla Terra già formata, proveniente da pianeti degli innumerevoli sistemi solari di infinite galassie.

Fin dal principio gli antenati comuni hanno cercato di lasciare tracce o segni di sé. Delle ere primitive si hanno segni sparuti: alcune ossa e crani, qualche graffito rupestre, diverse schegge di utensili. Bisogna arrivare alle dinastie dei Faraoni – dopo centinaia e centinaia di secoli – per acquisire segni e attività di singoli esseri viventi: nomi, gesta, posizioni sociali, sposalizi, guerre e battaglie, azioni civili e domestiche.

Solo nei millenni più recenti si hanno ricordi e opere di personalità, ma solo se eminenti (anche nel male) nei vari campi intellettuali, artistici e fattuali dell’essere umano: Platone, Aristotele, Alessandro Magno, Giulio Cesare, Leonardo, Michelangelo, Napoleone, Beethoven, Verdi, Hitler, Stalin, Churchill e qualche migliaio ancora. Altri nomi memorabili, con il tempo si sono sfarinati nella materia del niente.

Degli altri miliardi di uomini scomparsi non si ha ricordo, tranne che nella cerchia ristretta di parenti e amici per pochi anni, malgrado i desideri dei defunti. Via via i loro scritti, lettere, dagherrotipi e foto ingiallite, targhe, dopo un paio di generazioni finiscono dimenticati o nel cestino della roba inutile.

Quest’ansia insoddisfatta trova significativa espressione nella famosa “Antologia di Spoon River”, dove dagli epitaffi delle tombe in un cimitero di una cittadina rurale americana, si cerca di ricostruire la vita dei deceduti: virtù, vizi, sogni, opere, rimpianti, rancori, vendette, amori. Solitari e dimenticati viaggiatori per mari sconosciuti.

Tale pulsione verso l’immortalità ha trovato, negli ultimi anni, ulteriore conferma. Esistono in deposito decine di cilindri d’acciaio, ripieni all’interno di azoto liquido, che contengono corpi interi di defunti. Essi e i loro familiari – aderenti al cosiddetto transumanesimo – hanno chiesto la crioconservazione, lasciando i cadaveri in attesa che la scienza superi le colonne d’Ercole della conoscenza e divenga capace di scoprire e immettere nell’individuo defunto lo spirito immateriale che risveglia il corpo. Sogni, fantasie o macabra pseudo-scienza, che ritiene di potere reintrodurre la mente nel materiale biologico in cui era rimasta incastrata, nel periodo di vita degli individui.

Con la rivoluzione digitale si è aperto un nuovo scenario, che riaccende impensabili speranze. Facebook, Instagram, Whatsapp, Web, Twitter si sono trasformati nel più grande cimitero del mondo, che diviene trasmittente imperitura nel tempo e nello spazio.

Le nostre immagini, scritti, pensieri, amicizie, odi sono a disposizione permanente delle generazioni future, nei tempi dei tempi. Abbiamo intrapreso un viaggio senza precedenti e senza meta, capaci pertanto di vivere per sempre, attraverso le nostre “impronte digitali”, disponibili, comprensibili e sfruttabili dai vivi delle future ere geologiche, anche interplanetarie.

Ossari o spettri digitali li definisce Davide Sisto, nel bel volume “La morte si fa social”, offerti per l’eternità ai futuri esseri vivi e raziocinanti, anche senza alcuna autorizzazione.

La morte – quella che Gesualdo Bufalino chiamava la grande vacanza – diviene un viaggio perenne, privo di scomparsa, con presenza indelebile delle nostre tracce. Immortalità digitale: conquista o pericolo?

Poiché dall’energia siamo sorti dagli spazi interstellari, poiché Internet si basa su matematica, elettromagnetismo ed energia, questa forza vitale – naturale o derivata – può essere interpretata come il grande spirito universale e creatore delle varie religioni.

Adelfio Elio Cardinale

IL MUSEO DELLA RADIOLOGIA DI PALERMO

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Il 25 ottobre di quest’anno avrà avuto luogo la cerimonia di inaugurazione del rinnovato, ampliato e ristrutturato “Museo della Radiologia” di Palermo, unica raccolta museale di tal genere esistente oggi in Italia.

“Solo attraverso il tempo si vince il tempo”, afferma un verso di Eliot. Nel 1995, centenario della scoperta dei raggi X da parte di Röntgen, la Scuola radiologica di Palermo, istituita dal Maestro Pietro Cignolini, decise di creare il “Museo della Radiologia”. La raccolta museale fu opera dell’ultimo allievo di Cignolini, Adelfio Elio Cardinale, con la collaborazione del continuatore e poi successore Roberto Lagalla oggi anche Assessore regionale dell’Istruzione e Formazione professionale. Questa esposizione di storia della scienza delle immagini è l’unica di tal genere esistente in Italia. Una guida per oggi e per lontani domani.

Quest’anno – nel quadro degli eventi e delle manifestazioni di “Palermo capitale italiana della cultura” – i fondatori, con l’attiva partecipazione del nuovo direttore Massimo Midiri e con gli eredi e prosecutori della Scuola, hanno deciso di ampliare, rimodulare e arricchire il Museo, avendo acquisiti nuovo materiale, documenti e cimeli ormai introvabili, senza trascurare di documentare tutto quanto di nuovo si è acquisito nella tumultuosa evoluzione della disciplina. Si sono infatti strutturati nuovi fondi, sezioni, archivi.

Il museo è una delle più alte istituzioni della cultura occidentale: concrezione multiforme di cose di varia natura, depositarie della vitalità di un passato continuamente riscritto, selezionate da scelte presenti in continua dinamica trasformazione, circondate da un’aura simbolica, con intima penetrazione di itinerari e linguaggi aggiunti. Per vero, collezionare, raccogliere, salvare oggetti dalla distruzione fa parte di un comportamento che l’uomo sembra aver tenuto nel tempo costantemente.

Muovendo da queste radici, da queste ancestrali abitudini, il museo può diventare specchio della società che lo esprime, sintesi di una delega collettiva nei confronti del passato, del presente e del futuro. Ambiente nel quale si esercita un magistero intellettuale, che non è solo di studio e di meditazione, nell’analisi di oggetti che ci circondano. Luogo centrale dell’immaginario comune, ove si istituisce un dialogo con gli antichi. Le strutture museali non assumono solo la funzione di documentare e conservare strumenti del passato e archivi di interesse scientifico, ma devono anche proporsi come luoghi di educazione permanente alla scienza e alla tecnologia, collegati al mondo della ricerca e attenti alle richieste della scuola sulla frontiera della conoscenza.

La “quiddità” – per usare un termine filosofico – di un museo è una maniera specificatamente occidentale di conservazione e trasmissione della memoria collettiva. Il museo come bene pubblico, dotato di un rapporto intenso con la società.

Non spazio espositivo passivo, ma luogo d’incontro partecipato e vissuto, con una triplice funzione: conservazione, studio scientifico, comunicazione. Una “agorà” sede dì dibattito, educazione, diletto, dove chiedere e ottenere risposte, in un incessante processo dialogico.

Il museo può divenire nucleo propulsore di produzione culturale, in quanto ciò rientra nella sua tradizione di centro di ricerca scientifica. È infatti un dato acquisito che le raccolte museali siano state luoghi di elaborazione di cultura, arte e scienza, collaborando alla costruzione del pensiero umano.

“Il museo – ha scritto André Malraux – è uno dei luoghi che danno la più alta idea dell’uomo”. Il museo scientifico si embrica con la biblioteca e l’archivio, i quali – in accordo con Giovanni Spadolini – hanno assolto la funzione istituzionale di luogo centrale della ricerca storico-scientifica e di laboratorio, ove l’alacrità nel conservare i documenti si sposa con il fervore degli studi sulle carte.

In questo contesto ideale e intellettuale nacque e si è sviluppato questo Museo, in quanto il legame col passato prepara e aiuta l’intelligenza storica, condizione di ogni avanzamento culturale e civile, In estrema sintesi il museo è un’istituzione che si incardina tra memoria e cultura.  Perdere il passato conduce a non comprendere il presente e non immaginare l’avvenire, Il museo come macchina culturale. Sono presenti nel Museo opere e documenti di gregari i quali, come massa silenziosa e operante e come singoli, hanno lavorato per la disciplina radiologica. Molti non sanno ed anche quelli che sapevano, molto hanno dimenticato. Molte cose furono vissute o, per lo meno, furono conservate solo nelle carte. Fu necessario riandare negli archivi, compulsare, selezionare; e poiché tutto non si sarebbe potuto pubblicare, senza comporre un gigantesco documentario, ogni rinuncia è costata un dolore. Si è anche scritto ed editato un volume sul “Museo della Radiologia”.

Gli spazi museali qualificano la vita di una città civile, rendendo un grande servizio di raccolta e testimonianza e mettendo in moto energie che ne attirino di nuove, attraverso anche collaborazioni e integrazioni.

Adelfio Elio Cardinale

VIAGGIO NEL MONDO DELLA SCIENZA, FLEMING

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“Piccolo di statura, viso arcigno sotto i capelli bianchi foltissimi, due occhi color di piombo fuso, duri e dolci come giade”, così lo descrisse Indro Montanelli. Nel 1955, moriva Alexander Fleming batteriologo e Premio Nobel, scopritore della penicillina. Nessuno più di lui – nella storia dell’umanità – ha salvato più vite, abbattendo la mortalità per alcune malattie, nel passato incurabili. Fleming era nato il 6 agosto 1881, in Scozia, da famiglia di contadini. Alexander ricordava la grama fanciullezza, con il quotidiano cammino a piedi per raggiungere la scuola e la mamma che gli dava due patate bollenti, per riscaldarsi durante il tragitto e poi fare colazione. Nel 1901, grazie a un piccolo lascito, Fleming decise d’intraprendere la carriera medica. Come studente di medicina dimostrò subito eccezionali capacità e si laureò superando facilmente tutti gli esami, guadagnandosi tutti i premi previsti per i laureandi. Alec dopo la laurea entrò nel Dipartimento d’inoculazione del “St. Mary’s Hospital”, nel cui piccolo e disordinato laboratorio, lavorò tutta la vita; nel 1915 si sposò con un infermiera irlandese ed ebbe un figlio, Robert. Rimasto vedovo, si risposò nel 1953 con la dottoressa Amalia Coutsouri-Voureka, bella e intelligente ricercatrice greca, espulsa dal regime dei colonnelli. Anche dopo i successi e la fama lo scienziato rimase un uomo semplice, schivo e modesto con hobbies comuni – quali giardinaggio, biliardo, tiro al piattello, golf – dedito sempre alla ricerca e all’insegnamento.
Fleming, durante i suoi studi, ebbe la fortuna di conoscere personalmente colossi della scienza biomedica, quali Metchnikoff, Shaw, Ehrlich : era rimasto, in particolare, colpito dalle ricerche di quest’ultimo (Premio Nobel, fondatore della chemioterapia, pioniere della teoria degli anticorpi, celebre per la scoperta del “salvarsan” contro la sifilide) che cercava una “pallottola magica”, in grado di uccidere l’agente infettivo senza danneggiare l’organismo ospite.
Alexander ebbe il suo primo successo sperimentale nel 1922, isolando il lisozima: un elemento che si trova nel muco nasale, nelle lacrime, nella saliva, capace di bloccare lo sviluppo di alcuni batteri. Purtroppo tale sostanza, che è un enzima, non rispose a pieno alle grandi speranze che aveva destato.
La sua sensazionale scoperta – dovuta a intuizione e casualità, o “serendipità” come si direbbe oggi – avvenne nel 1928. Fleming aveva lasciato dapprima aperta, per pochi secondi, una piastra ove si coltivavano batteri, che fu contaminata dalle spore di una muffa; quindi, dovendo partire per un mese di ferie, lasciò la capsula sul bancone di lavoro, invece di inserirla nell’incubatrice. Al ritorno dalle vacanze, lo scienziato rilevò che i batteri stafilococchi si erano sviluppati, tranne che nelle zone pervase dalla muffa del “penicillium”. “E’buffo” bisbigliò Fleming e iniziò ad approfondire le ricerche, estraendo una sostanza che chiamò penicillina. Iniziava una rivoluzione terapeutica, lunga e complicata, quasi romanzata.
Grazie, anche, alle successive sperimentazioni del patologo australiano Florey e del biochimico ebreo Chain, il farmaco meraviglioso fu depurato, misurato, sperimentato nell’uomo e reso disponibile per la clinica. Per rendere un’idea delle difficoltà connesse all’isolamento di una dose necessaria all’inoculazione in un paziente, erano necessari 2.000 litri di liquido di coltura di “penicillium notatum”. La penicillina presentava ottima solubilità, tossicità praticamente nulla e si dimostrò efficace contro la grande maggioranza dei germi gram-positivi (stafilococchi, pneumococchi, bacillo del tetano) e contro alcuni germi patogeni gram-negativi, quali meningococchi e gonococchi.
Per verità storica è stato accertato che più di trent’ anni prima di Fleming, vale a dire negli anni 1893-1895, un medico della Marina italiana, Vincenzo Tiberio, formula l’ipotesi avvalorata poi dai risultati di ricerche sperimentali da lui condotte, che alcuni muffe liberano sostanze capaci di inibire lo sviluppo dei batteri.
Questo giovane medico intuisce, e documenta in uno studio, il potere di distruzione da parte delle muffe. Tiberio formula l’ipotesi, avvalorata poi dal risultati di ricerche sperimentali da lui condotte, che alcune muffe liberano sostanze capaci di inibire lo sviluppo dei batteri. Alla scoperta di Vincenzo Tiberio non venne data alcuna importanza.
La produzione su scala industriale iniziò nel 1941 negli U.S.A. e in Inghilterra e ne beneficiarono in primo luogo le armate americane e britanniche, impegnate nella seconda guerra mondiale. Nel 1945 Fleming (con Florey e Chain) fu insignito del Premio Nobel per la medicina.
Anche diversi pazienti italiani, via via che avanzava l’occupazione americana, poterono godere tra i primi di questa rivoluzione terapeutica. I medici meno giovani ricordano con quale apprezzamento e stupore i grandi clinici e chirurghi di quel tempo – Frugoni, Villa, Condorelli, Valdoni, Dogliotti, Ascoli-osservarono sui malati le strepitose guarigioni prodotte dall’iniziale impiego dell’antibiotico, che cambiò la vita di moltitudini di uomini. Nel 1948 Fleming divenne direttore dell’Istituto di microbiologia del St. Mary’s Hospital.
Nel 1952 affermò di avere basato le sue ricerche sugli studi di Pasteur e Lister, padri della vaccinazione e dell’antisepsi, sottolineando come ogni successo fosse dovuto a genio e fortuna insieme.
Nell’ultima fase della sua vita Fleming ebbe fama, successi, gloria, riverito da sovrani e governi, con una gratitudine infinita da parte del mondo intero e con plurimi riconoscimenti : lauree “honoris causa”, conferimento dal titolo di Sir, onorificenze e premi. Il grande scienziato morì d’infarto l’11 marzo 1955.
Le sue spoglie riposano nella cripta della cattedrale londinese di Saint Paul, accanto a quelle di Wellington e di Nelson. La vera superiorità di Fleming – dissero nella sua commemorazione – consisteva nella fantastica capacità di comprendere il significato, di un’osservazione scientifica : in lui si poteva scorgere il “dito di Dio”.
                                                                                                          Adelfio Elio Cardinale

VIAGGIO NEL MONDO DELLA SCIENZA, MADAME CURIE

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“Le donne sono venute in eccellenza, di ciascun’arte ove hanno posto cura”, scriveva Ariosto nell’ “Orlando Furioso”. Affermazione profondamente vera per la scienziata polacca Curie.

Tra lei e l’energia atomica la filiazione è diretta. Maria Sklodowska – conosciuta come Madame Curie – era nata a Varsavia, da una famiglia di piccola nobiltà: cattolica credente e praticante, quando morì la sua mamma ancor giovane, la figlia perse ogni fede religiosa e per tutta la vita rimase non credente.

Maria sentì molto l’oppressione russa e fu sempre patriota, ribelle contro lo stato straniero dominante. A 16 anni fu costretta a interrompere gli studi, lavorando per cinque anni come donna di servizio. Nello stesso tempo leggeva con frenesia libri di Dostoevskij e Marx in lingua originale. Bionda, minuta, di vita sottile, occhi grigio cenere, fronte molto spaziosa, indole ferrea, intelligenza ostinata e implacabile; atea convinta. La sua sola fede è il progresso scientifico. 

Maria incontra nel 1894, Pierre Curie, dal fascino particolare, serio e dolce, viso regolare con barba, occhi tranquilli dallo sguardo profondo. Poco dopo decisero di sposarsi e il matrimonio avvenne nel luglio del 1895: investirono tutti i loro risparmi in due biciclette, con cui percorsero le lande francesi e, per tutta la loro vita comune, queste gite restarono il loro principale svago.

La vita di Maria e Pierre Curie, attraverso uno sforzo pervicace, è tesa verso un solo ideale: la ricerca scientifica. I Curie decisero di riprendere e approfondire gli studi di Henri Becquerel, che aveva scoperto le proprietà dei sali di uranio di emettere spontaneamente radiazioni. Pierre e Maria iniziarono una ricerca per verificare se in natura vi fossero altri elementi radioattivi. L’intuizione fu quella di ritenere che la radioattività era una proprietà atomica. Oggi la chiameremmo nucleare, ma a quel tempo nessuno sapeva che negli atomi esistessero nuclei pesanti e nubi elettroniche roteanti. Maria ebbe un colpo di genio e analizzò anche l’uranio contenuto in natura, nei minerali. Il metodo dei Curie consisteva nell’analisi chimica e nello studio della frazione ove si concentrava la radioattività. Le loro procedure costituirono i cardini di una nuova disciplina scientifica, la “radiochimica”.

L’uranio si trova nella pechblenda, una specie di magma bruno, di cui è ricca la Boemia. La direzione della miniera di Joachimstal in Cecoslovacchia cedeva a basso prezzo ai Curie i residui di pechblenda. Nel laboratorio arrivano sacchi di polvere scura. Maria vuota l’involucro e versa in un recipiente una ventina di chili di minerale per volta; mette la bacinella sul fuoco, scioglie, filtra, precipita, misura senza sosta. 

Attività sfibrante che si svolge in un misero laboratorio che è una rimessa vetusta, quasi una stalla: qualche vecchio tavolo, una usurata lavagna, una stufa di ghisa arrugginita che affumica tutto il locale. Questa stamberga la sera era debolmente luminosa – racconta Maria – per il chiarore sospeso fluorescente che promanava dai minerali disposti sui tavoli. Un’emozione e un rapimento. 

Dopo circa due anni di lavoro i Curie isolano una sostanza sconosciuta, il polonio, nome scelto dalla patriota Maria Curie in onore della sua patria. Successivamente, fu scoperto un nuovo elemento radioattivo, chiamato radio. Fu necessario lavorare sette tonnellate di minerale per ottenere circa un grammo di bromuro di radio, sufficiente per studiare a fondo le straordinarie proprietà di questa nuova sostanza dai fenomeni incredibili, definiti da Maria “il cataclisma della trasformazione atomica”. La scoperta della radioattività fu l’inizio di uno degli sviluppi più importanti della fisica e anche della medicina moderna, con uno straordinario ampliamento delle conoscenze umane sulla struttura dell’atomo.

Pierre e Maria Curie, nel 1903, furono premiati con il Nobel per la fisica, insieme a Henri Becquerel, in riconoscimento degli studi sui fenomeni di radiazione. Dalla scoperta nasce la fama, la gloria e la leggenda dei Curie, in specie Maria che divenne una celebrità mondiale.

Le misteriose radiazioni innestano una valanga di reazioni psicologiche e sociologiche ben lontane dal rigore scientifico: si beve tè al radon, si aggiungono sali di torio o di radio nelle creme di bellezza o nei rossetti.

Il 1906 è l’anno della tragedia. Pierre Curie muore investito da una vettura a cavalli. Maria ha 38 anni, ha perduto il proprio compagno e il mondo un grand’uomo. Comincia la seconda vita di Maria Curie: non aveva più la freschezza della gioventù, ma era sempre di una bellezza emaciata, severa e orgogliosa. Maria vive un periodo intenso di lavoro, sperimentazioni e dedizione alle figlie, circondata dai suoi  amici, professori, fisici, intellettuali.

Nel 1911 – nella Francia puritana dei primi del secolo – scoppia l’affaire Curie-Langevin, gli scienziati amanti. Paul Langevin, brillante amico di Einstein, era più giovane di Maria di quattro anni. Dalla reciproca comunanza intellettuale, all’amicizia, all’amore oggetto di commenti scandalistici e di gossip di stampa. Langevin fu ribattezzato “le Chopin de la Polonaise”. Tutto si immiserì in pettegolezzi. Maria sopportò con grande dignità lo scandalo, chiuse questo episodio della propria vita e si dedicò nuovamente con caparbietà solo al lavoro.

Nel 1911 a Madame Curie fu anche assegnato il Nobel per la chimica, per l’eccezionale contributo a questa disciplina con le sue scoperte ed esperienze.

Maria è l’unica persona, nella storia della scienza, ad essere insignita del Nobel in due discipline scientifiche. Infatti Linus Pauling ottenne il premio nel 1954 per la chimica e poi per la pace nel 1963.

La Francia vinse la guerra, la Polonia liberata dal giogo straniero e l’antico amico, il pianista Paderewski, era Presidente a Varsavia. Maria, divenuta celebrità mondiale, ha più di 50 anni e sembra aver ritrovato una nuova gioventù. Intraprende un viaggio trionfale negli Stati Uniti, dove il Presidente Harding le consegnò un grammo di radio acquistato con i contributi delle donne americane. Pochissimo tempo dopo la scoperta si era riconosciuto che il radio poteva avere un’azione sui tessuti biologici e si sviluppò l’idea che la sostanza potesse essere utile nella lotta contro i tumori. Nascevano la radioterapia e la medicina nucleare.

“Ho tanto sofferto nella vita”, ella disse. Madame Curie subì, infatti, lesioni cutanee, operazioni di cataratta, profondo deperimento generale, anemia aplastica, per avere manipolato per lunghi decenni sostanze radioattive senza alcuna precauzione, con una sequela crescente e tormentosa di malattie, che quasi non la fanno più alzare dal letto e con ripetuti ricoveri ospedalieri, Maria muore – all’età di 67 anni, nel 1934 – nel sanatorio di Sancellemoz, senza ricchezze e riposa con il marito Pierre nel cimitero di Sceaux, in una sepoltura che contiene un pugno di terra portata dalla Polonia. Madame Curie ha lasciato una traccia incancellabile nella storia della scienza.

Eppure – malgrado il sommo valore, premi, fama e gloria – mantenne sempre modestia, riserbo e sobrietà. “E’, fra tutte le persone celebri, la sola che la gloria non abbia corrotto”, disse di lei Albert Einstein. Persona di indole ferrea, la definì Emilio Segrè, italiano “Premio Nobel” per la fisica. Ma in aggiunta è utile sottolineare che Marie Curie decise di non brevettare alcuno dei processi scientifici e scoperte sviluppati, a testimonianza ulteriore di altruismo e umanità. 

Adelfio Elio Cardinale

VIAGGIO NEL MONDO DELLA SCIENZA, ENRICO FERMI

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Enrico Fermi è stato giudicato il più grande scienziato italiano dopo Galileo Galilei, al pari di Alessandro Volta e Guglielmo Marconi. A sostegno di questa affermazione, già basta l’affermazione che il Prof. Giulio Pittaluga – ordinario di geometria descrittiva nell’Università di Roma – diede sul giovane Enrico dopo il compito di ammissione alla Scuola Normale Superiore di Pisa, rimanendo strabiliato:

nella sua lunga carriera non aveva mai incontrato uno studente con capacità dottrinali così straordinarie e si disse certo che sarebbe diventato un importante scienziato.

Fermi fu l’ultimo scienziato a operare in modo eccelso, nella sua disciplina, a livello sia teorico sia sperimentale, e a dominare ogni aspetto, dalla fisica nucleare all’astrofisica, dalla fisica delle particelle alla geofisica. 

Con la sua scomparsa sparì l’ultimo fisico che abbia dominato tutta la disciplina, sia teorica che sperimentale e non è da attendersi che si possa vederne l’uguale in avvenire. L’uomo che sapeva tutto.

Enrico Fermi nacque a Roma il 29 settembre 1901, da Alberto e da Ida de Gattis. Anche se Enrico venne battezzato, né a casa né a scuola ricevette un’educazione religiosa e rimase indifferente a ogni religione, filosoficamente agnostico per tutta la vita.

Enrico fu scolaro modello. Fin da bambino nutrì un grande interesse per la fisica e la matematica; frequentò il ginnasio-liceo Umberto a Roma. Successivamente si iscrisse all’Università e concorse per un posto alla “Scuola Normale Superiore” di Pisa. Subito dopo la laurea, nel 1922, Fermi fu presentato a Orso Mario Corbino –  siciliano di Augusta, direttore dell’Istituto fisico di Roma, senatore, ministro della Pubblica Istruzione e dell’Economia con Mussolini, pur non essendo iscritto al partito fascista. Corbino aveva un grande disegno: quello di far risorgere la fisica in Italia Egli comprese che Fermi era l’uomo giusto per realizzare il suo progetto e lo protesse, incoraggiò e aiutò costantemente.

Nacque la Scuola fisica romana, i cosiddetti “ragazzi di via Panisperna” All’Istituto vi era l’uso di dare soprannomi ricavati da storie varie; oltre a quelli già ricordati, Fermi era “il Papa”, Corbino “il Padreterno”, Rasetti quando non era “Venerato Maestro” diventava “Cardinal Vicario”, Segrè era qualche volta “Basilisco”, qualche volta “Prefetto alle biblioteche”; Majorana veniva spesso definito “il Grande Inquisitore” e così via.

Fermi ebbe per Corbino venerazione del discepolo, che andò sempre crescendo negli anni. Orso Mario era molto abile, ma ciò che lo distingueva radicalmente dai tanti politicanti universitari era l’elevatezza dei suoi fini e la sicurezza del suo giudizio. 

Per valutare l’uomo e lo scienziato Corbino riportiamo la commemorazione del Presidente del Senato, nel 1937. “…Non par vero che siano venuti a mancarci imprevedutamente quella ribollente  energia di vita ancora così giovanile, quel tesori di ingegno tanto preziosi e originale, che, lungi dall’esaurirsi nel severo lavoro della cattedra e del gabinetto, e in molteplici e importanti attività scientifiche e tecniche al servizio dello Stato… Il nome del principe della fisica contemporanea resterà legato alla purezza adamantina delle intenzioni, visione chiara e costante dei fini della Patria che ispirarono ogni suo atto…”

Nel 1938 fu assegnato a Fermi il Nobel per la fisica, con la seguente motivazione: “per la scoperta di nuove sostanze radioattive… e del potere selettivo dei neutroni lenti”. Dopo Stoccolma, Fermi il 24 dicembre 1938 salpò da Southampton sul Franconia diretto a New York. Questa partenza segnava la fine di un’epoca memorabile per la fisica e la scienza italiana, a seguito delle leggi razziali.

Negli Stati Uniti, dopo aver lavorato alla Columbia University, si trasferì a Chicago dove, nel 1942, entrò in funzione la prima pila nucleare, progettata e costruita da Fermi, Nel 1944 si trasferì a Los Alamos e lavorò allo sviluppo delle applicazioni belliche dell’energia nucleare. Dopo la guerra rientrò all’Università di Chicago, dove creò una nuova fiorente scuola scientifica, che si impose a livello mondiale per vari decenni. Rivisitò l’Italia, nel 1954, per tenere un indimenticabile corso sulla fisica dei pioni a Varenna, ma era ormai gravemente malato.

Il suo ultimo contributo riguarda, infine, gli studi sulla nascita dei calcolatori, e sulle loro applicazioni a problemi di alta complessità matematica (come l’origine della turbolenza) cui Fermi si dedicò nell’ultimo anno di vita. Rientrato negli USA fu. sottoposto a intervento chirurgico esplorativo per tumore maligno inoperabile allo stomaco. Fermi mori, ad appena 53 anni, il 29 novembre 1954.

I suoi capolavori furono la statistica quantistica; la teoria dei raggi beta, con l’introduzione di una nuova forza della natura, l’interazione debole con una sua innovativa costante universale; il lavoro sui neutroni, culminante nella liberazione dell’energia atomica, una pietra miliare nella storia dell’umanità.

Anche la medicina deve un tributo a Fermi, Rasetti, Segrè e alla scuola fisica romana. Gli studi di Fermi svilupparono, infatti, il settore delle discipline fisico-nucleari applicate alle scienze mediche; le ricerche sui metabolismo umano; l’applicazione delle sostanze radioattive artificiali nella diagnostica e terapia medica. Fermi – con grande lungimiranza – aveva intuito “promettentissimi inizi”, sull’applicazione delle sostanze radioattive artificiali, quali indicatori per lo sviluppo delle reazioni chimiche e del metabolismo, e sull’utilità della sostituzione delle sostanze radioattive artificiali a quelle naturali per gli usi terapeutici. Nascevano la moderna radiobiologia e la medicina nucleare. 

Dopo le sue grandi scoperte Fermi, anche nell’età matura si interessò di computers e di meccanica quantistica – che ha trasformato ogni aspetto di scienza, biologia, astrofisica – senza della quale oggi non vi sarebbero dispositivi elettronici, cellulari, Google e mondo digitale. 

I nuovi orizzonti dell’astrofisica hanno posto il quesito se siamo soli nell’universo. “Ma dove sono tutti quanti?” Così pare che abbia esclamato il fisico Fermi riflettendo sul fatto che, dato l’enorme numero di stelle che popolano l’Universo, dovrebbero essere numerosissime anche le civiltà extraterrestri. Anche in questo settore un antesignano dotato di insaziabile curiosità di conoscere. Caratteristica principale del grande uomo di scienza.

Adelfio Elio Cardinale

ORSO MARIO CORBINO, CONDOTTIERO DELLA GRANDE FISICA IN ITALIA

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Pietro Cignolini – genovese, scienziato di fama internazionale – professore a Messina e Palermo, maestro di tutti i radiologi della Sicilia, affermava che la “salinità mentale” dei siciliani non ha il pari in nessuna parte del mondo. Orso Mario Corbino è testimonianza paradigmatica di tale asserzione.

Fisico e uomo politico, raccolse attorno a sé un gruppo di giovani eccelsi scienziati, le cui scoperte mutarono le idee del mondo grazie allo sfruttamento dell’energia nucleare. Orso Mario Corbino nacque ad Augusta il 30 aprile 1876 da Vincenzo e Rosaria Imprescia, secondo di sette figli: anche il quarto dei fratelli, Epicarmo, fu uomo d’ingegno, divenne noto economista, professore all’Università di Napoli e – per un certo periodo, dopo la seconda guerra mondiale – ministro del Tesoro.

Corbino frequentò il liceo a Catania e si iscrisse all’Università di quella città: vi rimase solo un anno perché un amico e concittadino, lo persuase ad andare nella capitale dell’isola, dove avrebbe incontrato una scuola migliore.

A Palermo Orso Mario completò gli studi sotto la guida di Damiano Macaluso, uomo colto, autore di un buon testo di termodinamica, che conosceva bene le lingue e aveva rapporti con i principali fisici europei. Conseguita a soli vent’anni la laurea in fisica, Corbino andò a insegnare per qualche mese a Catanzaro, ove risiedeva il fratello carabiniere, ma tornò presto a Palermo ove fu docente per cinque anni al liceo Vittorio Emanuele.

Al tempo stesso frequentava il laboratorio di Macaluso ove svolgeva ricerche. Nel 1898, insieme a Macaluso, scoprì un effetto rotatorio indicato oggi come effetto Macaluso-Corbino riuscendo così ad acquistare, a circa ventidue anni, una reputazione internazionale. 

La lungimiranza, l’intuizione e la capacità scientifica di Corbino gli fecero comprendere l’importanza dei raggi X da poco scoperti. Egli fece acquistare un apparecchio radiologico, unico in una università italiana, insieme a Genova. Con Macaluso e con il clinico chirurgo Tansini fu mostrata a studenti, fisici e medici la sensazionale nuova invenzione. Il 15 gennaio 1896 il “Giornale di Sicilia” pubblicò l’articolo: “Una meravigliosa scoperta. La fotografia attraverso i corpi opachi.”.

In breve conseguì la libera docenza in Fisica sperimentale ed ebbe l’incarico di Matematica per i chimici. Apprezzato dal prof. Augusto Righi, allora reputato il massimo tra i fisici italiani, Corbino ebbe da questi manifestata stima ed amicizia: da allora la sua carriera si svolse rapida e brillante.

Corbino nel 1904 vinse due concorsi universitari, per elettrotecnica e fisica: optò per la fisica e divenne professore a Messina; scampato al catastrofico terremoto, che distrusse quella città, fu chiamato dall’Ateneo di Roma, per iniziativa del senatore prof. Pietro Blaserna.

Nominato senatore da Giolitti nel 1920; nel 1921 entrò per la prima volta nel governo come ministro della Pubblica Istruzione; nel 1923 fu nominato da Mussolini ministro dell’Economia Nazionale, pur non essendo iscritto al partito fascista, né allora, né successivamente, a testimonianza della sua indipendenza intellettuale. 

Corbino fu maestro e protettore di Fermi, creando la scuola fisica romana, ben nota con la dizione di “ragazzi di via Panisperna”, con riferimento a Segré, Amaldi, Rasetti, Majorana, Pontecorvo. In questo cenacolo accademico i professori erano chiamati con icastici soprannomi: Corbino era il celebre “padreterno”. Fu socio dell’Accademia dei Lincei, dell’Accademia d’Italia, dell’Accademia di Scienze Lettere e Arti di Palermo; presidente della Società italiana di fisica dal 1914 al 1919; presidente onorario della Società italiana di radiologia dal 1922 al 1936.

La lucidità mentale di Corbino trova sintesi icastica nel discorso inaugurale tenuto nel IV Congresso nazionale di Radiologia, a Bologna nel 1922: “Si è detto che nelle scienze le nozioni si distinguono in due grandi categorie: quelle che si apprendono e quelle che si comprendono”.

Era sua caratteristica saper raggiungere risultati importanti con mezzi semplicissimi. Fu forse l’unico in Italia ad aver compreso il significato straordinario della rivoluzione della nuova fisica dei “quanti”, da lui chiamati frammenti di energia.

La sua intelligenza scientifica era eccezionale. A queste doti dell’intelletto univa qualità umane non comuni. Egli diresse l’Istituto di fisica dell’Università principalmente a vantaggio degli allievi, tenendo sempre di mira i più elevati interessi della ricerca e della cultura nel nostro paese. Egli, purtroppo, mori giovane all’età di 61 anni, in seguito a una polmonite nel 1937.

Le sue splendide doti di uomo e di scienziato furono sintetizzate dal suo primo allievo, futuro Premio Nobel, Enrico Fermi: ” Credo di potere affermare che questi sentimenti siano comuni a tutti quanti lo hanno avvicinato: la sua affabilità, il modo intelligente ed arguto con cui riusciva talvolta a dire anche verità spiacevoli senza menomamente offendere, la sua assoluta sincerità, il reale interesse che Egli  provava per le questioni sia scientifiche che umane gli conquistavano subito simpatia e ammirazione”.

Le successive leggi razziali e la sconfitta italiana nella seconda guerra mondiale distrussero la eccelsa comunità dei “ragazzi di Panisperna”. Furono necessari lunghi e tormentosi anni per riscostruire la Fisica italiana.

Adelfio Elio Cardinale