ROMA (ITALPRESS) – Una terribile crisi causata dalla presenza di trappole sta decimando la fauna selvatica nel Sud-Est asiatico e aumenta il rischio di trasmissione di nuove zoonosi all’uomo.
A raccontarlo un nuovo rapporto del Wwf, che per la prima volta stima il numero di trappole presenti nelle aree protette di diversi Paesi nella regione. Si stima, infatti, che 12,3 milioni di trappole stiano minacciando la fauna selvatica nelle aree protette di Cambogia, Laos e Vietnam, un gruppo di Paesi che, secondo il report “Silence of Snares” – “Il silenzio delle trappole: la crisi del Sud-Est asiatico”, sono protagonisti di una terribile crisi all’interno della regione. Queste trappole rudimentali, spesso realizzate con fili o cavi di ferro, aumentano le possibilità di contatto diretto tra l’uomo e la fauna selvatica, e quindi la probabilità del verificarsi di nuove gravi zoonosi. I ricercatori, infatti, hanno identificato molti degli animali presi di mira da queste trappole, fra cui il cinghiale, lo zibetto delle palme e il pangolino, come quelli con più possibilità di essere vettori di zoonosi. Istigate in gran parte dalla domanda nelle aree urbane di carne di animali selvatici, spesso considerata una prelibatezza, le trappole colpiscono più di 700 specie di mammiferi terrestri della regione, comprese alcune delle specie più minacciate, come l’elefante asiatico, la tigre, il saola o pseudorice (uno degli erbivori più minacciati del pianeta) e il banteng (chiamato anche bue della Sonda). I lacci uccidono e mutilano senza distinzione gli animali, che a volte possono soffrire per giorni o settimane prima di morire per le gravi ferite riportate e, nel raro caso in cui un animale riesca a scappare, spesso muore poco dopo a causa delle infezioni provocate dalle ferite stesse. In uno dei più importanti territori delle tigri nel Sud-est asiatico, il Belum-Temengor, in Malesia, è stato registrato un calo del 50% del numero di tigri nel periodo 2009-2018, dovuto in gran parte alla presenza di queste trappole. “Uccidendo e mutilando in maniera indiscriminata, le trappole stanno spazzando via la fauna selvatica del Sud-Est asiatico: dalle tigri agli elefanti, dai pangolini agli zibetti delle palme, e stanno svuotando le foreste. Queste specie non hanno alcuna possibilità di sopravvivere, a meno che i governi del Sud-Est asiatico non affrontino con urgenza questa crisi, in primis per le tigri”, ha detto Stuart Chapman, leader del programma Wwf ‘Tigers Alive Initiativè. Secondo i ricercatori la rimozione dei lacci mortali non è sufficiente. I governi del sud-est asiatico devono rafforzare e migliorare l’applicazione delle leggi nazionali, affinchè rappresenti un efficace deterrente contro questa barbara pratica, oltre a coinvolgere le popolazioni indigene e le comunità locali e convincerle a collaborare per fermare questa minaccia.
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Milioni di trappole minacciano animali selvatici nel sud-est asiatico
Le sfide delle isole minori per la sostenibilità
ROMA (ITALPRESS) – Fonti rinnovabili, efficienza energetica, depurazione delle acque, recupero e riciclo dei materiali: le isole minori potrebbero essere il regno della sostenibilità, territori all’avanguardia rispetto alla gestione delle sfide che il riscaldamento globale ci pone. L’Italia, in primis, avrebbe molto da guadagnare dalle enormi potenzialità di innovazione e turismo ambientale che le sue isole minori offrono. Purtroppo, il divario tra le possibilità e la situazione di fatto è enorme: le nostre 27 isole minori abitate risultano attualmente fra i territori meno virtuosi dal punto di vista della gestione del territorio. Per cercare di invertire la rotta, Legambiente e l’Istituto sull’Inquinamento Atmosferico del CNR (CNR-IIA) hanno promosso l’osservatorio Isole Sostenibili e presentato il loro rapporto annuale sul tema. Le 27 isole minori abitate analizzate nel dossier sono, suddivise per regione: Capri, Ischia, Procida per la Campania; Capraia, Isola del Giglio, Gorgona, Isola d’Elba per la Toscana; Ponza e Ventotene per il Lazio; Isole Tremiti per la Puglia; Pantelleria, Lampedusa, Linosa, Favignana, Marettimo, Levanzo, Ustica, Lipari, Vulcano, Stromboli, Panarea, Filicudi, Alicudi, Salina per la Sicilia; Sant’Antioco, San Pietro, Maddalena per la Sardegna. Di queste, 20 risultano ancora non interconnesse alla rete elettrica nazionale (Isole Pelagie, Isole Egadi, Isole Tremiti, Isole Eolie, Ponza, Ventotene, Ustica, Capraia, Isola del Giglio, Gorgona). Tra quelle interconnesse, Capri è l’ultima arrivata, nel 2017. Il solare fotovoltaico rimane la fonte rinnovabile più diffusa sulle isole, mentre le installazioni di micro-eolico risultano invariate rispetto al 2018 (è presente solo a Pantelleria e Sant’Antioco). In termini relativi, nessuna delle isole non interconnesse arriva al 5% della copertura del fabbisogno elettrico da fonti energetiche rinnovabili. Il valore massimo si registra a Ventotene, con il 4,91%, seguita dalle isole Egadi con il 2,44%. La media è inferiore al 2%. Caso a parte l’Isola di Capraia: sull’isola è in funzione una centrale da 3.2 MWe di potenza, alimentata a biodiesel di importazione derivante dalla lavorazione di olio di soia, girasole e colza. La scarsità delle risorse idriche costringono le isole a dipendere dal trasporto attraverso bettoline o da impianti di desalinizzazione per i fabbisogni. Mentre Capri, Ischia, Procida e La Maddalena si riforniscono interamente tramite condotte sottomarine, per la ridotta distanza dalla terraferma. Obiettivo degli interventi dovrebbe essere di ridurre i consumi, recuperando gli sprechi e le perdite nella rete di distribuzione. Inoltre, si dovrebbe puntare a ripristinare e realizzare nuove vasche di raccolta delle acque piovane per utenze domestiche e agricole, metodo antico ed efficace ma caduto in disuso, insieme a sistemi di depurazione delle acque grigie per il riutilizzo in tutti gli usi compatibili. Dovrebbe essere formulata una strategia programmatica di sostituzione del trasporto via nave con sistemi di dissalazione sempre più efficienti, a basso impatto ambientale ed alimentati da fonti rinnovabili. Altra questione: la totale assenza o inadeguatezza dei sistemi di depurazione delle acque reflue. Una delle voci più elevate nel bilancio delle amministrazioni è il trasporto dei rifiuti indifferenziati verso gli impianti della terraferma, via nave, che si aggiunge ai costi di smaltimento. La capacità di differenziare è cresciuta, tra il 2010 e il 2018, su quasi tutte le isole (tranne a Favignana). Capri, Isola d’Elba, Maddalena, Pantelleria, Procida, San Pietro e Sant’Antioco superano sia la media di raccolta differenziata del Centro Italia del 54% che quella del Sud Italia del 46%. L’isola di Sant’Antioco (composta dall’omonimo comune e dal comune di Calasetta) risulta l’isola più virtuosa con il 79% di raccolta differenziata, seguita da Procida (73%) e Pantelleria (71%). All’opposto Ponza e Ustica con il 4 e 5% di rifiuti differenziati, e addirittura un peggioramento dell’incidenza della differenziata sul totale dei rifiuti prodotti (Ponza passa dal 6,3 al 3,5 % mentre Ustica dal 9,7 al 4,5 %).
Infine, in tema di mobilità, la finalità dovrebbe essere quella di bloccare l’accesso di auto dei non residenti nei periodi estivi, di potenziare il trasporto pubblico e incentivare i mezzi elettrici, specie se integrati in una rete di trasmissione e ricarica elettrica intelligente e alimentata da fonti rinnovabili. Il problema dei dislivelli presenti in molte isole è facilmente risolvibile attraverso le biciclette elettriche a pedalata assistita, anche queste associabili a stazioni di ricarica puntuali, lungo le ciclabili.
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Al via progetto Wwf e Intesa Sanpaolo per la cura delle api
ROMA (ITALPRESS) – WWF e Intesa Sanpaolo hanno avviato una sinergia per aiutare l’ambiente. All’interno di questo percorso, che si integra nella strategia di supporto al terzo settore dell’azienda, è nato il progetto “Diamo una casa alle api” per sostenere la salvaguardia degli impollinatori, indispensabili per la vita sulla Terra. Attraverso For Funding, la piattaforma di crowdfunding creata da Intesa Sanpaolo per mettere insieme persone e organizzazioni che propongono progetti concreti per costruire un futuro migliore, sarà possibile sostenere il lavoro del WWF per fare in modo che nel nostro futuro continuino ad esserci le api e tutti gli altri impollinatori, un tassello fondamentale della nostra sicurezza alimentare. Inoltre, Intesa Sanpaolo contribuirà in prima persona al progetto con una donazione per ogni mutuo Green e per ogni prestito Green erogato.
L’impollinazione rappresenta uno dei servizi ecosistemici più importanti forniti dalla Natura per il benessere umano e per la nostra economia. Delle circa 1.400 piante che nel mondo producono cibo e altri prodotti, quasi l’80% richiede l’impollinazione da parte di animali. In Europa l’84% delle principali colture coltivate per il consumo umano, come molti tipi di frutta e verdura, hanno bisogno dell’impollinazione degli insetti per migliorare la qualità ed i rendimenti dei raccolti. Considerando le sole api selvatiche si tratta di un vero e proprio esercito di oltre 20.000 specie che insieme garantiscono l’impollinazione dei fiori da cui dipende il 35% della produzione agricola mondiale. Oggi più del 40% delle specie di invertebrati, in particolare api e farfalle, rischiano di scomparire per sempre a causa dell’agricoltura intensiva e della crescente urbanizzazione, in quanto diventa sempre più difficile per loro trovare luoghi dove poter nidificare. Si stima che negli ultimi 30 anni abbiamo perso il 75% delle api. Prendersi cura delle api e degli altri impollinatori vuol dire prendersi cura del nostro cibo.
Grazie al sostegno ricevuto da chi parteciperà al progetto di crowdfunding, WWF Italia realizzerà in almeno 20 Oasi WWF aree per l’alimentazione degli impollinatori attraverso la semina di piante nettarifere in aree dedicate, collocherà in orti, parchi urbani e Oasi delle Case delle Api o “Bee Hotel”, rifugi specifici per api e altri insetti per favorire la nidificazione ed infine posizionerà alcune camere trap per misurare le abitudini delle api e la manutenzione periodica delle aree affinchè possano essere sempre accoglienti per gli impollinatori e visitabili dagli ospiti delle Oasi.
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Effettuato con successo primo test sul “semaforo dei terremoti”
ROMA (ITALPRESS) – Eseguito con successo il primo test sul “semaforo dei terremoti”, un modello messo a punto lo scorso ottobre da Laura Gulia e Stefan Wiemer del Servizio Sismologico Svizzero (SED), in grado di interpretare statisticamente in maniera predittiva la variazione del b-value, cioè del parametro che esprime la relazione tra frequenza e magnitudo dei terremoti. Tale modello è basato su analisi sistematiche di sequenze sismiche accadute in tutto il mondo per fornire una risposta in tempo reale sulla base di un codice di allerta (caratterizzato dai colori verde, arancio e rosso). Il test, condotto da un team di ricercatori del SED e dell’Università di Bologna in collaborazione con l’Ingv, si è svolto attraverso l’implementazione del modello in near-real-time, cioè a posteriori ma utilizzando i dati preliminari alla sequenza sismica californiana di Ridgecrest del luglio del 2019 che erano disponibili all’epoca in real-time. Compito dell’Ingv nello studio è stato quello di ricostruire, nelle fasi iniziali dell’analisi della sequenza, le possibili sorgenti sismogenetiche dei due eventi principali: il terremoto di magnitudo 6.4 del 4 luglio 2019 e il successivo mainshock, ovvero l’evento sismico principale, di magnitudo 7.1 del 6 luglio 2019.
“Abbiamo analizzato la relazione tra distribuzione sul territorio e magnitudo dei terremoti, conosciuta come Gutenberg-Richter, la cui pendenza fornisce un parametro noto in sismologia come b-value, e le sue variazioni spazio-temporali sul piano di faglia”, spiega Gianfranco Vannucci, ricercatore Ingv che ha collaborato allo studio. “Una diminuzione del b-value dopo un terremoto di magnitudo superiore a 6 corrisponde ad un’allerta che varia da ‘aranciò a ‘rossò”. Nella riproduzione delle condizioni real-time “abbiamo ricostruito il piano di faglia del terremoto di magnitudo 6.4 dopo le prime 24 ore e poi utilizzato i dati preliminari per iniziare a valutare le variazioni temporali del b-value. Stesso procedimento dopo l’evento di magnitudo 7.1. Il modello – aggiunge – ha identificato con successo le due scosse: la prima come foreshock (allerta rossa), la seconda come mainshock (allerta verde)”. Nel modello è stata anche un’analisi sulla sensibilità del b-value al variare sia della magnitudo di completezza, il valore di soglia minimo per la selezione dei dati, sia del “no-alert-time”, cioè l’intervallo di tempo, immediatamente successivo agli eventi di magnitudo maggiore, nel quale non è possibile ben distinguere sui sismogrammi i numerosi terremoti che si susseguono. Attraverso una mappatura delle variazioni del b-value, gli autori hanno individuato con successo anche l’area di enucleazione del futuro mainshock del 6 luglio. Dopo tale scossa, infatti, il b-value è aumentato dando un segnale da semaforo ‘verdè, che indicava l’oramai avvenuto mainshock. L’analisi condotta utilizzando i dati preliminari del network sismico della California è stata ripetuta anche con i dati ad alta risoluzione pubblicati alcuni mesi dopo. I risultati iniziali sono stati confermati consentendo di ridurre sia il no-alert-time sia il valore della magnitudo di completezza.
Ciò ha dimostrato, ai fini dell’applicazione del modello, l’importanza di una fitta rete sismica che renda disponibili raccolte di dati ad alta risoluzione, ovvero con eventi ben localizzati e di piccola magnitudo. Tale modello, allo stato, non è ancora applicabile ovunque nel mondo nè per terremoti che avvengono in mare.
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Nasce l’orto hi-tech per coltivare sulla Luna e ai Poli
ROMA (ITALPRESS) – Un orto hi-tech per coltivare micro-verdure sulla Luna e in ambienti estremi come quelli polari, allestito all’interno di una speciale ‘serra igloò progettata per resistere a temperature molto basse. Ma anche missioni spaziali simulate grazie a tecniche avanzate di realtà virtuale immersiva.
E’ la sfida di V-GELM (Virtual Greenhouse Experimental Lunar Module) il progetto sperimentale che prenderà il via da domani fino al 19 luglio nel Centro Ricerche Casaccia con l’obiettivo di sviluppare un modulo di coltivazione lunare abbinando tecniche di coltivazione idroponica innovative a esperimenti virtuali per il supporto alla vita degli astronauti nelle future missioni di lungo periodo. Il progetto verrà realizzato da un team di ricercatori Enea e di studenti del Centro Interdipartimentale Territorio Edilizia Restauro Ambiente (CITERA) e delle Università Sapienza di Roma e della Tuscia. V-GELM è stato selezionato tra i migliori progetti condotti da team universitari provenienti da tutto il mondo nell’ambito della missione IGLUNA 2020 dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA). Nello specifico, il progetto si articola in due fasi: la prima ha visto impegnati studenti e ricercatori, in collaborazione con Mars Planet Society, nella progettazione architettonica e funzionale degli spazi simulata tramite tecniche immersive di realtà virtuale. Nella seconda entrerà in campo Hort l’innovativo orto dell’Enea dove verrà sperimentata la coltivazione idroponica di due particolari varietà di ravanello, Daikon e Rioja, all’interno di una particolare tenda denominata “EGG” per la sua particolare forma a uovo, realizzata dall’Università degli Studi di Milano. Il modulo sviluppato da Enea nell’ambito del progetto Hortspace, finanziato dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), consiste in un sistema di coltivazione idroponica multilivello a ciclo chiuso di 1 m3 con illuminazione LED dove vengono coltivate le diverse specie di micro-verdure, appositamente selezionate per raggiungere lo stadio di crescita ideale alla consumazione nel giro di 10-15 giorni. “Si tratta di un sistema di coltivazione fuori suolo con riciclo di acqua, senza l’utilizzo di pesticidi e di agrofarmaci, in grado di garantire ai membri dell’equipaggio impegnato nelle missioni spaziali cibo fresco di alta qualità e corretto apporto nutrizionale – spiega Luca Nardi del Laboratorio Biotecnologie Enea – senza dimenticare il beneficio psicologico dato dalla crescita delle piante in ambienti confinati, come quelli delle future basi extraterrestri o anche in ambienti estremi, come i deserti caldi e freddi”.
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Per l’Arpa buona qualità dell’aria in Friuli Venezia Giulia
TRIESTE (ITALPRESS) – In Friuli Venezia Giulia la qualità dell’aria è buona. Lo certifica la relazione annuale, redatta da Arpa in base ai criteri fissati a livello nazionale ed europeo dalla normativa di settore. Il report, che prende in esame i dati del 2019 e li incrocia con quelli del quadriennio precedente, consente di evidenziare i cambiamenti strutturali intercorsi dal 2015 a oggi e di analizzare, grazie alla riclassificazione del territorio regionale per aree omogenee, non solo la situazione complessiva bensì ogni tessera del mosaico sia sul fronte delle variazioni sistematiche che su quello delle tendenze di lungo periodo. Nello specifico, il documento sottolinea la sostanziale risoluzione dei problemi legati agli ossidi di azoto, che fino al 2014 rappresentavano ancora una criticità tale da poter sollecitare azioni disciplinari a livello comunitario, e un’ulteriore riduzione del benzene. La relazione dell’Arpa è stata presentata dall’assessore regionale alla Difesa dell’ambiente, all’Energia e allo Sviluppo Sostenibile, Fabio Scoccimarro, insieme al direttore generale di Arpa Fvg, Stellio Vatta. Da migliorare invece, secondo Arpa, le statistiche relative all’emissione di polveri sottili, in particolare nel Pordenonese e nella Bassa Friulana, e di benzoapirene, inquinante associato soprattutto alla cattiva combustione della legna. “I dati che ci troviamo a commentare – ha spiegato Scoccimarro – sono testimonianza dell’attenzione dell’amministrazione regionale sul fronte ambientale: un versante sul quale la Giunta intende investire con forza, non solo per rispettare ma addirittura per anticipare le scadenze fissate dal Green Deal europeo”. “L’obiettivo – ha rimarcato l’assessore – è di affermare il Friuli Venezia Giulia quale capofila a livello comunitario nell’uso efficiente di risorse, nello sviluppo di un’economia pulita e circolare e nella riduzione dell’inquinamento: traguardi fissati al 2050, ma che la nostra regione può ambire a tagliare entro il 2045”.
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Ambiente, ampliata l’area protetta Collina Reggiana
BOLOGNA (ITALPRESS) – Si amplia il territorio del paesaggio naturale e seminaturale protetto “Collina reggiana-terre di Matilde” in Emilia Romagna. Entrano a far parte dell’area altri 7.194 ettari suddivisi in sei aree differenti: la lunga dorsale del monte Valestra e del monte Fosola (circa 1.514 ettari) nel comune di Carpineti; il comparto delle argille mesozoiche della val Tresinaro e della media val Secchia (circa 3.333 ettari nel comune di Baiso e circa 102 ettari nel comune di Viano); il raccordo tra le rocche di Canossa e Rossena e l’alta pianura Reggiana nel comune di San Polo d’Enza (circa 1.546 ettari); il settore meridionale del torrente Dorgola (circa 140 ettari), sempre a Carpineti; il monte Venera (circa 23 ettari) nel comune di Castelnovo nè Monte e l’area del parcheggio del Parco della “Pinetina” (circa quattro ettari). Il via libera è arrivato dalla commissione Territorio dell’Assemblea legislativa. A differenza dei parchi e delle riserve naturali, i paesaggi naturali e seminaturali protetti sono aree con presenza di valori paesaggistici diffusi, d’estensione anche rilevante e caratterizzate dall’equilibrata interazione di elementi naturali e attività umane tradizionali in cui la presenza di habitat in buono stato di conservazione e di specie, risulti comunque predominante o di preminente interesse ai fini della tutela della natura e della biodiversità. L’estensione dell’area raggiunge così 29.777 ettari in 10 comuni: Casina, Vezzano sul Crostolo, Viano, Albinea, Canossa, San Polo d’Enza, Baiso, Scandiano, Vetto e Castelnovo nè Monti. “L’area è costituita anche in base ai vincoli preesistenti – spiega il direttore dell’Ente parchi Valerio Fioravanti – ha vari vincoli di tutela: ministeriali, regionali e naturalistici. L’intento del paesaggio protetto è quello dal vincolo alla valorizzazione e incremento di un’economia basata sulla sostenibilità”.
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Un “Po d’amare”, a Torino raccolti solo 63 kg di rifiuti in 4 mesi
TORINO (ITALPRESS) – Nel corso dei 4 mesi di sperimentazione del Po d’Amare a Torino sono stati raccolti 63 chili di rifiuti, dei quali circa il 60% sono imballaggi in plastica di varia tipologia. Il riciclo di tale materiale ha permesso di realizzare 10 portapenne in plastica mista che ogni partner del progetto potrà conservare a ricordo dell’iniziativa. La sperimentazione, che si è svolta tra settembre 2019 e gennaio 2020, era finalizzata a prevenire il river litter, cioè a intercettare i rifiuti nel Po tramite barriere galleggianti affinchè non arrivassero al mare salvaguardando così risorse naturali importantissime per il Paese quali fiumi, mari e spiagge.
Una raccolta di rifiuti così esigua nell’arco dei mesi di realizzazione del progetto dimostra che, laddove il ciclo dei rifiuti viene gestito rispettando la normativa in materia e secondo criteri di sostenibilità ambientale ed economia circolare, i risultati in termini di tutela delle risorse comuni sono evidenti. La sperimentazione è anche la prova che, per garantire la salvaguardia delle risorse naturali e pubbliche, è importante fare rete tra diversi enti. Tramite un’imbarcazione “Sea hunter” e operatori da terra, i rifiuti sono stati raccolti in appositi cassoni gestiti da Amiat che li ha accumulati per poi sottoporli alla analisi merceologica a cura di Corepla.
“Per una città che punta a diventare sempre più ‘green’, i risultati della sperimentazione ci consegnano quella che è una buona notizia per l’ambiente, soprattutto alla luce del quotidiano allarme sulla presenza di rifiuti plastici nei mari, nei corsi d’acqua e nei laghi”, ha commentato la sindaca di Torino, Chiara Appendino. “L’iniziativa non si limita a denunciare una problematica ma costituisce una risposta concreta alle conseguenze ambientali causate dal marine litter”, ha dichiarato Edo Ronchi, presidente della Fondazione per lo Sviluppo sostenibile. “Riteniamo i risultati del progetto Po d’Amare molto soddisfacenti, non solo per le evidenze confortanti sulla gestione dei rifiuti del territorio, ma anche sulla funzionalità stessa del nostro sistema per ridurre il quantitativo di rifiuti che raggiungono il mare”, ha sottolineato Lorenzo Barone Direttore Generale di Castalia Operations.
“Questo progetto si inserisce nel programma di attività sperimentali e innovative che Corepla porta avanti per proteggere l’ambiente – ha dichiarato Antonello Ciotti, presidente di Corepla – Siamo estremamente soddisfatti del risultato e di aver dato il nostro contributo per renderlo possibile, insieme a tutti i soggetti coinvolti nell’iniziativa. Quello che cerchiamo di fare, attraverso le nostre attività, è contribuire alla crescita di una cultura fondata sui valori dell’ambiente e del corretto riciclo delle risorse, ma per raggiungere risultati positivi è fondamentale il coinvolgimento dei cittadini nell’adozione di un comportamento corretto”. Per Christian Aimaro, presidente di Iren Ambiente e Amiat Gruppo Iren, “il Po d’Amare ha restituito risultati decisamente confortanti perchè dimostra che laddove la gestione dei rifiuti è condotta secondo criteri rigorosi di sostenibilità ambientale tutto il sistema ne beneficia. Desidero inoltre evidenziare la valenza comunicativa di questa iniziativa che sensibilizza l’opinione pubblica sull’importanza di salvaguardare l’ecosistema fiume a beneficio di tutti i territori che esso attraversa”.
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