ROMA (ITALPRESS) – In Italia c’è forte pessimismo sul futuro della salute: quasi il 40% dei cittadini è infatti convinto che la salute della popolazione sarà peggiore entro 5 anni, percentuale che raggiunge quasi il 50% nel giro di 20 anni, con un picco ulteriore tra le nuove generazioni (55%). E’ quanto emerge dall’indagine “Il futuro della salute” presentata da Novartis nel corso dell’evento “Partner per il Futuro. Reimmaginiamo la salute insieme”.
“Investire sul futuro della salute e dunque sul futuro dell’Italia è un dovere per un’azienda come Novartis, fortemente radicata nel Paese e naturalmente proiettata al domani. Contribuiamo allo sviluppo del paese ed al futuro della salute – ha detto Valentino Confalone, Country President Novartis Italia – attraverso investimenti mirati sull’innovazione, rafforzamento dei siti produttivi in Italia e partnership strategiche. Così abbiamo deciso di investire in Italia 350 milioni entro il 2025 per rafforzare la nostra attività di Ricerca & Sviluppo e quella di produzione nei poli di eccellenza di Torre Annunziata e di Ivrea. La salute del domani non si può reimmaginare da soli: così lavoriamo al fianco delle istituzioni nazionali e regionali e collaboriamo con il Consiglio Nazionale dei Giovani per integrare la visione delle nuove generazioni nella sanità del futuro”.
Dall’indagine emerge che per i cittadini intervistati i fattori che potranno incidere negativamente sul futuro della salute sono la pressione sul Sistema Sanitario Nazionale con la conseguente difficoltà ad accedere alle prestazioni sanitarie (42%), l’aumento dei tumori (38%), di malattie collegate a stili di vita errati (38%) e di disturbi come ansia e depressione (37%).
Dall’altra parte, le “speranze” degli italiani per migliorare il futuro della salute si concentrano sull’innovazione diagnostica (40%) e terapeutica (39%), sui progressi della ricerca scientifica per trattare malattie incurabili (39%), sull’avanzamento della tecnologia e della telemedicina (38%), ma anche sulla diffusione di pratiche come l’assistenza domiciliare (78%) e lo sviluppo di partnership pubblico-privato (72%).
“Alla visione negativa delle nuove generazioni rispetto al futuro della salute deve corrispondere lo sforzo di tutti gli attori del Sistema Paese per invertire la rotta. E’ un lavoro che il CNG fa quotidianamente da anni” ha spiegato Maria Cristina Rosaria Pisani, presidente del Consiglio Nazionale dei Giovani “che ora si potrà impreziosire della collaborazione con Novartis. E’ estremamente positivo che un’azienda voglia reimmaginare insieme ai giovani la salute del domani. Avvieremo un percorso che prenderà il via con alcuni tavoli di lavoro che coinvolgeranno attivamente giovani medici e ricercatori, rappresentanti dei pazienti e delle istituzioni e manager della sanità per raccogliere il loro punto di vista e le loro esigenze. L’obiettivo che ci siamo prefissi è quello di elaborare una serie di proposte durante gli Stati Generali delle Politiche Giovanili in programma all’inizio del 2024”.
Chi contribuirà a migliorare il futuro della salute? I cittadini riconoscono il ruolo fondamentale dei “Partner” chiamati a lavorare per il futuro della salute: prima di tutto i ricercatori impegnati in R&S (73%), medici e infermieri che lavorano quotidianamente sul campo (68%), ma anche i singoli cittadini attraverso una maggiore consapevolezza (65%), le aziende farmaceutiche (60%), le Istituzioni (58%) e le Associazioni Pazienti (55%).
I professionisti della sanità sono i più pessimisti rispetto al futuro della salute in Italia: infatti, il 50% e il 61% dei medici pensano che la salute della popolazione peggiorerà rispettivamente tra 5 e 20 anni (+12% e +14% rispetto alla media del campione). I medici concordano con i cittadini nel ritenere che la possibile pressione sul SSN (41%), l’aumento della frequenza dei tumori (43%), delle malattie derivanti da stili di vita errati (40%) e dei disturbi come ansia e depressione (37%) possano impattare negativamente sulla salute del domani, ma invitano a prestare attenzione anche ai rischi connessi alla carenza del personale sanitario e a episodi di burn out (35%), oltre che all’incremento delle malattie croniche (33%). Dall’altro lato, per migliorare la salute del domani, guardano con fiducia ai progressi della ricerca scientifica (43%) e ai contributi portati dalla prevenzione e delle attività di screening (42%), dalla medicina personalizzata (41%), dall’innovazione diagnostica (41%) e dalle tecnologie come la telemedicina (37%).
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Italiani preoccupati per la salute, da Novartis 350 milioni
Osservatorio Nomisma, misure urgenti per evitare la carenza di farmaci
ROMA (ITALPRESS) – Servono misure urgenti per salvaguardare la biodiversità “interna” del comparto farmaceutico ed evitare una altrimenti inevitabile carenza strutturale di medicinali. A lanciare l’allarme – dati europei e nazionali alla mano – è l’edizione 2023 dell’Osservatorio Nomisma sul ‘Sistema dei farmaci generici in Italia”, presentata oggi a Roma, presso l’Ara Pacis, con la partecipazione di rappresentanti del mondo istituzionale, del panorama industriale e degli operatori del mondo sanitario.
Focus del report il cambiamento strutturale del contesto competitivo e i conseguenti segnali di forte sofferenza del settore registrati in tutti i principali Paesi europei, messi a fuoco tramite l’analisi dei dati e delle politiche di contrasto alle interruzioni della catena di fornitura dei medicinali fuori brevetto, insieme ad una serie di interviste ai vertici europei delle aziende del settore dei farmaci generici che operano sui mercati internazionali.
I dati – illustrati da Lucio Poma, chief economist di Nomisma e coordinatore scientifico dello studio – disegnano un sistema produttivo dei farmaci generici stretto tra l’incudine dei prezzi ed il martello dei costi produttivi. Un mix che rende sempre più vulnerabili le lunghe catene di approvvigionamento gravate anche dalla dipendenza da un’unica fonte o area geografica.
La quota di produzione globale di principi attivi in Europa è scesa dal 53% del 2000 all’attuale 25%; la quota di produzione di API in Cina è sempre più aumentata fino a rappresentare oggi oltre il 20% delle nuove registrazioni; soprattutto Cina ed India forniscono ai mercati dell’Unione Europea oltre il 56% del fabbisogno di principi attivi: considerando anche i prodotti intermedi la dipendenza si acuisce raggiungendo una quota pari al 74%.
Sul versante dei costi a livello europeo, secondo i dati di Medicines for Europe, nel 2022 i costi di trasporto sono cresciuti fino al 500%; i costi della materia prima tra il 50% e il 160%; i costi del packaging tra il 20% e il 33%; i prezzi dell’energia tra il +65% del gas e il +30% dell’elettricità.
Le imprese non potendo operare sul fronte dei prezzi hanno dovuto assorbire questa impennata dei costi produttivi, riadattando i processi di approvvigionamento e comprimendo le marginalità industriali. Il risultato – nuovo e inatteso – è sotto gli occhi di tutti: c’è carenza di farmaci su diversi mercati europei.
In 10 anni sono scomparsi dai mercati europei il 26% dei farmaci equivalenti, il 33% degli antibiotici e il 40% dei farmaci oncologici; in relazione ai soli antibiotici, si è osservata la scomparsa di 16 tipologie in Polonia, 11 in Spagna e 10 in Francia; in Italia in 10 anni su due farmaci largamente utilizzati nella pratica clinica – un antibiotico e un antitumorale – il numero di fornitori è sceso rispettivamente da 10 a 3 e da 18 a 2.
Il dato è lo specchio anche del processo di consolidamento che ha coinvolto le aziende presenti nel mercato: nel 2022 il 69% dei farmaci generici commercializzati in Europa ha fatto riferimento a meno di due imprese, un ulteriore 9% solamente a tre imprese;
scendendo nel dettaglio, oggi il 56% degli antibiotici e il 70% dei farmaci oncologici fanno riferimento a meno di due imprese (rispettivamente il 52% e 67% nel 2012); in diverse tipologie di medicinali il numero di aziende produttrici è sceso drasticamente nell’ordine del 30-40%, lasciando solo un fornitore o due nella maggior parte dei Paesi.
L’impoverimento del tessuto industriale con l’uscita di alcuni operatori dal mercato e la perdita di farmaci a disposizione dei pazienti sta mettendo a nudo le fragilità del settore: ‘Non ci sono scorte di riserva nel sistema sanitario – spiega uno degli intervistati -. Ci vogliono 6-8 mesi perchè altre aziende si organizzino per produrre un medicinale se è economicamente vantaggioso. E in caso di gara d’appalto le aziende impiegano 3-6 mesi per produrre, confezionare e spedirè.
Il report analizza anche le misure implementate finora dai singoli Paesi per arginare la crescente carenza di farmaci. In Germania – dove sono generici circa l’80% dei medicinali venduti nel Paese – una normativa in vigore da luglio ha previsto un aumento fino al 50% del prezzo massimo dei medicinali per uso pediatrico e per gli antibiotici e un intervento sulle gare organizzate dalle assicurazioni sanitarie per l’acquisto dei farmaci generici: le gare per gli antibiotici dovranno essere basate su un modello multi aggiudicatario (accordo quadro) con dei lotti e relativi fabbisogni soddisfatti per una quota percentuale da farmaci con la produzione di API nell’UE e nell’area economica europea; non potranno essere fatte gare per medicinali pediatrici, per i quali sarà anche abolito il prezzo di riferimento; sarà aumentato il periodo di scorta a sei mesi per specifici farmaci acquistati in gara; sarà stabilita una lista di criticità per i farmaci pediatrici e crea un sistema di “segnalazione precoce” (early warning) per farmaci con rischio di carenze.
In Francia l’intesa raggiunta di un tavolo tecnico governativo avviato alla luce delle carenze registrate a inizio anno prevede un aumento del prezzo di alcuni farmaci, specialmente quelli generici, in cambio di garanzie industriali volte ad assicurare una fornitura sufficiente a coprire la domanda interna. Misura ritenuta insufficiente dall’associazione dei produttori di farmaci generici e biosimilari francesi, che ha ribadito la richiesta di una sostanziale riduzione per i generici della clausola di salvaguardia che impone alle aziende farmaceutiche una contribuzione nel caso in cui il loro fatturato sia cresciuto più del tasso fissato annualmente per legge.
In Italia, al tavolo di lavoro istituito in gennaio al MIMIT con la partecipazione di tutta la filiera farmaceutica, le aziende di generici e biosimilari hanno ribadito la necessità di pianificare un aggiornamento dei livelli di rimborso delle fasce dei medicinali che sono soggette ad un rischio più elevato di indisponibilità. Il MIMIT, a fine luglio 2023 ha aperto un bando con una dotazione di 391,8 milioni di euro dai fondi PNRR per lo strumento dei “Contratti di sviluppo” a sostegno dei programmi industriali delle filiere produttive strategiche, anche nelle aree del centro nord del Paese, in vari settori compreso quello chimico farmaceutico.
Aiuti di Stato: esplicitamente vietati dalla normativa europea e dal Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea in quanto possono determinare delle distorsioni del mercato, sono entrati in gioco nel contesto della pandemia con un quadro temporaneo adottato nel marzo 2020 dalla Commissione UE e rimasto in vigore fino al 30 giugno 2022 e riferito esclusivamente per la produzione di medicinali che erano correlati alla cura del Covid.
La richiesta delle aziende di settore è quella di perfezionare il quadro temporaneo rendendolo più flessibile al fine di eliminare queste limitazioni e di estendere, superando i sei mesi previsti, le tempistiche di realizzazione dei progetti di investimento. A rendere più pressante la richiesta l’adozione da parte del governo statunitense, nell’agosto 2022, dell’Inflation Reduction Act” che prevede l’erogazione di incentivi per 750 miliardi di dollari in settori specifici e che potrebbe incoraggiare implicitamente il fenomeno delle delocalizzazioni dall’Europa agli Stati Uniti delle imprese che rientrano nei settori interessati dal provvedimento per beneficiare di questi aiuti.
Appare indispensabile che l’Unione europea adotti misure specifiche a sostegno del settore farmaceutico in uno scenario economico ancora instabile e indecifrabile.
A oggi, il concetto di bene pubblico nella farmaceutica off-patent è stato esclusivamente ricondotto in tutti i Paesi UE alla riduzione dei prezzi dei farmaci attraverso il meccanismo del rimborso al prezzo più basso. ‘Una visione già obsoleta e ormai improponibilè, secondo Nomisma, che sottolinea la necessità di ‘ridisegnare il confine tra pubblico e privato, alla ricerca di un nuovo equilibrio che contemperi anche la salvaguardia e il rafforzamento del sistema produttivo, con azioni sia sul lato della domanda che dell’offertà.
Quattro le azioni da attuare sul fronte della domanda: revisione o eliminazione del payback per i farmaci fuori brevetto; di fronte alla impennata della struttura dei costi, agire sul livello di rimborso dei farmaci fuori brevetto per arrestare l’emorragia di fornitori che si sta delineando, individuando quelli con particolari condizioni di vulnerabilità oppure individuando una soglia critica di prezzo al di sotto del quale la sostenibilità industriale è compromessa; nuovi meccanismi pubblici di acquisto di farmaci in ospedale, ripensando il meccanismo di determinazione dei fornitori e del prezzo; meccanismi di incentivo e sostegno economico per mantenere in produzione i farmaci più consolidati e con meno fornitori, salvaguardando la biodiversità.
Più complesso l’intervento sul lato dell’offerta, conclude il rapporto: ‘Significa tornare ad attivare la dimenticata politica industriale del Paese lasciando alle imprese il tempo necessario per ‘crescere e amalgamarsì e offrendo una controparte burocratica amministrativa di pari efficienzà.
‘Dalla ricerca emerge evidente la sottovalutazione dell’impatto sociale del farmaco in generale e, in particolare, del farmaco generico: un eventuale shortage di questi prodotti impatterebbe direttamente e pesantemente sulla popolazione, che si troverebbe privata dei medicinali indispensabili per curare malattie anche gravi. Tanto più in una situazione geopolitica come quella attuale con una polarizzazione a blocchi del mondo, che rende estremamente difficile e incerto l’approvvigionamento di materie primè, ha affermato Maurizio Marchesini (presidente di Nomisma), che ha aperto i lavori. ‘La progressiva diminuzione – talvolta la scomparsa – dei farmaci – ha proseguito – è un fattore di alto rischio anche per il fatto che la produzione nel settore farmaceutico ha tempi diversi rispetto agli altri settori (non solo per i margini temporali necessari per riavviare la produzione, ma anche per la produzione delle macchine per il confezionamento dei prodotti, che – noi di Marchesini lo sappiamo bene – sono sottoposte a test di verifica e validazione lunghissimi): tornare a produrli richiede mesi di tempo. Ritengo – ha concluso – che siano urgenti policy mirate, anche europee, perchè vengano devolute al comparto necessarie attenzioni e risorsè.
‘Per assicurare continuità di cure a milioni di cittadini italiani per le patologie croniche è necessario scongiurare il rischio di carenze di farmaci divenuti non più industrialmente sostenibili. Dal momento che la capacità produttiva è al suo massimo, i Paesi europei competeranno sempre di più sui grandi volumi per assicurare le cure e se l’Italia non saprà guardare alle cause profonde delle carenze di medicinali essenziali, perderà questa sfidà, è il pronostico di Enrique Hausermann, presidente di Egualia.
‘Purtroppo – ha aggiunto – non ci sono in pista nel nostro Paese provvedimenti che puntino ad affrontare questo nodo cruciale. Resta dunque urgente e prioritario trovare delle forme di bilanciamento per affrontare l’esplosione dei costi produttivi per i farmaci a più basso costo, che rischiano progressivamente di scomparire dal mercatò.
‘Seppur consci del contesto macroeconomico nel quale la manovra di bilancio 2024 si sta delineando e degli sforzi che il Governo ha profuso nell’assicurare risorse adeguate al SSN, vorremmo poterci confrontare sugli interventi necessari e le modifiche normative che rimangono da fare, tanto legate alla governance farmaceutica quanto alla politica industriale, con l’obiettivo di alleggerire la pressione che da tempo sta schiacciando il nostro settore industriale, minando la capacità futura di garantire al SSN farmaci di qualità, sicuri ed efficaci a costi sostenibili – ha concluso Hausermann -. In caso contrario un comparto essenziale per la tutela della salute pubblica rischia di essere irreversibilmente compromessò.
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Colangite Biliare Primitiva, Ipsen annuncia risultati studio
PARIGI (FRANCIA) (ITALPRESS) – Ipsen ha annunciato i risultati dello studio registrativo di Fase III ELATIVE, che sono stati presentati durante l’American Association for the Study of Liver Disease (AASLD) e contemporaneamente pubblicati sul New England Journal of Medicine. Lo studio ha valutato l’efficacia e la sicurezza di elafibranor, un doppio agonista PPAR alfa,delta, in fase sperimentale, per il trattamento di persone con colangite biliare primitiva (PBC), rara malattia epatica autoimmune.
I risultati mostrano miglioramenti statisticamente significativi nei biomarcatori di progressione di malattia in tutti gli endpoint principali; relativamente all’endopoint composito primario, si è osservato un significativo beneficio del trattamento con elafibranor, con una differenza del 47% (P<0,001) in termini di risposta biochimica, nei pazienti trattati con elafibranor 80 mg (51%) rispetto ai pazienti trattati con placebo (4%). Nello studio, una risposta biochimica è definita come fosfatasi alcalina (ALP) <1,67 volte il limite superiore di normalità (ULN), diminuzione dell'ALP maggiore o uguale al 15% e bilirubina totale (TB) minore o uguale ULN a 52 settimane. ALP e BT sono riconosciuti quali importanti predittori della progressione della PBC.
La riduzione dei livelli di entrambi questi parametri può indicare un miglioramento del danno colestatico e un beneficio nella funzionalità epatica.
Solo i pazienti trattati con elafibranor hanno raggiunto la normalizzazione dell’ALP (limite superiore di 104 U/L nelle femmine e 129 U/L nei maschi) alla 52° settimana (15% vs 0% placebo, P=0.002), un endpoint secondario chiave dello studio. L’effetto biochimico significativo di elafibranor misurato attraverso la riduzione dell’ALP è stato ulteriormente supportato da dati che dimostrano che le riduzioni dei livelli di ALP rispetto al basale nel gruppo elafibranor sono state rapide, evidenti già alla 4a settimana, e mantenute fino alla 52 a settimana, con una diminuzione dell’ALP del 41% con elafibranor rispetto al placebo.
‘Quando trattiamo la colangite biliare primitiva, il nostro primo obiettivo è controllare efficacemente la progressione della malattia, che potrebbe portare all’insufficienza epatica. I risultati dello studio ELATIVE forniscono dati convincenti, a supporto di elafibranor che può consentirci di raggiungere questo obiettivo evidenziando un beneficio terapeutico altamente significativo e potenzialmente associato a migliori risultati clinicì, ha affermato il dottor Christopher Bowlus, Professor of Gastroenterology and Hepatology, University of California Davis, U.S. ‘Inoltre, i nostri pazienti hanno bisogno di trovare beneficio dai pesanti sintomi della PBC, in particolare chi è gravato da un prurito di grado moderato e grave. I dati dello studio ELATIVE hanno dimostrato un possibile miglioramento del prurito nei pazienti trattati con elafibranor rispetto a quelli trattati con placebo. Nel complesso, questi dati suggeriscono che elafibranor potrebbe offrire una nuova opportunità per trattare efficacemente la PBC’.
ELATIVE ha valutato l’effetto di elafibranor sul prurito grave utilizzando tre diversi strumenti di misurazione a disposizione dei pazienti: la riduzione del prurito osservata con elafibranor rispetto a placebo e valutata attraverso il questionario ‘PBC Worst Itch NRS’ non è risultata statisticamente significativa (media LS, – 1.93 rispetto a -1.15; differenza, -0.78; IC 95%, da -1.99 a 0.42; P=0.20); maggiori riduzioni del prurito con elafibranor rispetto a placebo alla 52a settimana sono state osservate utilizzando il questionario ‘PBC-40 quality of lifè (differenza media LS -2.3; IC 95%, da -4.0 a -0.7) e con il punteggio totale del prurito 5-D (differenza media LS, -3.0 IC 95%, da -5.5 a -0.5).
‘Questi risultati suggeriscono che elafibranor potrebbe essere un trattamento efficace come opzione terapeutica di seconda linea in grado di modificare il paradigma terapeutico della PBC’, ha affermato Christelle Huguet, Executive Vice President e Head of Research and Development in Ipsen. ‘I dati dello studio ELATIVE ci hanno permesso di comprendere meglio come gestire efficacemente sia la progressione della malattia sia la relativa sintomatologia che ancora grava su molte persone che vivono con PBC. Non sarebbe stato possibile studiare il potenziale di nuovi trattamenti, senza il coinvolgimento dei pazienti, delle loro famiglie e dei loro caregiver, ai quali siamo immensamente grati.
La Colangite Biliare Primitiva (PBC) è una malattia epatica rara, autoimmune, colestatica, che colpisce principalmente le donne (circa nove donne per ogni uomo). Un accumulo di bile e tossine (colestasi) e un’infiammazione cronica provocano fenomeni fibrotici irreversibili sotto forma di cicatrici all’interno del fegato con distruzione dei dotti biliari. E’ una condizione cronica che può peggiorare nel tempo se non trattata in modo efficace, portando al trapianto di fegato e, in alcuni casi, alla morte prematura. La PBC ha un impatto notevole sulla vita quotidiana delle persone con sintomi debilitanti, tra cui più comunemente il prurito e faticabilità. Attualmente, non sono disponibili trattamenti approvati in grado di gestire efficacemente sia la progressione della malattia sia i sintomi che impattano sulla vita del paziente.
‘Convivere con la PBC può essere estremamente impegnativo per molte persone. Si vive quotidianamente con la paura che la malattia progredisca e occorre gestire al meglio il peso dei sintomi, che a volte possono essere così debilitanti da richiedere uno sforzo immane per andare avantì, ha spiegato Mo Christie, Head of Patient Services, della PBC Foundation, UK. ‘Come persona che vive con la PBC, apprezzo che medici, pazienti e famiglie vogliano comprendere cosa significhi convivere con una condizione incurabile e quale impatto questa condizione possa avere quotidiano. E’ di vitale importanza nel dialogo con i nostri medici, poter aver accesso a tutte le informazioni, le cure e i farmaci efficaci disponibili.
Elafibranor è stato ben tollerato nello studio. Percentuali simili di pazienti nel gruppo di trattamento e nel gruppo placebo hanno manifestato eventi avversi, eventi avversi correlati al trattamento, eventi avversi gravi o eventi avversi che hanno portato all’interruzione dello stesso. Gli eventi avversi che si sono verificati con frequenza nel >10% dei pazienti trattati con elafibranor rispetto al placebo includevano dolore addominale, diarrea, nausea e vomito. Elafibranor ha un profilo di sicurezza ben documentato in un’ampia popolazione di pazienti coerente con i dati di sicurezza raccolti nei precedenti studi su elafibranor in altre indicazioni, inclusa la steatoepatite non-alcolica (Non -Alcoholic steatohepatitis, NASH).
‘Le persone con colangite biliare primitiva necessitano di nuove opzioni terapeutiche che permettano di controllare l’evoluzione della malattia che altrimenti potrebbe portare ad un’insufficienza epaticà, ha commentato il professore Marco Carbone, studioso di malattie autoimmuni del fegato presso l’Università di Milano-Bicocca.
‘I risultati dello studio ELATIVE hanno dimostrato che elafibranor può avere un impatto significativo sulla progressione della malattia e sui sintomi che quando presenti possono essere estremamente debilitanti, in particolar modo il prurito. Si tratta di un risultato importante per tutta la comunità scientifica e per i pazienti che potrebbero beneficiare di un nuovo trattamento in grado migliorare qualità di vita e rallentare la progressione della malattià.
‘Come specialista da anni impegnata nelle malattie epatiche, ho accolto con interesse i risultati dello studio ELATIVE che offrono alla comunità scientifica e alle persone con PBC una nuova opzione per il trattamento di questa rara patologia cronica che colpisce prevalentemente le donne tra i 40 e i 60 anni, rappresentando ancora oggi una sfida clinicà, ha commentato Vincenza Calvaruso, professore associato in gastroenterologia e specialista in gastroenterologia ed epatologia presso l’azienda Ospedaliera Universitaria Policlinico P. Giaccone di Palermo ‘Elafibranor ha le potenzialità per rispondere a un bisogno ancora insoddisfatto e ha dimostrato di essere efficace sia sulla progressione della malattia, sia sui sintomi ad essa associati, che impattano in maniera significativa sulla quotidianità delle persone con PBC’.
I dati derivanti dal trial ELATIVE vengono utilizzati a supporto delle richieste sottomesse alle autorità regolatorie di tutto il mondo per l’autorizzazione di elafibranor come trattamento per la PBC.
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Camera celebra Giornata del Diabete, Mulè “Legge 130 traguardo storico”
ROMA (ITALPRESS) – L’Italia fa progressi sulla ricerca con la legge 130 del 15 settembre 2023 che prevede nel 2024 l’avvio di screening per il diabete 1 e la celiachia nella fascia pediatrica da zero a 17 anni. “Credo che sia un traguardo importante sul quale tutto il Parlamento si è trovato coeso, il progresso delle cure e gli investimenti sulla prevenzione garantiamo alla fascia più giovane della nostra popolazione di avere le stesse aspettative di vita delle persone che non hanno questa malattia” ha detto il ministro della Salute, Orazio Schillaci, durante il convegno che si è tenuto a Montecitorio in occasione della Giornata mondiale del diabete. “E’ un provvedimento che pone l’Italia all’avanguardia, prima Nazione a dotarsi di una legge che prevede in modo sistematico programmi pluriennali di screening per la celiachia e per il diabete di tipo 1 rivolti alla popolazione pediatrica” ha spiegato il ministro.
“Fare lo screening tra 0 e 17 anni – sottolinea il vicepresidente della Camera, Giorgio Mulè, primo firmatario della legge – consente non solo di prevenire e avere una diagnosi precoce, ma anche di gestire al meglio la malattia. Il diabete può avere delle complicanze cardiovascolari e neurologiche che con questo screening non insorgeranno e saranno gestite al meglio dai medici”. “Ogni giorno – ha spiegato Mulè – in Italia sono quattro i bambini che hanno l’esordio di diabete tipo 1, negli ultimi due anni l’insorgenza è passata dal 4 al 27% dei nuovi casi e quindi, a maggior ragione, è benvenuta questa legge che non a caso è stata già cercata da 13 Paesi dell’Unione europea e da numerosi altri paesi dall’America all’Asia per poter essere copiata e messa in atto negli altri Paesi”. “La legge, la cui approvazione è stata unanime, ha dimostrato che non si è fatta politica sulla salute dei cittadini ma si è agito nella visione comune di fare il bene di tutti”.
Si stima che siano oltre 4 milioni le persone affette da diabete in Italia. Il dato emerge da una lettura integrata dei sistemi di sorveglianza Passi e Passi d’Argento, coordinati dall’Istituto Superiore di Sanità in collaborazione con le Regioni, a partire dalle informazioni raccolte nel periodo 2016-2022 su un campione complessivo della popolazione residente in Italia di oltre 285mila persone sopra i 18 anni di età. “Siamo orgogliosi di questa giornata storica che evidenzia una legge altrettanto storica” ha sottolineato Nicola Zeni, presidente della fondazione italiana del diabete “è un grandissimo risultato che ci vede partecipi in questa giornata mondiale per essere molto più efficaci nel contrasto al diabete e che se non adeguatamente riconosciuta può portare a gravi conseguenze”.
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L’infertilità riguarda almeno il 15% delle coppie in Italia
ROMA (ITALPRESS) – L’Oms considera l’infertilità una malattia e la definisce come “assenza di concepimento dopo sei mesi di rapporti sessuali non protetti nelle donne al di sopra di 35 anni e dopo 12 mesi nelle donne più giovani”. L’infertilità o subfertilità riguarda almeno il 15% delle coppie in Italia e il 10-12% nel mondo. La difficoltà a concepire è una patologia che riguarda l’uomo, la donna o entrambi: l’infertilità è sempre un tema di coppia. Con sterilità si definisce invece la presenza di un fattore maschile o femminile che rende impossibile il concepimento. Alla nascita l’individuo di genere femminile possiede una riserva ovarica di circa 400.000 ovociti, già notevolmente ridotta rispetto ai circa 2 milioni che lo stesso individuo di genere femminile aveva nei mesi precedenti durante la vita intrauterina. Il numero di ovociti si riduce in modo progressivo negli anni, ogni mese la donna perde almeno cento ovociti, tra questi la natura ne sceglie uno solo che ovulerà. quando il numero degli ovociti arriva a poche migliaia e la donna non ha più il flusso mestruale si parla di menopausa. L’avanzare dell’età, infine, è strettamento legato alla perdita di capacità riproduttiva della donna: a 30 anni la possibilità di concepire è intorno al 20%, a quarant’anni è inferiore al 10%. Questi i temi trattati dal professore Paolo Emanuele Levi-Setti, ordinario di ginecologia e ostetricia presso Humanitas University, direttore del dipartimento di ginecologia e responsabile dell’unità operativa complessa di ginecologia e medicina riproduttiva ‘Fertility Center’ dell’Istituto clinico Humanitas di Rozzano, intervistato da Marco Klinger, per Medicina Top, format tv dell’agenzia di stampa Italpress.
“Le cause dell’infertilità possono essere genetiche, quando proprio uno nasce con un problema riproduttivo, o acquisite con infezioni, lo stile di vita o interventi chirurgici – ha esordito – Alcune patologie, soprattutto quelle oncologiche che necessitano di chemioterapia, possono essere estremamente impattanti sulla perdita di queste funzioni. E’ un insieme di concause per cui più passano gli anni, più le persone cercano di avere una gravidanza sempre più in là negli anni per motivi sociali ed economici. Non solo: abbiamo appena concluso uno studio in cui siamo andati a vedere, nelle pazienti oncologiche che avevano potuto congelare una parte di patrimonio riproduttivo, perchè non erano ritornate per cercare la gravidanza – ha illustrato Levi-Setti – Il motivo principale era la mancanza di un uomo con cui scegliere di avere un figlio”.
Le coppie che non riescono ad avere un figlio possono rivolgersi al ginecologo specializzato, ma devono farlo per tempo senza tergiversare: “Uno specialista, che è un ginecologo con una formazione specifica in questo ambito, può in tempi rapidi e con esami modesti capire se è il caso di fare già qualcosa o se è possibile che la coppia cerchi ancora la possibilità di una gravidanza – ha spiegato – Il problema del tempo di ricerca e dell’età della coppia, non solo della donna, sono una delle condizioni per cui spessissimo si arriva troppo tardi”. E per contrastare l’infertilità negli ultimi vent’anni la ricerca ha fatto passi da gigante: “C’è uno studio che ci dice che se noi abbiamo una donna che ha un numero sufficiente di uova possiamo fare uno sviluppo dell’embrione, una diagnosi pre-impianto e andare a mettere nell’utero un singolo embrione che nel momento in cui la donna riesce a sostenere la gravidanza ha in questo caso le stesse possibilità di giungere a un esito positivo, dunque la nascita di un bambino sano, come se le uova fossero quelle di una donna giovane – ha specificato il professore – In età avanzata aumentano le possibilità che la gravidanza non arrivi e purtroppo aumentano in modo esponenziale che questa gravidanza vada invece male. Gli aborti spontanei sono prevalentemente genetici e giungono al di sopra dei 42-43 anni con tassi superiori al 70%”.
“Chi ha la fortuna di trovare una gravidanza più avanti negli anni comunque dà vita a una generazione quasi tutta di figli unici, la ricerca del secondo figlio o del terzo spesso diventa poi impossibile”. Infine, Levi-Setti, che in oltre 40 anni di carriera ha visto nascere con il suo aiuto oltre ventimila bambini, ricorda come alla base dell’infertilità non vi siano cause di natura psicologica: “Non è lo stress che rende difficile l’arrivo della gravidanza, ma semmai rende povera la qualità del sesso – ha aggiunto – Il numero di rapporti si riduce: la natura è fatta bene, associa la qualità del sesso alle probabilità di concepire, ma la testa non c’entra. In ogni momento del ciclo quasi nessun giorno ha possibilità zero, per cui cercare con meccanismi costosi e stupidi il momento ottimale per il rapporto distrugge la coppia e non funziona – ha concluso – Ci sono giorni in cui è più probabile in cui avvenga un concepimento, ma nessun giorno ha possibilità zero”.
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Psoriasi, una patologia non prevedibile ma sempre più curabile
ROMA (ITALPRESS) – La psoriasi è una malattia infiammatoria e cronica della pelle caratterizzata da una crescita anomala dell’epidermide. L’infiammazione e il disordine nella crescita dei cheratinociti, le cellule più abbondanti nell’epidermide, portano alla formazione di placche in rilievo di colore rosso vivo, rivestite da squame biancastre. Le localizzazioni più comuni sono i gomiti, le ginocchia e il cuoio capelluto, ma la psoriasi può manifestarsi anche in altre aree del corpo, comprese le unghie. Si calcola che colpisca circa il 2% della popolazione generale, mentre il 75% dei casi si manifesta prima dei 40 anni e non è raro che la malattia compaia in età giovanile o addirittura durante l’infanzia e l’adolescenza. Sono questi alcuni dei temi trattati dal professor Antonio Costanzo, ordinario di dermatologia, direttore della scuola di specializzazione di Humanitas University e responsabile dell’Unità operativa dell’Istituto Humanitas di Rozzano, intervistato da Marco Klinger, per Medicina Top, format tv dell’agenzia di stampa Italpress.
“La psoriasi è una malattia infiammatoria della pelle, cronica, quindi difficile che una volta insorta possa andare via. Si manifesta con chiazze rosse sormontate da squame, questa è la forma classica – ha esordito – Purtroppo non si può prevedere la comparsa della psoriasi. C’è l’ereditarietà, abbiamo almeno 55 geni di predisposizione alla malattia, ma su questo impatta l’ambiente, per cui lo stress emotivo o le infezioni virali, come durante il Covid in cui ci è stata un’impennata della diffusione, sia alcuni farmaci come i betabloccanti. C’è un background genetico su cui agiscono fattori ambientali”. Una patologia, la psoriasi, che nelle forme più severe impatta in modo duplice sulla qualità della vita dei pazienti: “L’impatto che la psoriasi ha sulla qualità della vita di un paziente, specie se è moderata o severa, dunque con una buona parte del corpo ricoperta da squame, dal punto di vista della qualità della vita è equivalente alle malattie cardiovascolari severe, è seconda solo alla depressione”, ha spiegato Costanzo.
“Abbiamo le forme che appaiono nel viso, mani o aree sensibili come quella genitale, che danno un impatto alto sulla qualità della vita, e poi ci sono delle forme che magari evolvono in artrite, quelle possono dare dei sintomi dolorosi – ha aggiunto – L’artrite per fortuna non compare in tutti i pazienti, e di recente alcune pubblicazioni ci dicono che se trattiamo da subito la psoriasi con farmaci efficaci l’artrite non viene e ha un rischio di comparsa molto inferiore rispetto a chi viene trattato con farmaci tradizionali”.
La psoriasi è però sempre più curabile in modo soddisfacente: “La vera novità degli ultimi tempi, individuando i fattori infiammatori chiave della psoriasi, è che si è scoperto che bloccando uno di questi noi riusciamo a spegnere a lungo la malattia, e in alcuni casi, sospendendo il farmaco, a questi pazienti non ritorna, come se il sistema immunitario si fosse dimenticato della malattia, non avendo a lungo recidive – ha raccontato il professore – Abbiamo in lui, senza chiamarlo guarito, cambiato la storia naturale della malattia. Fortunatamente è anche capitato ad alcuni pazienti che, con un approccio non ansioso e sereno, questi siano guariti in modo spontaneo”.
Tra le cure alternative, resiste ma con meno efficacia quella dei raggi ultravioletti: “Funzionano, è vero, il problema è che finchè si fanno danno un effetto temporaneo – ha precisato – C’è però una dose limite oltre la quale c’è un rischio di avere tumori della pelle che sorpassa il beneficio che danno alla psoriasi”. Infine, Costanzo ha ricordato come ci sia purtroppo un’associazione tra psoriasi e depressione: “Non è casuale che queste due condizioni siano strettamente legate, alcune pubblicazioni indicano che un 25-30% di chi è affetto da psoriasi è anche affetto da una forma ansioso-depressiva – ha concluso – E non mancano anche i casi di tentato suicidio”.
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Sempre più italiani fanno uso di integratori
ROMA (ITALPRESS) – Cresce sempre di più in Italia la vendita degli integratori per il benessere fisico e ora anche sessuale. Lo rende noto Pm International, azienda tedesca che produce integratori, attraverso uno dei manager, Stefano Mosetti, dalla sede italiana di Desio. “Non dobbiamo stupirci se la domanda di questi integratori aumenta esponenzialmente – spiega -. Secondo l’OMS un uomo su due ha disfunzioni di natura sessuale, anche tra i giovani”. Per questo, al di là dei farmaci, cresce l’attenzione all’alimentazione e agli integratori. “E’ ormai noto l’effetto negativo di alcool e cibi troppo ricchi di grassi, così come di stress e mancanza di sonno. Una vita sana è sempre la migliore scelta – sostiene Mosetti – ma a volte è necessario integrare alcune sostanze che, specialmente nella stagione invernale è difficile trovare negli alimenti. Siamo tutti abituati a farlo con le vitamine per il raffreddore, perchè non lo dovremmo fare per stare meglio in coppia. La nostra azienda, per esempio, nei suoi centri di ricerca in Germania ha messo a punto una nuova formula: un integratore per gli uomini”.
PM-International AG conta più di 45 filiali in tutto il mondo per un giro d’affari di 2,55 miliardi di dollari nel 2022. In Italia PM-International è partner della Umana Reyer Venezia Mestre, la principale società di pallacanestro di Venezia che milita in Serie A, e della Pallacanestro Cantù.
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Cure palliative e terapia del dolore, forti disuguaglianze Nord-Sud
ROMA (ITALPRESS) – Le cure palliative sarebbero necessarie per quasi 600mila persone l’anno (nell’84% dei decessi), ma la copertura risulta ancora insufficiente (secondo i dati del ministero della Salute più recenti circa una persona su 3) anche per i soli pazienti oncologici. E non è un dato che riguarda solo la popolazione anziana: tra i minori solo il 15% di chi ne ha bisogno (circa 30.000) le ottiene.
E c’è anche il dolore cronico, quello con cui le persone fanno i conti a lungo, mesi o anni: in Italia quello ‘severò colpisce circa un milione di persone che raddoppiano (due milioni) se si considera il dolore cronico moderato. Il costo medio di un paziente con dolore cronico è di oltre 4.500 euro con costi diretti per il Servizio Sanitario Nazionale di circa 1.400 euro (quindi su due milioni di individui si parla di quasi 3 miliardi) e altrettanto di costi indiretti (congedi, assenze per malattia ecc.).
Nelle cure palliative e terapia del dolore l’Italia ha un primato: è stata la prima in Europa a varare una legge-quadro (la 38/2010) per riconoscere il diritto alla misurazione e al trattamento del dolore, al trattamento delle sofferenze di paziente e familiari, alla formazione dei professionisti e a un’organizzazione secondo reti cliniche.
Ma le buone notizie sono affiancate da tante ombre. L’ultima relazione al Parlamento, che doveva essere annuale, risale al 31 gennaio 2019 e si riferisce all’intervallo di tempo 2015-2017, con un ‘vuotò di rendicontazione di 6 anni rispetto allo stato dell’arte, agli sviluppi della legge quadro, alla capacità di garantire ai pazienti e alle loro famiglie il diritto a non soffrire inutilmente.
Per questo Salutequità, attraverso il suo Osservatorio, vuole riportare l’attenzione sul tema che incrocia un interesse sensibile per i diritti dei pazienti così come per la qualità, l’efficienza e l’efficacia del SSN.
Dall’emanazione della legge si sono succedute una serie di norme tra cui la più recente legge di Bilancio del 2023 che ha definito un traguardo importante e non più procrastinabile: entro il 2028 le cure palliative dovranno raggiungere il 90% delle persone che ne hanno bisogno, ma la Corte dei Conti sottolinea come nel 2021 (ultimi dati disponibili) sia ‘ancora fortemente insufficiente l’assistenza prestata ai malati di tumore attraverso la rete delle cure palliative: appena 5 regioni, tutte del Centro-Nord, sono state in grado di garantire un livello adeguato; tra le regioni meridionali, solo la Puglia con una percentuale del 34,3 si avvicina alla soglia minima richiesta (35 per cento)’. I dati di Italialongeva riportano che nel 2022 solo una persona su tre deceduta per tumore, precisamente il 36%, aveva ricevuto assistenza di cure palliative: 61 mila persone.
‘I dati sulle cure palliative pediatriche – commenta Tonino Aceti, presidente di Salutequità – sono irricevibili per un SSN che dichiara di mettere al centro l’umanizzazione dell’assistenza. Su un fatto così grave, dopo l’acquisizione del dato ci aspettiamo interventi concreti e risolutivi in tempi brevi, perchè quelle famiglie tempo da perdere non ne hannò.
‘Dobbiamo recuperare terreno – aggiunge – sul fronte dell’offerta e adeguarla ai bisogni reali della popolazione. Questo vale sia per la terapia del dolore, che rischia di essere un diritto per chi vive al nord, come mostra la distribuzione dei centri e l’uso dei farmaci; sia per le cure palliative, dove ancora oggi misuriamo l’andamento considerando l’assistenza offerta ai soli pazienti oncologici. Ma stando a stime europee, rappresentano solo il 40% delle persone adulte che avrebbero necessità di cure palliative. Il restante 60% di chi ne ha bisogno è affetto da patologie croniche degenerative non oncologiche (dalle malattie cardiovascolari al Parkinson). E ad oggi non sono oggetto di valutazione nel Nuovo Sistema di Garanzia dei livelli essenziali di assistenza: in altre parole non è parametro di valutazione delle performance delle Regioni nella loro capacità di garantire i LEA’.
Tutte le Regioni avrebbero dovuto realizzare la Rete di cure palliative, secondo quanto previsto dalla legge 38/2010, ma a distanza di 13 anni due regioni a dicembre 2021, secondo le rilevazioni dell’Agenas, Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, non avevano l’avevano istituita: Abruzzo e Marche. Tutte le reti esistenti dichiarano di prendere in carico pazienti oncologici e non oncologici; 14 non avevano attivato la procedura di accreditamento.
La situazione è sensibilmente peggiore per le cure palliative pediatriche, che non risultava istituita in otto Regioni: Abruzzo, Calabria, Lazio, Marche, Puglia, Sardegna, Umbria, Valle d’Aosta.
Per la terapia del dolore invece, in assenza di dati istituzionali, viene in soccorso il censimento SIAARTI che nel 2021 ha rilevato 305 centri di terapia del dolore non oncologico, anch’essi collocati in modo eterogeneo sul territorio: 164 al Nord, 64 al Centro e 77 al Sud.
Non va meglio anche su altri due fronti essenziali per l’applicazione della legge.
L’ultima relazione al Parlamento giudicava l’offerta formativa disomogenea sul territorio nazionale -confermata, peraltro, nel 2021 dall’Istruttoria Agenas- con 9 Regioni che non avevano attivato corsi di formazione per i professionisti per le cure palliative. Sul fronte ECM, l’analisi di Salutequità della banca dati Agenas mostra che dal 2019 a oggi l’attenzione e l’aggiornamento professionale sul tema ha avuto una flessione verso il basso: la pandemia ha fatto passare in secondo piano questi aspetti, anche se si colgono segnali di ripresa.
L’utilizzo dei farmaci per il trattamento del dolore mostra, ancora una volta differenze Nord-Sud, che richiederebbero una valutazione omnicomprensiva rispetto all’organizzazione e allo sviluppo delle reti cliniche di riferimento, così come di gap di diagnosi e cura a partire dal dolore cronico non oncologico.
Nel 2022 il Rapporto OsMed dell’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) evidenzia che il ricorso ai farmaci contro il dolore riguarda prevalentemente il dolore neuropatico (41% delle dosi giornaliere totali in aumento del 4,8% rispetto al 2021). L’uso di questi farmaci si riduce spostandosi da Nord a Sud, dove il consumo è di 6,2 DDD, di circa il 22% inferiori alla media nazionale (7.9); per contro le Regioni del Nord hanno un livello di consumo del 14% superiore (9). Le regioni nelle quali l’uso dei farmaci contro il dolore (dosi per mille abitanti al giorno) è superiore alla media nazionale sono quasi tutte al nord: Valle d’Aosta, Piemonte, Lombardia, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana. Le regioni in cui l’uso è notevolmente al di sotto tra 5.4 e 5.8 DDD sono: Calabria, Campania, Molise, Sicilia. Colpisce anche che di fronte ad un dolore cronico, metà dei pazienti sia stato trattato per meno di due settimane e oltre un terzo (34%) abbia ricevuto un’unica prescrizione nel corso dell’anno; le Regioni del Sud riportano i livelli più alti di utilizzatori sporadici (37,8%).
Di fronte a una legge dello Stato ancora vigente e oggetto di Accordi Stato-Regioni non può essere e non deve essere applicata parzialmente soprattutto quando in ballo c’è la qualità di vita delle persone e l’efficienza del SSN. Secondo Salutequità, quindi, è indispensabile: 1. Garantire accountability, facendo il punto aggiornato sulla legge 38/2010 sia sulle cure palliative, sia sulla terapia del dolore. Il prossimo appuntamento da non bucare è dicembre 2023 con l’auspicio che rappresenti il riavvio delle relazioni annuali al Parlamento sullo stato di attuazione della legge 38/10, anche in vista del raggiungimento del 90% nel 2028 di cure palliative previste nella legge di bilancio 2023.
2. Colmare le iniquità di accesso agendo sui ritardi nell’attuazione della legge. E’ urgente adeguare l’offerta assistenziale in termini quantitativi delle cure palliative in età adulta e pediatrica, così come di terapia del dolore al bisogno effettivo della popolazione considerando anche l’andamento demografico ed epidemiologico. E’ inoltre essenziale colmare le differenze nord-sud e intraregionali, sul consumo dei farmaci appropriati e necessari al trattamento del dolore
3. Aggiornare gli indicatori LEA del Nuovo Sistema di Garanzia inserendo anche la capacità di assicurare cure palliative e terapia del dolore ai pazienti cronici non oncologici.
4. Misurare l’assistenza in termini non solo quantitativi, ma anche qualitativi (es. audit clinici indicati da AIFA)
5. Garantire che il personale che opera tanto in cure palliative, quanto in terapia del dolore abbia sempre una formazione adeguata e specialistica.
-foto Agenzia Fotogramma-
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