ROMA (ITALPRESS) – Sono iniziate a Roma le riprese di Genitori vs Influencer, la nuova commedia di Michela Andreozzi scritta a quattro mani insieme a Fabio Bonifacci. Al centro della vicenda un padre single e le difficoltà che ne conseguono nel crescere da soli una teenager ai nostri giorni. Nel cast Fabio Volo, la giovanissima Ginevra Francesconi (The Nest – Il nido, Famosa) e Giulia De Lellis. Insieme a loro anche Paola Tiziana Cruciani, Nino Frassica, Paola Minaccioni, Massimiliano Vado, Michela Andreozzi e con l’amichevole partecipazione di Massimiliano Bruno. Sono previste sei settimane di riprese, tra la capitale e diverse location del Lazio.
Genitori vs Influencer è prodotto da Paco Cinematografica di Isabella Cocuzza e Arturo Paglia, in coproduzione con la spagnola Neo Art Producciones e con Vision Distribution, che distribuirà il film prossimamente in Italia.
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Al via le riprese di “Genitori vs influencer” con Fabio Volo
Alla Scala in scena la prima in versione inedita
MILANO (ITALPRESS) – Un viaggio nell’arte in un teatro come non si era mai visto. O almeno così non lo aveva mai vissuto il grande pubblico. E’ la prima del Teatro alla Scala che ha inaugurato la stagione in modo inusuale, a causa delle restrizioni per il Covid-19. L’evento, storico, si è svolto senza pubblico, con l’orchestra che occupava lo spazio della platea e il direttore che dava le spalle al palco. Gli spettatori, però, c’erano ed erano a distanza, dietro gli schermi dei televisori o di altri dispositivi: lo spettacolo, diretto da Riccardo Chailly con la regia di Davide Livermore e intitolato “A riveder le stelle”, è stato infatti trasmesso in diretta Rai, proposto da Rai Cultura con la conduzione di Milly Carlucci e Bruno Vespa.
Tante le opere, dagli italiani ai compositori europei, da Giuseppe Verdi a Georges Bizet, da Francesco Cilea a Richard Wagner, da Gaetano Donizetti a Giacomo Puccini, passando anche per Jules Massenet e poi Gioachino Rossini. Un intreccio di forme d’arte con balletti sulle musiche di Cajkovskij e Di Leo e intervalli con letture e interpretazioni sui testi di Montale, Bergman, Hugo e Racine e citazioni di Ezio Bosso. Il tutto alla scoperta del grande Teatro, nei diversi spazi dell’edificio, tra palchi e dietro le quinte, nelle sale, nei corridoi e persino sulle scale. Ad aprire la serata è stato l’Inno di Mameli. Una donna delle pulizie, in un teatro vuoto, ha iniziato a intonare l’inno nazionale, poi cantato in coro. La particolare posizione dell’orchestra, secondo il direttore Chailly, è “straordinariamente acustica. E’ un unicum – ha spiegato ai microfoni di Rai1 poco prima dello spettacolo – che non potrà essere ripetuto perchè l’orchestra in questa posizione esclude la presenza del pubblico, elemento che ci manca tantissimo stasera”.
Tra i protagonisti sul palco Placido Domingo, Roberto Bolle, Roberto Alagna, Vittorio Grigolo, Marina Rebeka. Una serata ricca di emozioni ed effetti, come quelli luminosi del ballo di Bolle, come l’atmosfera creata attorno a Piotr Beczala in “Nessun dorma” da Turandot di Puccini o quella creata mentre Lisette Oropesa interpretava “Regnava nel silenzio” da Lucia di Lammermoor di Donizetti, con l’immagine delle onde che si infrangevano sulla sabbia nello sfondo, donne e uomini con ombrelli aperti e la presenza dell’acqua. La tradizionale prima di Sant’Ambrogio quest’anno è stata diversa, specchio di un momento difficile ma anche della speranza nella ripartenza, perchè, anche a partire da arte e cultura, così come spiegato alla fine dell’evento, si possa tornare a “Riveder le stelle”.
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Lennon, 40 anni fa l’omicidio dell’ex Beatle che sognava un mondo migliore
L’aria gelida di New York quella sera di dicembre era riscaldata dalle luci che illuminavano l’attesa del Natale. La lancetta dell’orologio aveva in quell’istante segnato le 22,50 quando John Lennon e Yoko Ono, appena tornati da una sessione di registrazione al Record Plant Studio, dinanzi l’ingresso del Dakota Building, esclusivo palazzo dell’Upper West Side di Manhattan dove vivevano, incontrarono lo sguardo malato di Mark David Chapman, fan squilibrato con un passato trascorso tra il ricovero in un manicomio e una pesante dipendenza dalla droga. Chapman alle spalle di Lennon estrasse una 38special, un revolver a canna corta, piegò leggermente le ginocchia, prese la mira e fece fuoco: 5 volte e in rapida successione. Ma prima si rivolse al suo idolo che stava assassinando: “Mr Lennon!” sentirono chiamare i testimoni. Improbabile che “Mr. Lennon” riuscì a fare caso al riverbero della canna rischiarata dalle luminarie. Il primo colpo lo mancò, gli altri quattro si conficcarono nella schiena, uno dei quali trapassò l’aorta.
Prima di stramazzare a terra, Lennon trascinandosi fino alla guardiola riuscì con una flebile voce a chiedere aiuto; “I’m shot, I’m shot” (“Mi hanno sparato, mi hanno sparato”). Il primo a soccorrerlo fu il portiere, che tentò di usare il suo cappotto per bloccare l’emorragia. Intanto all’esterno del Dakota il custode, Josè Perdomo, riuscì a disarmare Chapman. L’assassino sembrava tranquillo e calmo; rimase immobile, si accucciò sul marciapiede, estrasse una copia de “Il giovane Holden” di Salinger in attesa dell’arrivo della polizia. Alla prima domanda che gli agenti gli posero, se sapeva cosa avesse fatto pochi minuti prima, Chapman con freddezza rispose sicuro: “Ho appena sparato a John Lennon”. L’omicida non fece nessuna resistenza, si fece ammanettare e fu portato su un’auto alla più vicina centrale di polizia. Intanto altri agenti arrivati negli istanti successivi tentarono di soccorrere Lennon. Le sue condizioni apparvero così gravi che i poliziotti preferirono non attendere l’arrivo dell’ambulanza ma lo caricarono sulla propria auto di servizio portandolo al St. Luke’s Roosvelt Hospital.
All’arrivo all’ospedale i medici tentarono di rianimare Lennon che aveva completamente perso conoscenza. Un massaggio cardiaco inutile, durato almeno 7 minuti. Alle 23,15 dell’8 dicembre del 1980, John Lennon, l’ex Beatle autore da solista di capolavori come “Imagine”, “Watching The Wheels”, “Mind Games”, fu dichiarato morto. Per prima cosa dagli altoparlanti dell’ospedale furono sparate a tutto volume le note di “All my loving”. La notizia ben presto fece il giro del mondo suscitando ovunque orrore e sgomento. Per volere della famiglia si decise di non celebrare alcun funerale, ma Yoko si rivolse ai milioni di fan e li invitò la domenica successiva a riservare qualche minuto di preghiera per quel mito ammazzato da un proprio fan. Il 14 dicembre 1980, milioni di persone in tutto il mondo risposero all’appello lanciato da Yoko Ono. Nei più disparati angoli della terra le attività si fermarono per 10 minuti, le radio sospesero le trasmissioni. Raduni vennero organizzati nelle principali città: a Liverpool si riunirono 10 mila persone, più di 200 mila si diedero appuntamento a New York, a Central Park.
Yoko Ono scrisse una lettera al New York Times e al Washington Post per ringraziare i fan sconvolti dal dolore, devastati dalla morte di un genio per mano di una mente assassina e malata. La mano di quel Mark David Chapman che in un’intervista spiegò le ragioni del suo folle gesto: “L’unico modo per diventare qualcuno era uccidere l’uomo più famoso del mondo, Lennon. Mi faceva imbestialire che lui avesse sfondato mentre io no. Eravamo come due treni che correvano l’uno contro l’altro sullo stesso binario. Il suo ‘tutto’ e il mio ‘nulla’ hanno finito per scontrarsi frontalmente”. Chapman nel suo isterismo centrò di Lennon uno di quegli elementi che lo resero immortale. Era un artista totalizzante, un genio creativo assoluto, non un semplice musicista, ma un personaggio che con le sue parole, le sue note e il suo pensiero teorizzava un mondo migliore. Se non altro ha reso un po’ migliori le vite di un numero enorme di persone. Quanto basta per renderlo eterno.
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Frassica compie 70 anni “Ho conquistato il pubblico con la comicità surreale”
“A casa ho una stanza che chiamo della sofferenza, dopo uno spettacolo a teatro mi ci rinchiudo dentro e piango. E poi esco per ritornare in teatro”. Nino Frassica usa la sua principale arma, l’ironia, per smentire il più noto tra i luoghi comuni che sembrano condannare chi ha fatto dell’arte del ridere la propria: che i comici nel privato sono tristi. All’Italpress, in questa intervista che celebra i suoi 70 anni (è nato a Messina l’11 dicembre del 1950), si racconta, sfatando alcuni miti, come quello che vorrebbe certi artisti divertenti sotto i riflettori ma malinconici quando le luci si spengono. “E’ una diceria, quando sei in scena ricopri un ruolo, nel privato ci sono momenti in cui devi essere serio, questo è normale, se fai la persona divertente sempre poi c’è il dubbio che sei un po’ scemo. Quelli che vogliono fare gli spassosi 24 ore su 24 hanno qualcosa che non va”.
Frate Antonio da Scasazza di “Quelli della notte”, il maresciallo Cecchini di “Don Matteo”, l’ultimo il giudice Alfonso Giordano protagonista della docufiction trasmessa nei giorni scorsi da Raiuno “Io, un giudice popolare al maxiprocesso”. Molti i personaggi che ha interpretato negli anni, gran parte divertenti ma non tutti. Sta qui forse la sua forza, la sua cifra stilistica, quella di riuscire a interpretare ruoli differenti e renderli tutti credibili?
“Il ruolo di Giordano è stato un ruolo drammatico, ma essendo Giordano una persona simpatica e alla mano mi è stato facile interpretarlo. Da comico mi è venuto facile rappresentare un personaggio dalla grande umanità. D’altronde raramente faccio ruoli drammatici. Anche il maresciallo Cecchini, ad esempio, è uno di noi, è il vicino di casa che ha momenti di allegria e di divertimento ma che però vive un dramma”.
Altro mito da sfatare, quello dei comici morti di fame che vivono non riuscendo a mettere insieme il pranzo con la cena.
“Sono un emigrante partito dalla provincia, ma rispetto a una generazione precedente la mia non ha patito la fame. La mia storia è di uno che ha vissuto di economie, ma non scappavo dagli alberghi o dai ristoranti per non pagare il conto come racconta una certa leggenda di teatranti”.
Il suo successo, almeno il principio della sua carriera, dipende da un bizzarro messaggio lasciato sulla segreteria telefonica di Renzo Arbore.
“Praticamente non essendoci la possibilità di fare provini decisi di lasciare quei messaggi, corti, divertenti, dove neppure facevo il mio nome. Da lì è cominciato tutto: ho fatto la radio, poi nell”85 arrivò ‘Quelli della notte'”.
Come erano quegli anni per la tv ma anche per lei.
“Erano anni molto interessanti, importanti, e sapevo che dovevo giocare bene le mie carte, in caso contrario avrei pregiudicato la carriera. Mi sono impegnato molto”.
La sua comicità nella sua carriera non sembra essere mai cambiata.
“La mia è una comicità surreale, che è anche abbastanza difficile da fare, ma credo che al pubblico piaccia”.
Da poco ha scoperto anche i social, ottenendo un successo sempre crescente, e caso quasi unico sembra immune dalla gratuità dei messaggi degli haters.
“E’ un mezzo che debbo dire ho scoperto da poco, un mezzo che mi permette di proporre nuovi e vecchi sketch. Sui commenti positivi credo che dipenda dal fatto che fortunatamente sono trasversale, piaccio agli anziani, magari grazie a Don Matteo, ma vengo apprezzato dai giovani per via delle cose che faccio con Maccio Capatonda”.
Trasversale anche nel senso che non ha mai voluto schierarsi apertamente in politica. A differenza di qualche suo collega, c’è pure chi ha fondato un movimento. Lei è rimasto sempre distante, anche dalla satira politica.
“Alla fine tutto è politica. Io ho fatto il mio modesto mestiere, ho sempre pensato che fare del qualunquismo non mi andava e ho preferito il surrealismo, il nonsense. E’ stata forse una scelta di comodità. E poi se devi fare satira devi essere sempre informato, aggiornato, devi studiare. Credo che il surrealismo sia più vicino alla poesia che alla satira”.
Però un personaggio politico lo ha interpretato, Giacomo Bartolotta, il consigliere comunale di “Baaria” che chiede maggiori attenzioni agli avversari.
“Quello è un personaggio modernissimo, è uno che aveva capito l’importanza dei media, diceva al protagonista parla di me anche se ne parli male. Parlane male ma parlane”.
Nino Frassica come trascorre i suoi giorni nell’epoca della pandemia?
“Ogni giorno attendo il bollettino alle 18, sono attento a quel diminuire e aumentare dei numeri, mi serve davvero per cercare di capire che sta succedendo, sto a vedere i numeri perché i numeri non sono chiacchiere”.
L’appassiona il dibattito sul Natale, sugli spostamenti, sulle messe?
“Credo che se si chiudono i teatri allo stesso modo si dovrebbero chiudere le chiese. Se si decide di chiudere tutto bisogna farlo totalmente. Perché teatri si e altro no?”.
Come prevede che sarà il futuro del teatro, del cinema e del mondo dello spettacolo quando supereremo la pandemia?
“Credo che si stia accumulando una grande voglia di andare al cinema e al teatro, penso che dopo questa lunga astinenza ci sarà il boom”.
Lei è siciliano trapiantato oramai da tanto tempo a Roma, che giudizio dà dell’Isola?
“Torno spesso e tornerò il prima possibile se mi faranno tornare. Vedo una Sicilia che cresce, e una Sicilia che si è italianizzata, non è un mondo a parte, un corpo estraneo, e come il resto del Paese vive le crisi, i dolori dell’Italia e si adegua”.
Come sarà il 2021 di Nino Frassica?
“L’anno nuovo apre bene, ho pronto un libro, che si chiamerà Vipp, con 2 p. E’ un libro che ho scritto molto comodamente, non è un instant book e racconta festa e festini ma alla mia maniera”.
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Achille Lauro chiude la trilogia con “1920”
Big party, paillettes, black swing, gessati, Chicago, vecchi Gangster italo-americani, questo è il mood del nuovo side project di Achille Lauro: 1920 – Achille Lauro & the Untouchable Band, in uscita oggi su tutte le piattaforme digitali e negli store in formato cd e vinile. Il side project chiude la trilogia di repack del passato: con 1990, tributo alla musica Dance, e 1969 – Achille Idol Rebirth, dall’animo punk-rock, certificato Disco di Platino da Fimi/Gfk, Achille Lauro dimostra di saper indossare giacche di pelle, tacchi glitter e fedora sempre con la stessa credibilità.
Il progetto prende ispirazione dal desiderio di leggerezza nato durante il Proibizionismo dei primi anni del ‘900 e dalle atmosfere musicali che proprio in quegli anni hanno trovato le loro radici. “Gli anni ruggenti, li chiamano. I roaring Tweenties sono il decennio che ospita il mio side project – così descrive Achille Lauro – Raccontano un’epoca di liberazione, sfogo, reazione, evoluzione. Sono gli anni del primo dopoguerra, della fine dell’influenza spagnola, di una breve e meravigliosa parentesi in cui l’umanità ha trovato sconsolato riparo. Come un sogno, gli anni 20 sarebbero svaniti presto, ma si sarebbero portati dietro il dolceamaro della nostalgia”.
1920 – Achille Lauro & the Untouchable Band è composto da 8 tracce, tra brani inediti e riedizioni in pieno ritmo jazz anni ‘20, un dialogo tra passato e presente, l’improvvisazione piu` ricercata. Cover, come My Funny Valentine, Tu vuò fà l’americano e Jingle Bell Rock; inediti, tra cui Piccola Sophie, Pessima e Chicago; riedizioni, come Cadillac 1920 e Bvlgari Black Swing. Achille Lauro aggiunge al progetto la collaborazione di importanti artisti del panorama musicale italiano: Gigi D’Alessio, colonna portante della musica italiana;
Izi e Gemitaiz, affermate star del mondo urban; Annalisa, ormai al fianco di Achille Lauro dall’incredibile esibizione sul palco dell’Ariston. E sarà proprio Jingle Bell Rock feat.
Annalisa, il primo singolo estratto dal nuovo progetto, in radio da oggi. Un grande classico del Natale che consolida la collaborazione tra Achille Lauro e Annalisa: nata sul palco dell’Ariston con la struggente interpretazione de Gli uomini non cambiano di Mia Martini e proseguita con Sweet Dreams in 1990, i due sono ormai una coppia artistica affiatata e capace di impreziosire ogni brano in cui si trova a lavorare insieme.
Achille Lauro e Annalisa lo fanno questa volta con il primo singolo estratto dal side project pronto a scaldare i giorni di festa attraverso l’incredibile vocalità di Annalisa e la travolgente interpretazione di Achille Lauro e la sua orchestra.
“Sono tornato completamente cambiato da questo viaggio negli anni ’20. La mia concezione di fare musica e` sconvolta, tutto cio` che pensavo prima si e` capovolto.
Inizialmente mi concentravo solo sulla mia ossessione di seguire da vicino tutti i minimi dettagli del lavoro; oggi, grazie a questa trilogia ‘69 – ‘90 – ‘20, ho capito che e` stato tutto solo l’entre´e di quello che sto per proporre”. Così l’artista descrive questo nuovo capitolo del suo viaggio musicale.
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Boomdabash, 11 dicembre esce “Don’t worry” The Best of
“Non sarà un Natale come gli altri e non sarà un brutto Natale perché avremo la possibilità di riscoprire altre cose, affetti, passarlo con le persone che amiamo ed è inutile piangersi addosso ma prestiamo più tempo anche a noi stessi: cene e cenoni non devono avere tanta importanza, adesso”.
Lo hanno precisato i Boomdabash durante la videoconferenza di presentazione dell’album “Don’t worry the best of 2005-2020”, in arrivo venerdì 11 dicembre.
“È qualcosa di molto naturale questo ‘best of’, anche se abbiamo già pezzi nuovi – ha puntualizzato Biggie – Volevamo regalare qualcosa di diverso ai nostri fan, soprattutto a coloro che non trovavano i nostri primi brani e abbiamo selezionato proprio quelli richiesti da loro; siamo anche stati costretti a farlo perché la scorsa estate sulle bancarelle abbiamo trovato il nostro precedente album “Barracuda” piratato con l’aggiunta di altri brani fatti prima”.
All’interno della raccolta ci sono ben 22 brani, fra cui le più grandi hit come “Mambo salentino” e “Karaoke” con Alessandra Amoroso, “Per un milione”, “Non ti dico no” con Loredana Bertè.
“Sì, ci sono anche i nostri tormentoni estivi – ha ammesso Mr. Ketra – Mai termine è veramente azzeccato perché hanno tormentato la gente; una cosa è certa: non abbiamo mai scritto per fare un tormentone o la sua riuscita, sono comunque delle hit ma non è un termine che ci fa arrabbiare perché se viene ascoltato mille volte al giorno è perché piace e non è un tormento”.
Ad aprire la raccolta è il nuovissimo brano “Don’t worry”, incalzante inno alla speranza.
“Ha la particolarità di essere diverso da quelli che sono i nostri classici – ha sostenuto Payà – Volevamo che fosse un vero inno alla speranza, proprio per ciò che stiamo vivendo in questo periodo: lo avevamo scritto un anno fa e abbiamo deciso di tirarlo fuori proprio ora. Il brano intende lanciare un messaggio positivo, un invito, nonostante i molti momenti quotidiani di sconforto, a non perdere la speranza”.
“Marco e Sara” e “Nun tenimme paura” ft Franco Ricciardi sono gli altri due inediti della raccolta e non trascurabili anche i due brani “Danger” e “She’s mine”, i primi ad aprire la carriera della band e incisi per la prima volta in assoluto su un supporto fisico.
“Siamo cresciuti per strada a Mesagne dove non era molto semplice trovare niente di positivo – ha ricordato Blazon a proposito di “Nun tenimme paura” – Abbiamo fatto sacrifici, anche economici, e la musica è stata la nostra salvezza: ci dicevano di trovare un lavoro serio ma noi abbiamo creduto nella musica e ci siamo conquistati un piccolissimo posto nel panorama della musica italiana; da noi c’è la Sacra Corona Unita, un’altra mafia, e abbiamo vissuto il coprifuoco perché nella notte c’erano sparatorie, accoltellamenti e altro”.
I Boomdabash nascono a Mesagne come Sound System nel 2002 dall’unione del deejay Blazon di Mesagne, dei due cantanti Biggie di Mesagne e Payà di Trepuzzi e dal beatmaker abruzzese Mr. Ketra di Vasto.
“La nostra vita è incentrata sulla nostra terra e il campanilismo non è che una difesa – ha sottolineato Blazon – I giovani devono adoperarsi a difendere le proprie tradizioni, essere nati al Sud è un pregio, ci ha reso più sgamati e di riuscire a capire ciò che è giusto: è una mamma che ci ha cresciuto. Abbiamo visto partire troppi giovani, lasciare i propri affetti e nutriamo rispetto nei loro confronti, non per chi invece l’abbandona con senso di disprezzo: bisogna impegnarsi di più a trovare un futuro”.
L’album comprende altri featuring, da “Il solito italiano” ft. J-Ax a “Barracuda” ft. Fabri Fibra e Jake La Furia, “L’importante” ft. Otto Ohm, “Pon di riddim” ft. Alborosie e a “Gente del Sud” ft. Rocco Hunt.
“J-Ax è un artista che ha creduto in noi dal primo giorno – ha confessato Biggie – Nella nostra collaborazione c’è molta umanità e stima, una grande amicizia: avrebbe potuto anche avere dei dubbi su di noi ma aveva visto lungo e su quello che c’era dietro”.
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Su Rai1 il maxiprocesso con gli occhi di un giudice popolare
Il maxiprocesso come non lo abbiamo mai visto. Perché questa volta Rai1, domani in prima serata, ce lo mostra attraverso gli occhi di un giudice popolare. O, meglio, di “una” giudice popolare, una delle poche che accettò l’incarico visto che, dei 50 cittadini invitati a comparire in tribunale per il primo e più grande processo alla mafia, ben 37 non si presentarono e altri lo fecero ma con un certificato medico. Tra coloro che accettarono l’incarico c’erano tre donne: Maddalena Cucchiara, Francesca Vitale e Teresa Cerniglia. A loro (che vedremo in spezzoni di interviste) è ispirata la figura di Caterina, protagonista di “Io, una giudice popolare” e interpretata da Donatella Finocchiaro, che vede la sua vita stravolta dal momento in cui accetta di partecipare al maxiprocesso. Accanto a lei, nel cast della docufiction (firmata da Francesco Miccichè e prodotta da Stand by me e Rai Fiction) ci sono, tra gli altri, Nino Frassica e Francesco Foti. L’allora presidente della Corte, Alfonso Giordano, ricorda: “Ho già precisato come la collaborazione dei giudici popolari, la loro personalità e il loro apporto, potessero costituire un grosso problema per me fin dal primo momento, giacché erano certamente un’incognita che in un processo come quello che il destino ci aveva consegnato, poteva essere determinante al fine di un verdetto giusto anche severo. Fummo certamente aiutati dalla sorte, perché tutti e sei i giudici popolari dimostrarono d’essere onesti, corretti, veramente esemplari”. Con lui il Pm Giuseppe Ayala, che ancora ricorda “l’inquietudine che condizionò il mio stato d’animo durante l’udienza destinata al sorteggio dei giudici popolari destinati a comporre la Corte d’assise, chiamata a gestire quell’enorme processo”. La sua inquietudine, tuttavia, durò poco: “A fine udienza i sei giudici popolari avevano un nome e un cognome. Tre dei sei giudici erano donne. Le loro vite, al pari di quelle dei colleghi uomini, furono asservite al dovere per quasi due anni. L’impegno era a tempo pieno. La vita delle loro famiglie fu stravolta nell’ordinaria quotidianità. Per non dire delle pesanti limitazioni alla libertà imposte dalla scorta”.
Al maxiprocesso Pietro Grassi era giudice a latere. Oggi ricorda: “Noi giudici e il Paese intero fummo davvero fortunati, perché il contributo dialettico, culturale e leale dei giudici popolari fu straordinario. Si rivelarono cittadini esemplari, servitori dello Stato, veri interpreti e rappresentanti del giudizio in nome del popolo italiano. Tra di loro tre docenti, un’ostetrica, un funzionario di banca ed un impiegato di pubblico ufficio, persone che non avevano, al contrario nostro, scelto un impegno professionale per cui il rapporto con la mafia era nel conto, ma si trovarono a svolgere un ruolo delicato, importante e rischioso, e seppero rispondere alla chiamata dello Stato e della Legge. Tutti dobbiamo essergliene riconoscenti”. La docufiction racconta tutto questo grazie anche alle interpretazioni dei protagonisti ma, anche, a un eccezionale materiale di repertorio che comprende interviste ai protagonisti dell’epoca, filmati, foto e titoli di giornali. La protagonista, Donatella Finocchiaro, sottolinea come “Caterina si trova davanti ai mafiosi nelle gabbie ma, come gli altri giudici popolari, ha accettato la sua responsabilità e diventa una piccola eroina”. L’attrice non nasconde l’emozione di essere entrata per le riprese nell’aula che ha ospitato il maxiprocesso: “C’ero già stata nel 2009 quando ho portato in scena l’opera teatrale di Claudio Fava e Ninni Bruschetta ‘L’istruttoria – Atti del processo in morte di Pippo Fava’ – dice – È il luogo dove abbiamo visto il male”. Nei panni di Alfonso Giordano c’è Nino Frassica che lo definisce “una persona umana e umile, un gran signore come quelli di una volta”. L’emozione dell’aula bunker è stata la stessa anche per lui: “Ci immaginavamo di avere di fronte alcuni di quegli animali che riempivano le gabbie”. “Io, una giudice popolare” appare come un fiore all’occhiello per Rai Fiction. La direttrice Maria Pia Ammirati spiega: “Ricordare e documentare eventi e persone, che fanno parte della storia della Repubblica e costituiscono snodi della democrazia, del vivere civile e del senso di responsabilità, sono un dovere del Servizio Pubblico. Il ruolo del servizio pubblico è anche questo: non arretrare nell’impegno e non lasciare spazio alla rimozione della memoria”. (ITALPRESS).
Effetto Covid sullo spettacolo, dalla Siae la mappa regione per regione
ROMA (ITALPRESS) – L’attività cinematografica nel primo semestre del 2020 ha contenuto le sue perdite grazie all’uscita nel primo bimestre dell’anno dell’atteso film di Checco Zalone “Tolo tolo”, che con più di 7.000.000 spettatori ha mantenuto alti gli incassi in sala. La Toscana, invece, ha registrato una diminuzione di incasso superiore al 90% nel settore dei concerti, ma in termini assoluti pari solo ad 1/3 della perdita subita dalla Lombardia (62,8 milioni di euro). Sono alcuni dei dati disponibili sul sito della SIAE, nell’area dedicata all’Osservatorio dello Spettacolo, con il confronto tra i dati del primo semestre 2020 e quelli dello stesso periodo dell’anno precedente relativi alle singole regioni italiane.
Nelle regioni in cui l’attività cinematografica si trova al primo posto, le perdite complessive al botteghino sono state, seppur considerevoli, più contenute rispetto al resto d’Italia: è il caso del Molise (-43,16%) e della Puglia (-53,85%).
Invece nelle regioni in cui i primi posti della spesa del pubblico sono occupati da attività sportiva e attività concertistica si registrano perdite decisamente maggiori: Lombardia -73,99%, Liguria -86,99%, Sardegna -77,04%.
Con questo ulteriore approfondimento, l’Ufficio Statistica della Società Italiana degli Autori ed Editori vuole fornire uno strumento puntuale per esaminare a livello locale l’andamento della spesa e della presenza del pubblico al cinema, a teatro, ai concerti, allo stadio, nelle sale da ballo e in ogni altro genere di spettacolo e di sport in un periodo in cui il settore dello spettacolo ha subito ingenti perdite e gravissime ricadute sui livelli occupazionali a causa dell’emergenza sanitaria.
“Con l’elaborazione dei dati regionali, l’Osservatorio dello Spettacolo SIAE vuole mettere a disposizione tutte quelle informazioni che, anche a livello locale, possono portare a politiche più mirate a favore dello sviluppo di un settore strategico per tutto il nostro Paese che purtroppo sta pagando duramente le conseguenze economiche della pandemia – ha commentato il direttore generale della SIAE, Gaetano Blandini -. Sempre più le comunità locali sono chiamate ad agire sul proprio territorio per avviare le necessarie azioni di trasformazione di fronte alle nuove sfide che la situazione determinata dalla pandemia ci impone. In questo contesto, diventa fondamentale garantire a ciascun territorio un welfare culturale, se così vogliamo definire il diritto generalizzato di accesso al nostro patrimonio artistico e culturale con la sua capacità di arricchire e fecondare il futuro di tutti”.
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