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“Convivere con il Covid-19”, una proposta scientifica per la riapertura

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“Riteniamo che sia necessario riflettere fin da adesso su come meglio emergere dalla attuale fase di isolamento della popolazione, dalla quale pensiamo si debba uscire non appena si osserveranno due-tre settimane di un trend stabile verso un numero molto basso di contagi e morti”. È quanto si legge nel documento “Convivere con COVID-19: proposta scientifica per riaprire l’Italia, gestendo in modo sicuro la transizione da pandemia a endemia”, firmato da Roberto Burioni, professore ordinario Università Vita e Salute San Raffaele, Milano, e direttore scientifico Medical Facts; Filippo Anelli, presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri (FNOMCeO); Arnaldo Caruso, professore ordinario Università di Brescia e presidente Società Italiana di Virologia (SIV); Andrea Cossarizza, professore ordinario e vice-preside di Facoltà, Università di Modena e Reggio Emilia e presidente International Society for the Advancement of Cytometry (ICAS); Giuliano Grignaschi, professore Università Statale di Milano e presidente Research for Life; Giovanni Leoni, vice-presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri (FNOMCeO); Pier Luigi Lopalco, professore Ordinario Università di Pisa e presidente Patto Trasversale per la Scienza; Alberto Oliveti, presidente Ente Nazionale Previdenza e Assistenza Medici (ENPAM); Guido Poli, professore ordinario Università Vita e Salute San Raffaele, Milano; Silvestro Scotti, segretario generale Federazione Italiana Medici di Medicina Generale (FIMMG); Marcello Tavio, direttore Malattie Infettive Ospedale Torrette di Ancona; presidente Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali; Guido Silvestri, professore ordinario e direttore del Dipartimento di Patologia Emory University, Atlanta, editor The Journal of Virology.
‘Considerando il numero progressivamente crescente di persone infettate da SARS-CoV-2 nel mondo, quello di cui stiamo parlando è la transizione dalla fase ‘pandemica’ di COVID-19 a quella ‘endemica’ – prosegue il documento -. Dal punto di vista scientifico, ci sono almeno tre fattori chiave che possono contribuire allo scenario che prevede una prossima fine per la fase ‘acuta’ dell’epidemia. Il primo fattore, ovviamente, è l’isolamento individuale e il distanziamento sociale (oltre alle misure di igiene individuale). Il secondo fattore, tutto da valutare, è lo stabilirsi di immunità naturale verso COVID-19 in una parte importante della popolazione. Il terzo fattore, anch’esso da confermare, ma presumibilmente importante, è la stagionalità, che sappiamo valere per gli altri virus respiratori, compresi i coronavirus, che prediligono la stagione invernale”.
“Dei tre, solo l’immunità naturale ci potrà proteggere contro il ritorno del virus – ma l’efficacia e la durata di questa immunità non è ancora nota e dovrà essere monitorata nel tempo. Per cui, al momento, e non essendo disponibile un vaccino almeno parzialmente efficace contro SARS-CoV-2, l’unico modo per valutare come questi fattori hanno agito nel ridurre il numero dei contagi (e la conseguente mortalità) è quello di campionare in modo statisticamente rilevante la popolazione generale nelle varie aree geografiche del Paese, per valutare sia lo stato dell’infezione attiva, tramite tamponi diagnostici (che ricercano il virus nella saliva), che lo stato di immunità della popolazione, tramite analisi sierologiche grazie a test validati per la presenza di anticorpi specifici – prosegue il documento degli scienziati -. Se, come prevedibile, il livello di immunità specifica nella popolazione risulterà basso – l’unica strategia per “riaprire” l’Italia sarà monitorare a intervalli regolari il possibile ritorno del virus per poter “giocare di anticipo” e prevedere un piano d’azione scalabile finalizzato, per esempio di rapido ripristino delle misure di isolamento individuale e di distanziamento sociale laddove vi sia il forte rischio di un focolaio epidemico, come osservato nella presente epidemia a Codogno (Lodi) e Vò Euganeo, in cui la costituzione di una “zona rossa” ha contribuito in modo importante al contenimento dell’infezione. Se invece l’immunità acquisita spontaneamente a conseguenza della presente epidemia si mostrerà sufficientemente alta, il monitoraggio dovrà focalizzarsi nel valutare le caratteristiche generali di quest’immunità nel tempo, prevedendo d’includere il monitoraggio virologico mediante tamponi diagnostici mirati, soprattutto se la presenza di una risposta immunitaria specifica desse segni di attenuazione o d’inefficacia”.
“Per tornare gradualmente alla nostra vita di sempre, proponiamo la creazione di una struttura di monitoraggio e risposta flessibile, MRF, dell’infezione da SARS-CoV-2 e della malattia che ne consegue (COVID-19) e, possibilmente, in futuro, di altre epidemie – prosegue il documento -. Questa nuova struttura, con chiare articolazioni regionali, che prevediamo operare sotto il coordinamento di Protezione Civile (PC) e Ministero della Salute (MinSan) e il supporto tecnico dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), dovrà avere le seguenti caratteristiche generali: 1) capacità e risorse per poter eseguire un altissimo numero di test (almeno nell’ordine di molte migliaia alla settimana) sia virologici che sierologici nella popolazione generale asintomatica, con rapidissime procedure di autorizzazione da parte del Governo centrale e dai singoli governi regionali, da utilizzare in caso di segnale di attivazione di nuovi focolai epidemici. 2) Struttura di sorveglianza centrale potenziata presso l’ISS, che sia responsabile sia dell’analisi dei dati in tempo “quasi-reale”, che della loro presentazione da parte del Ministero della Salute, a frequenza regolare direttamente al Governo, al Parlamento e agli organismi sanitari sovranazionali.
3) Rafforzamento della capacità regionale di sorveglianza epidemiologica, sotto forma di centri periferici di monitoraggio a diffusione capillare sul territorio e con messa a punto di sistemi di “epidemic intelligence”, che rilevino precocemente ogni segnale di accensione di focolai epidemici. 4) Mandato legale di proporre in modo tempestivo e possibilmente vincolante provvedimenti flessibili in risposta a segnali di ritorno del virus, tra cui forme di isolamento sociale (sospensione di attività, eventi sportivi, scuole, ecc…); gestione di infetti e contatti (implementata anche attraverso l’uso di appropriate tecnologie come smart phones, apps, etc come già sperimentato a Singapore ed in Corea), potenziamento di specifiche strutture sanitarie – si legge ancora nel documento -. 5) Condivisione della strategia comunicativa con l’Ordine dei Giornalisti e i maggiori quotidiani a tiratura nazionale, nonché le principali testate radio-televisive pubbliche e private per evitare i danni potenziali sia dell’allarmismo esagerato che della sottovalutazione facilona o addirittura negazionista (utilizzando anche l’esperienza sul campo nel rapporto medico-paziente). Non sfugge, ovviamente, alla nostra attenzione che un simile ambizioso progetto di struttura di monitoraggio e risposta flessibile (MRF) al rischio di ritorno dell’infezione da SARS-CoV-2, che sia rigorosamente “data-driven”, rappresenti un investimento significativo di risorse, necessarie alla sua rapida implementazione nei prossimi quattro-sei mesi (personale, infrastruttura, test, analisi ecc…). Allo stesso modo siamo consapevoli che la creazione di questa struttura “MRF” richiederà la definizione circostanziata di un perimetro normativo entro il quale operare quanto più possibile in armonia e sinergia con le rilevanti entità politiche, amministrative, sanitarie e tecnico-scientifiche, a livello sia nazionale che loco-regionale. Il rafforzamento del sistema sorveglianza-risposta a livello sanitario dovrà essere accompagnato da un piano complessivo di limitazione del rischio di attivazione di focolai epidemici nei luoghi di lavoro e nel sistema educativo scolastico. Tale piano dovrà prevedere una profonda ristrutturazione delle procedure e delle attività, che dovranno essere ridisegnate al fine di limitare la diffusione di virus respiratori – conclude il documento -. Mentre una dettagliata valutazione economica e normativa del corrente progetto esula dallo scopo di questa prima esposizione della proposta, riteniamo tuttavia che questo possa essere un ragionevole percorso, dal punto di vista epidemiologico e virologico, per il ritorno alla normalità durante il forzato periodo di convivenza con il coronavirus che – speriamo – sarà quanto prima interrotto dall’arrivo di un vaccino”.
(ITALPRESS).

Federfarma “Abbassare al 4% l’Iva sulle mascherine”

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Dopo aver chiesto alle Amministrazioni competenti di fissare un indicatore di valore per le mascherine con eventuali riferimenti sulla percentuale da applicare rispetto ai prezzi di acquisto e di vendita, Federfarma avanza una nuova proposta per calmierare i prezzi: abbassare l’aliquota IVA su questi prodotti dal 22% al 4%.
La proposta di Federfarma – che si unisce a quella di distribuire gratuitamente in farmacia tutti i dispositivi che dovessero pervenire dal canale della Protezione Civile – “parte dalla considerazione che la necessità di approvvigionarsi delle mascherine continuerà a caratterizzare anche le fasi successive all’emergenza in atto – si legge in una nota -, sicché è ragionevole ritenere che tale materiale possa assumere la veste di vera e propria misura di profilassi al pari dei dispositivi medici destinati a soggetti affetti da menomazioni funzionali permanenti, che scontano, appunto, un’IVA al 4%”.
“Anche in questo caso – conclude la nota – Federfarma avanza una proposta concreta per venire incontro alle esigenze dei cittadini, tenuto conto del fatto che la riduzione dell’IVA non sembra poter incidere particolarmente sulle previsioni di gettito, visto che, prima dell’emergenza sanitaria in atto, la vendita delle mascherine presentava volumi ridottissimi con connessi limitati introiti IVA”.
(ITALPRESS).

Per i genomi del Sars-Cov-2 nessuna differenza dal ceppo cinese

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Un’analisi bioinformatica comparativa condotta su più di 1100 genomi virali di Sars-Cov-2 provenienti da Cina, America e Europa ha dimostrato una marcata omogeneità genetica di tutti i genomi virali analizzati. “L’assenza di evidenze che supportino l’insorgenza di diversi tipi virali più aggressivi del ceppo cinese originario fa sì che la disomogeneità riscontrata nelle diverse aree geografiche sia dovuta alla rapida diffusione di sottotipi virali diversi, importati in maniera indipendente nei diversi continenti”. Questi i risultati dello studio condotto da un team di ricercatori associati all’Istituto di biomembrane, bioenergetica e biotecnologie molecolari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ibiom) di Bari insieme al Dipartimento di bioscienze dell’Università Statale di Milano e al Dipartimento di bioscienze, biotecnologie e biofarmaceutica dell’Università di Bari. Il lavoro, pubblicato in anteprima sulla rivista online bioRxiv di Cold Spring Harbor Laboratory (Usa), è stato realizzato con il supporto della piattaforma bioinformatica Elixir del nodo italiano dell’infrastruttura di ricerca europea per le scienze della vita, coordinata da Graziano Pesole ricercatore del Cnr-Ibiom e docente dell’Università di Bari.
“I risultati della ricerca hanno identificato almeno otto sottotipi virali distinti con una diversa prevalenza in differenti regioni del nostro pianeta. Tre distinti sottotipi di virus comprendono più del 70% di tutti i genomi virali finora sequenziati, mentre due soli sottotipi virali annoverano il 72% e il 74 di tutti i virus isolati in Europa e in America – spiega Pesole -. Tutti i sottotipi virali definiti sulla base del confronto delle sequenze del genoma, sembrano avere una comune origine in Cina, anche se provenienti da focolai distinti. Benché ciascun ceppo presenti una sequenza genomica caratteristica, il numero limitato delle variazioni osservate e il fatto che queste sono concentrate in regioni non codificanti proteine, suggeriscono che le differenze tra i diversi genomi non evidenziano un processo di evoluzione del ceppo virale, e che quindi non risultano responsabili dell’origine di un ceppo virale mutato e potenzialmente più virulento. Questo consente di mettere a fattor comune, su scala internazionale, gli studi in corso per mettere in campo approcci terapeutici mirati e vaccini efficaci”, conclude.
(ITALPRESS).

L’ospedale Forlanini e amare riflessioni

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Il dramma del Coronavirus che l’Italia sta vivendo desta rabbia, amarezza e rammarico per i tanti ospedali che, per una dissennata politica sanitaria, sono stati chiusi e abbandonati. In particolare, merita speciale risalto la chiusura da anni, con conseguente degrado, dell’ospedale Forlanini di Roma, allocato di fronte allo Spallanzani. Queste due strutture se funzionalmente unite sarebbero state un polo di riferimento Covid-19 senza pari nel nostro Paese. Il megaospedale fu costruito negli anni ’30 del secolo scorso per volontà del professore Eugenio Morelli, cattedratico di malattie respiratorie a Roma, che Cesare Frugoni – il più celebre medico italiano del XX secolo – definì “sorgente di luce” propulsore e capo della lotta antitubercolare, battaglia che dominò con alta competenza tecnica e concretezza di azione, lavorando per il futuro e mirando in alto e lontano. In quegli anni l’Italia fu esempio nel mondo della battaglia contro la Tbc. Una vera e propria lotta di redenzione igienica per debellare il “mal sottile”, in un’epoca in cui cultura e abitudini sociali impedivano di pronunciare il vero nome di questa malattia, che veniva nascosta a parenti e amici, quasi fosse un morbo immondo.

In quegli anni in Italia il numero di morti per tisi scese da 65.000 a 35.000. Il 1° dicembre 1934 fu inaugurato il più grande istituto del mondo per lo studio e la lotta contro la tubercolosi: a un tempo ospedale e scuola accademica. Il sanatorio-istituto ospitava 1.400 letti su una superficie di 28 ettari e conteneva aule, laboratori, gabinetti radiologici, farmacie, refettori, cucine e lavanderie, sale di lettura, abitazioni per medici e infermieri, un cinema con 800 posti. Il solo ferro occorso per il cemento armato fu di 2 milioni e 400 mila chilogrammi, pari a un terzo del peso del ferro impiegato per la costruzione della torre Eiffel. Dopo la guerra questo colosso sanitario fu intestato a Carlo Forlanini, maestro di Morelli. Forlanini “camicia rossa” di Garibaldi, divenne clinico medico nell’Università di Pavia e poi senatore del Regno. Egli inventò il pneumotorace artificiale, mediante il quale con criteri meccanicistici si realizzava la collassoterapia, cioè la messa in riposo del polmone malato – attraverso introduzione di aria – per facilitarne la guarigione. Questo fu l’unico mezzo terapeutico contro la Tbc fino alla scoperta degli antibiotici.

Si ricorreva anche alla chirurgia (con resezione costale, toraco-plastica e velario ascellare) praticata con grande capacità e padronanza in questo complesso ospedaliero e sanatoriale. Morelli fu il direttore di questo istituto-ospedale fino al 1951, cioè fino allo scadere dei limiti di età. Nell’anno dell’inaugurazione e nel 1995, in occasione del 60°della istituzione, furono stampati due volumi su storia, edificazione e realizzazione del “Forlanini”, che vengono riprodotti e mostrati a cittadini e lettori. Nel 1995 l’ospedale era stato già trasformato in Azienda Ospedaliera “Nicholas Green” – insieme ad altri due nosocomi – e il direttore generale scrisse nella prefazione: “Ancora oggi, alle soglie del Duemila, l’Ospedale Forlanini vede affermata immutata la sua importanza anche nel campo della ricerca e del trattamento delle patologie neoplastiche polmonari, della bronchite cronica ed enfisema polmonare, espressione dell’inquinamento ambientale. Know-how professionale e tecnico di cui l’Azienda Ospedaliera “Nicholas Green” è portatrice, consentirà di affrontare questa nuova “battaglia” con pieno vigore e con la certezza di raggiungere gli obiettivi da tutti desiderati”. Malgrado queste roboanti parole, da circa dieci anni l’ospedale Forlanini è stato chiuso, con conseguente disfacimento di strutture, attrezzature e arredi.

Il dramma odierno della pandemia da Coronavirus permette di constare con spietata verità i danni provocati da un’improvvisa politica sanitaria negli ultimi due decenni: deficit crescenti, ospedali abbandonati, non completati, forzatamente chiusi con totale degrado di tecnologie e infrastrutture. Il “Forlanini” è esempio paradigmatico di normative che hanno spesso funestato la salute degli italiani. Nella tragedia attuale questa struttura avrebbe potuto rappresentare, come già detto, un valido bastione contro il Covid-19. L’archistar Massimiliano Fuksas ha detto che bisogna mostrare ai cittadini il Forlanini, per comprenderne l’eccelsa qualità e il danno che ha creato alla comunità la sua chiusura, dimostrando ancora una volta che la buona salute è ancella della buona politica.

Adelfio Elio Cardinale

(ITALPRESS).

Prosegue calo della pressione sulle strutture ospedaliere

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Gli ultimi dati della Protezione civile parlano di 159.516 persone che hanno contratto il virus covid-19. I decessi sono stati 20.465 (+566 rispetto al giorno di Pasqua), sono invece 35.435 (+1244) le persone guarite. Attualmente i positivi in Italia sono 103.616 (+1363).

In terapia intensiva ci sono ancora 3.260 pazienti (-83 rispetto a ieri). I tamponi eseguiti nel Paese sono stati finora 1.046.910.

 

Coronavirus, sette richieste dagli infermieri a governo e regioni

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La Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche ha scritto una lettera a Giuseppe Conte, presidente del Consiglio, Roberto Speranza, ministro della Salute e Stefano Bonaccini, presidente della Conferenza delle Regioni. Una lettera che spiega in sette punti “le necessità per ristabilire equità, multidisciplinarietà vera e giustizia dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro, anche a favore di quei servizi che proprio nell’emergenza si sono dimostrati più carenti se non spesso inesistenti. Come il territorio”. E fa una richiesta: “che tutte le novità chieste per il servizio pubblico servano anche per accreditare e autorizzare le strutture private dove dovranno essere inserite e previste a questo scopo”. “Ora tutti sanno cosa sono gli infermieri, cosa fanno e quanto valgono davvero. Ora tutti hanno toccato con mano la loro professionalità, la loro disponibilità, la loro vicinanza con i cittadini e con gli assistiti, senza curarsi di turni mai interrotti, del rischio infettivo che ne ha fatto la categoria di operatori più colpiti da COVID-19 e per il quale molti hanno anche perso la vita – sottolinea Fnopi -. Lo ha riconosciuto lo stesso premier che alla Camera ha detto ‘non ci dimenticheremo di voi’. E i media gli hanno fatto eco sottolineando un profilo alto della categoria che a fronte di tutto questo percepisce stipendi medi da 1.400 euro al mese e ha difficoltà nel fare carriera per blocchi legati ad antichi e ormai obsoleti retaggi”. Ed ecco le sette richieste degli infermieri per un futuro – “come promesso” – migliore, “ma anche per poter assistere da domani, quando l’emergenza sarà passata, chi ne ha bisogno, nel modo più professionale e intenso possibile. Soprattutto sul territorio. Senza mai, come stanno già facendo durante COVID-19 – lasciare solo nessuno”: 1. Un‘area contrattuale infermieristica che riconosca peculiarità, competenza e indispensabilità ormai evidenti di una categoria che rappresenta oltre il 41% delle forze del Servizio sanitario nazionale e oltre il 61% degli organici delle professioni sanitarie. 2. Una indennità infermieristica che, al pari di quella già riconosciuta per altre professioni sanitarie della dirigenza, sia parte del trattamento economico fondamentale, non una “una tantum” e riconosca e valorizzi sul piano economico le profonde differenze rispetto alle altre professioni, sempre esistite, ma rese evidenti proprio da COVID-19. 3. Garanzie sull’adeguamento dei fondi contrattuali e possibilità di un loro utilizzo per un’indennità specifica e dignitosa per tutti i professionisti che assistono pazienti con un rischio infettivo. 4. Garanzie di un adeguamento della normativa sul riconoscimento della malattia professionale in caso di infezione con o senza esiti temporanei o permanenti. 5. Immediato adeguamento delle dotazioni organiche con l’aggiornamento altrettanto immediato della programmazione degli accessi universitari: gli infermieri non bastano, ne mancano 53mila ma gli Atenei puntano ogni anno al ribasso. 6. Aggiornamento della normativa sull’accesso alla direzione delle aziende di servizi alla persona: siamo sul territorio, dove l’emergenza ha dimostrato che non è possibile prescindere da una competenza sanitaria di tipo assistenziale a garanzia degli ospiti. Come nelle RSA ad esempio dove si stanno destinando proprio infermieri, quelli del contingente dei 500 volontari scelti dalla Protezione civile, ma anche a domicilio con cronici, anziani, non autosufficienti e così via. 7. E per questo – è la settima richiesta – dare anche agli infermieri pubblici – superando il vincolo di esclusività, un’intramoenia infermieristica già scritta anche in alcuni Ddl fermi in Parlamento che gli consenta di prestare attività professionale a favore di strutture sociosanitarie (RSA, case di riposo, strutture residenziali, riabilitative…), per far fronte alla gravissima carenza di personale infermieristico di queste strutture. Applicando anche nel caso la legge 1 del 2002) di 18 anni fa quindi) che prevedeva prestazioni aggiuntive e possibilità che altro non sono se non il richiamo in servizio di pensionati e contratti a tempo determinato utilizzati una tantum (ma indispensabili a quanto pare) per COVID-19. “Ovviamente la Federazione – dice Barbara Mangiacavalli, presidente FNOPI – è pronta a dare tutto il supporto necessario alle istituzioni per realizzare queste richieste nel modo migliore, più equo, ma anche più rapido possibile. Per ridisegnare un servizio sanitario, sia pubblico che privato, efficiente e preparato più di quanto il nostro si sia già dimostrato. I modi ci sono, basta volerli prendere in considerazione davvero. E che risultati daranno. oggi lo vedono tutti, purtroppo, in un’emergenza dove la volontarietà degli infermieri e la loro professionalità hanno davvero fatto la differenza. Oggi ci definiscono eroi. In realtà siamo professionisti come gli altri che credono nel proprio lavoro. Perciò queste richieste saranno la ‘nostra medaglia’”.

Menarini accanto ai medici italiani dona 700.000 mascherine

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Menarini ha donato 700.000 mascherine a tutte le Federazioni di Medicina Generale e Società’ scientifiche di Medicina generale per consentire equa e capillare distribuzione nel territorio italiano. Le mascherine sono suddivise in 400.000 di tipo N95/FFP2 e 300.000 chirurgiche.
I dispositivi stanno gia’ giungendo in centinaia di studi su tutto il territorio nazionale. Ed e’ proprio al Gruppo Menarini che Fimmg e Cittadinanzattiva rivolgono un grazie da parte dei cittadini e di una categoria, quella dei medici di famiglia, che paga un prezzo altissimo in termini di vite umane a causa del Covid-19. “E’ un ringraziamento – dice Silvestro Scotti, segretario generale Fimmg – che sento di estendere anche a tutti i dipendenti di questa e di altre aziende, che con il loro lavoro ci consentono di affrontare il virus con qualche protezione in piu'”.
“E’ importante e significativo che una industria italiana come il Gruppo Menarini abbia deciso di aderire a questa iniziativa dando un segnale concreto di vicinanza ai medici di famiglia e alle comunita’”, aggiunge Antonio Gaudioso, segretario generale di Cittadinanzattiva.
Ringraziamenti al Gruppo Menarini giungono anche da Snami- Sindacato nazionale autonomo medici italiani, attraverso il presidente Angelo Testa. “Il popolo Snami – sottolinea – ringrazia il Gruppo Menarini che sta facendo pervenire presidi molto importanti per tutelare chi combatte una difficile battaglia in corso di pandemia da Coronavirus. E’ un grande gesto a noi molto utile e per questo particolarmente gradito”.
Per Claudio Cricelli, numero uno di Simg-Societa’ italiana di medicina generale e delle cure primarie, “questa donazione incondizionata rafforza la solidarieta’ tra i professionisti della medicina generale e le aziende del settore sanitario come Menarini. Lo sforzo congiunto di tutti noi consentira’ al Paese di affrontare e superare anche questa durissima prova”.
(ITALPRESS).

Coronavirus, ancora in calo i ricoveri

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Complessivamente 147.577 persone in Italia sono risultate positive al coronavirus finora. Attualmente sono 98.273 le persone positive, con un incremento di 1.396 rispetto a ieri quando l’aumento era stato di 1.615 unità. Lo ha reso noto il capo della Protezione Civile Angelo Borrelli.
Sono 30.455 le persone guarite, con un aumento di 1.985 unità rispetto a ieri. I deceduti sono 18.849, 570 in più rispetto al dato complessivo alla data di ieri, ma questo numero potrà essere confermato solo dopo che l’Istituto Superiore di Sanità avrà stabilito la causa effettiva del decesso.
Continuano a scendere i ricoverati con sintomi, che sono ora 28.242, e in terapia intensiva, 3.497. In isolamento domiciliare 66.534 persone. I tamponi effettuati in totale sono 906.864.
(ITALPRESS).