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ESCE “LOVER”, IL NUOVO ALBUM DI TAYLOR SWIFT

Esce oggi “Lover”, il nuovo album di Taylor Swift che segna il ritorno della popstar a due anni dalla pubblicazione di “Reputation”.

La raccolta dei 18 brani è stata anticipata dai singoli “Me!”, in collaborazione con Brendon Urie dei Panic! At the Disco, che a oggi conta oltre 255 milioni di views su YouTube e quasi 242 milioni di streaming su Spotify, e “You Need To Calm Down”, che ha raggiunto oltre 163 milioni di stream su Spotify e 118 milioni di views su YouTube. Il video del singolo vede la partecipazione di Katy Perry, Serena Williams, Ellen DeGeneres, Ryan Reynolds, Bobby Berk, Billy Porter, Ciara, RuPaul, Jesse Tyler Ferguson, Justin Mikita, Adam Lambert, Todrick Hall, Hayley Kiyoko, Adam Rippon, Chester Lockhart, Dexter Mayfield, Hannah Hart, Antoni Porowski, Jonathan Van Ness e Tan Franc, e concorre all’ambito titolo di “Video of the Year” ai Video Music Awards 2019, per i quali Taylor Swift ha ricevuto anche altre 9 candidature in altrettante categorie.

MORTO L’ATTORE CARLO DELLE PIANE

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E’ morto all’età di 83 anni l’attore Carlo Delle Piane, che aveva da poco festeggiato i 70 anni di carriera. Nato a Roma il 2 febbraio del 1936, nel corso della sua carriera ha lavorato con alcuni dei più importanti attori e registi come Totò, Eduardo De Filippo, Alberto Sordi, Roman Polanski, Vittorio De Sica, Vittorio Gassman, Steno, Mario Monicelli, Sergio Corbucci, Aldo Fabrizi e Pupi Avati. 

Debuttò nel mondo dello spettacolo nel 1948, quando venne scelto da Vittorio De Sica e Duilio Coletti per interpretare il ruolo di Garoffi nel film ‘Cuore’, durante una serie di provini in giro per le scuole. Ancora giovanissimo, nel 1951, fu scelto da Steno e Mario Monicelli per affiancare Aldo Fabrizi e Totò in ‘Guardie e ladri’, con i quali successivamente lavorò in altri film.

Nel 1954 è la volta di ‘Un americano a Roma’, dove interpreta Romolo Pellacchioni detto “Cicalone”, l’amico di Nando Mericoni, interpretato da Alberto Sordi. Dopo un incidente automobilistico a causa del quale rimase in coma per più di un mese, l’incontro fortunato con Pupi Avati, che ne capì le doti drammatiche e lo scelse per il film ‘Tutti defunti… tranne i morti’, che portò Delle Piane a un importante mutamento professionale, mostrandone le qualità interpretative anche in ruoli drammatici: particolarmente riuscito quello dell’avvocato Santelia in ‘Regalo di Natale’ e ‘La rivincita di Natale’. Proprio grazie all’interpretazione si aggiudicò nel 1986 la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile alla 43ma Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Lo scorso maggio aveva celebrato i 70 anni di carriera con un grande evento all’Auditorium Parco della Musica di Roma.

IL RE LEONE VOLA A 14 MILIONI AL BOX OFFICE

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Successo al box office per Il Re Leone che incassa complessivamente 14 milioni al botteghino italiano. Nello scorso weekend il film Disney ha ottenuto 10.9 milioni piazzandosi in testa alla classifica dei film più visti.
Scende al secondo posto Fast & Furious – Hobbs & Shaw, con 623mila euro (in totale 5.2 milioni).
Apre al terzo posto Il Signor Diavolo con 422mila euro.

DAL CINEMA AI DIRITTI CIVILI, I 70 ANNI DI RICHARD GERE

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Sex symbol, attore di successo, attivista per i diritti umani. Richard Gere, 70 anni il prossimo 31 agosto, è l’emblema dell’artista impegnato, del divo hollywoodiano che forte della sua fama porta avanti battaglie politiche e per i diritti civili. Attirandosi in molti casi le antipatie dei governi, come è accaduto per via della sua posizione sul Tibet (che lo hanno reso inviso a Pechino) o più di recente per la vicenda della Open Arms (che lo hanno visto contrapposto in una polemica con Salvini). Probabilmente è nella storia della sua famiglia che vanno individuate quelle radici che ne hanno determinato il carattere e influenzato gli ideali. L’empatia per gli altri, il rispetto per le culture differenti, le battaglie a favore dei migranti sono gocce instillate nel dna da quegli antenati che nel 1620 a bordo della Mayflower, la nave carica di padri pellegrini salpati dall’Inghilterra, raggiunsero le coste americane.

Nato a Filadelfia in Pennsylvania, l’incontro con il teatro, che si rivelò dirompente, arriva ai tempi dell’università. Il passaggio dalle tavole di legno di un palcoscenico al set del cinema è rapido: il debutto è datato 1975 in un film senza gloria, “Rapporto al capo della polizia”. La svolta però è datata 1980 con quello che forse potrebbe essere definito il film simbolo che lo consacrerà al pubblico di mezzo mondo: “American Gigolò”. Due anni dopo è la volta della pellicola che ne ha celebrato il fascino, “Ufficiale gentiluomo”. Da quel momento Richard Gere, platealmente riconosciuto quale sex symbol, interpreterà ruoli spesso simili che ne faranno quasi un marchio di fabbrica: quello del play boy, dell’uomo di successo, dell’incallito sciupafemmine, dell’irresistibile amante ma anche del rassicurante padre di famiglia. Nella sua carriera ha pure portato sul grande schermo personaggi complessi come il Mr. Jones di Mike Figgins o il Re David di Bruce Beresford. Nel 1990 la sua fama raggiunge l’apice con “Pretty Woman”, la romantica storia di un manager che si innamora di una esuberante prostituta, Julia Roberts. Attrice che ritroverà poi pure in un altro cult sempre a firma di Garry Marshall, “Se scappi ti sposo”.

I suoi film hanno divertito, appassionato e soprattutto commoso: come in “Autumn in New York” accanto ad una strepitosa Winona Ryder, o in “Hachico”, una storia da lacrimoni che mette a dura prova la tenuta chi di ama gli animali. Se l’attore in questi anni ha esercitato il suo fascino sul grande schermo, figuariamoci nella vita reale. Richard Gere e le donne è un capitolo lungo che andrebbe trattato a parte. Sposato per la prima volta con la bellissima modella Cindy Crawford nel 1991, si separerà da lei 4 anni più tardi. “Credo che parte del problema della nostra relazione fosse che non siamo mai stati amici, come dei pari. Io ero giovane e lui era Richard Gere” racconterà qualche anno dopo la top model. Nel 2002 convola a nozze com l’attrice Carey Lowell da cui avrà il suo primo figlio: Homer James. Una relazione che durerà fino al 2015. Poi l’incontro con l’attuale compagna, Alejandra Silva, figlia di Ignacio Silva, famoso uomo d’affari spagnolo e vice presidente del Real Madrid e dalla quale qualche mese fa ha avuto un figlio.

Al di là della sua carriera, esiste un Richard Gere votato a favore delle battaglie pacifiste, alle quali ha speso parte della sua esistenza. Avvicinatosi ventenne al Buddismo, nel 1978 incontra il Dalai Lama in India, ed è lì che diventa un tibetano buddista praticante. Un legame con la religione o con lo stesso Dalai Lama che lo porteranno a sostenere le battaglie per l’indipendenza del Tibet. Un attivismo che non è stato perdonato dal governo di Pechino, che gli ha vietato di mettere piede in territorio cinese. “È stato determinante il mio incontro con il Dalai Lama e col Buddismo – dirà l’attore in un’intervista -. Ha cambiato la mia vita. Mi ha aiutato a liberarmi dei sensi di colpa che mi portavo dentro sin dalla nascita. Ora io sono un uomo più sereno e in pace col mondo”. Ma non c’è solo il Tibet al centro del suo impegno: le sue battaglie a favore degli ultimi del mondo, dei senza diritti, dei perseguitati è proseguito nei più disparati angoli del pianeta.

L’ultima battaglia in Italia, quando nelle scorse settimane è salito a bordo della nave Open Arms ancorata, con un carico di migranti, al largo di Lampedusa. Una presa di posizione che ha attirato su di sé le critiche del ministro degli Interni Matteo Salvini e l’odio social di molti haters che lo hanno accusato pure di ricevere fondi da ipotetici poteri occulti.  Alla vigilia dei suoi 70 anni Richard Gere non intende fermarsi. “Sono sempre in cerca di qualcosa che abbia un significato, un’emozione, un’ispirazione, qualcosa che sia importante, che sia nuovo. Cerco dunque delle sceneggiature che mi sorprendano, che mi tocchino”. Essenziale per poi sorprendere lo spettatore, per toccarlo, per farlo innamorare. Chissà forse è questa la ricetta del suo successo. Il successo di un attore affascinante e impegnato.

VENEZIA, DENEUVE E BINOCHE APRONO CON “LA VERITE”

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Una gloriosa star, un film da girare, una figlia sceneggiatrice, una giovane diva che tutti adorano… C’è tutto il cinema, nella sua prismatica potenza evocativa della vita e della finzione, al centro di “La vérité”, il primo film occidentale di Hirokazu Kore-eda, col quale Alberto Barbera ha giustamente scelto di aprire la 76ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Ed è la conferma della grandezza di questo regista giapponese, che di film in film ha saputo imporsi all’attenzione internazionale, sino alla Palma d’Oro dello scorso anno a Cannes per “Un affare di famiglia”. Qui al Lido, dove l’ha chiamato per l’apertura della Mostra con “La vérité”, Barbera l’ha voluto giustamente anche in competizione, dal momento che si tratta di un film tutt’altro che minore, di certo non uno di quelli che i grandi registi asiatici vengono a girare in occidente con cast internazionale. Hirokazu Kore-eda ha infatti costruito il suo film in aperta simbiosi con le star che ha sul set, a iniziare dalla più gloriosa di tutte, Catherine Deneuve, che si rispecchia nel personaggio di Fabienne, star francese dal luminoso passato, che ha appena dato alle stampe la sua autobiografia e sta per tornare sul set in una sorta di melodramma di fantascienza.
La sua villa nel cuore di Parigi è immersa nel clima decadente dell’autunno e accoglie l’arrivo dall’America di sua figlia, Lumir, interpretata da una sempre Juliette Binoche sempre più immediata e brava, assieme alla figlioletta e al suo uomo, un attore di serie B i nterpretato da Ethan Hawke. Le verità del loro passato familiare sono state rimosse dall’autobiografia di Fabienne e Lumir le rimprovera, in realtà senza troppa acrimonia, le omissioni e le invenzioni sulla sua infanzia. Ma a turbare Fabienne è molto di più il confronto sul set con la neodiva Manon (interpretata dalla bravissima emergente Manon Clavel), che tutti paragonano alla sorella della vecchia star, morta nel fiore dei suoi anni e della sua luminosa carriera. E’ su questa dinamica (che del resto rievoca la traccia lasciata nella biografia reale della Deneuve dalla morte prematura della sorella Françoise Dorléac, diva lanciatissima negli anni ’60) che Hirokazu Kore-eda costruisce il dramma di un film lievissimo, affabile nella sua ironia diffusa e intenso nella commossa partecipazione di finzione e realtà alla definizione della verità più intima dei personaggi. Ogni cosa si muove nel film con una leggerezza espressiva mirabile, trovata nel continuo slittare dei piani reali e finzionali in cui si muovono i personaggi. A governare questa magia e la sfrontata indifferenza con cui Fabianne governa la realtà, la finzione, la menzogna e la verità, trovando nella divertita interpretazione di Catherine Deneuve la giosta chiave. Soprattutto in contrapposizione alla placida intransigenza della Lumir interpretata da Juliette Binoche.
“La vérité” (che in Italia uscirà a inizio ottobre distribuito da Bim col titolo “Le verità”) si struttura del resto partendo dal solito grumo affettivo familiare che è tipico del cinema di Kore-eda, in cui i legami solo tanto autentici e profondi quanto lievi e apparentemente liberi. Le figure femminili sono sempre quelle che tengono le fila delle relazioni, mentre gli uomini giocano la loro identità quasi in maniera speculare rispetto alle attese delle donne, preservando una ingenuità che li rende quasi astratti.

“AD ASTRA”, BRAD PITT ALLA RICERCA DEL PADRE

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Ed è subito Brad Pitt: Venezia 76 ha appena acceso i riflettori e già si gioca uno dei suoi assi, l’attesissimo “Ad Astra” diretto dal grande James Gray e prodotto e interpretato dal divo più rude e sensibile della scena hollywoodiana. Siamo nel segno di una fantascienza spirituale, in cui l’effetto speciale è al servizio del vecchio sogno dell’Uomo di spingersi tra le stelle e dell’eterno bisogno dell’umanità di trovare il proprio spazio nel grande progetto dell’universo. James Gray, del resto, conserva la matrice umanistica propria del suo cinema, fatto di personaggi umbratili, introflessi, sospesi su un passato che li consegna a un destino passivo. E’ ciò che si può dire del maggiore Roy McBride, l’astronauta interpretato da Brad Pitt in “Ad Astra”: il suo valore indiscutibile è il riflesso della fama raggiunta da suo padre, il comandante Clifford McBride, un eroe delle missioni spaziali dato per disperso quando Roy era ancora un bambino, al culmine di una importante missione spinta alla ricerca di altre forme di vita.

Ora che la Terra subisce le conseguenze disastrose di una serie di devastanti onde energetiche che provengono da Nettuno, proprio lì dove la base spaziale del comandante McBride ha fatto perdere le sue tracce, Roy viene mandato in missione per raggiungere il padre e cercare di comunicare con lui. Inizia così un lungo viaggio tra le stelle che si trasforma in un percorso alla scoperta di se stesso, dei limiti della sua umanità e dell’origine del suo modo di essere: il mistero legato al padre è infatti lo spunto che Gray utilizza per definire uno spazio psicologico in cui il suo eroe diventa  l’emblema di una solitudine radicale, il bisogno dell’Uomo di non sentirsi solo nell’universo. Brad Pitt si spinge in una recitazione sobria e solida, che trova nel duetto finale con Tommy Lee Jones, nel ruolo del padre, il giusto punto di contatto. Il film galleggia negli spazi siderali e negli interni delle basi spaziali con una tensione visiva altissima e docile, senza cercare particolari picchi di tensione ma mantenendo alta la forza drammatica della ricerca.

“Ad Astra” è la diretta conseguenza di “Civiltà perduta”, il film precedente di Gray, col quale condivide il senso dell’avventura alla ricerca di nuove forme di vita, lì in Amazzonia qui nello spazio. Ed è il nuovo capitolo della storia di una fantascienza umanistica che si basa sul bisogno di definire un punto di contatto tra il cammino dell’umanità nel futuro e la matrice arcaica del suo essere.

POLANSKI PORTA A VENEZIA IL SUO “J’ACCUSE”

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Un film necessario, uno di quelli che servono al loro autore per dire qualcosa al mondo, al di là del loro valore intrinseco. E’ il caso di “J’accuse” con Jean Dujardin ed Emmanuelle Seigner, il film che Roman Polanski ha dedicato al celebre caso Dreyfus, che divise la Francia di fine ‘800 e segnò un punto di non ritorno su antisemitismo, uso persecutorio della giustizia e bisogno di capri espiatori. Il semplice fatto che il film arrivi in Concorso a Venezia 76 con lo strascico di polemiche sollevate dalle attiviste del movimento MeToo è emblematico del clima intransigente e che si respira in certi ambienti cinematografici. Accuse che lo stesso Polanski aveva definito frutto di isteria collettiva e vera e propria persecuzione, ancor più dopo la sua espulsione dall’Academy degli Oscar Hollywoodiani. E anche qui a Venezia le cose non vanno troppo bene, dal momento che, a fronte della levata di scudi del Direttore della Mostra Alberto Barbera, si è registrata la poco felice dichiarazione di Lucrecia Martel, Presidente della Giuria, sulla sua indisponiobilità a partecipare a eventuali party in onore del film.

A fronte di tutto ciò resta, per l’appunto, il film: “J’accuse”. Che, prendendo a prestito il celebre titolo dell’articolo di Zola che sollevò in Francia il velo sulle falsità delle accuse e le manipolazioni delle prove contro il capitano Dreyfus, ricostruisce con precisione di dati e forza drammatica gli eventi. Polanski preferisce non sceglie la prospettiva narrativa della vittima, ma quella del Colonnello Georges Picquart, il quale, ritrovatosi a capo dell’intelligence francese, si accorge delle gravi irregolarità nelle prove contro Dreyfus e si adopera per riaprire il processo e ristabilire la verità, anche a scapito della propria carriera. Polanski cerca con lucidità l’indignazione, evita ogni mezzo tono e stigmatizza il clima di palese antisemitismo che segnava la società francese di fine ‘800 e che orientò fortemente l’opinione pubblica contro l’ufficiale ebreo. L’integrità del colonnello Picquart diventa per Polanski l’ago della bilancia che consente di soppesare il rapporto tra la verità e l’onestà, spingendo il film in una dimensione drammaturgica che tiene sempre l’equilibrio.

Polanski non cerca del rsto l’empatia con la vittima: Alfred Dreyfus, interpretato da un quasi irriconoscibile Louis Garrel, non è rappresentato come una figura particolarmente simpatica, lasciando il campo piuttosto alla capacità di Picquart di essere dignitoso nella rovina in cui, per onestà intellettuale, s’è cacciato. Bravo Jean Dujardin nel renderne la sobrietà umana, senza mai eccedere in schematismi o facili ammiccamenti.

VENEZIA APPLAUDE JOAQUIN PHOENIX E IL SUO “JOKER”

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La follia è una risata in faccia ai potenti: eccolo il “Joker” di Joaquin Phoenix, scritto prodotto e diretto da Todd Phillips, gustatore hollywoodiano che, dopo svariate sbornie e viaggi tra amici (da “Una notte da leoni” a “Parto col folle”), si cimenta nel suo primo comics giocandosi la carta più affascinante delle tante del mazzo DC: la nemesi perfetta di Batman. Il fascino cinematografico della maschera clownesca del Joker è innegabile e ha sempre offerto l’estro a grandi interpretazioni di grandi attori, dal più classico Jack Nicholson del “Batman” di Tim Burton al tormentato Heath Ledger del “Cavaliere oscuro” di Nolan, per non citare il punkeggiante Jared Leto di “Suicide Squad”. Rispetto a questi modelli il “Joker” di Joaquin Phoenix ha la malinconia un po’ vaga e astratta che in genere caratterizza questo grande attore. Smagrito notevolmente per dare corpo all’emaciata disfunzionalità di Arthur Fleck, ovvero Happy come lo chiama la madre, Phoenix dipinge un Jocker proletario, un poveraccio che vive nei quartieri popolari di una Gotham City anni ’70: seguito dai servizi sociali per trascorsi psichiatrici, Arthur Fleck tira a campare facendo il clown da strada, mentre sogna di fare lo stand up comedian e bada alla madre malata.
La donna, poverina, vive nel mito di Thomas Wayne, il magnate di Gotham, per il quale ha lavorato e dal quale spera ancora di ottenere un magnanimo aiuto per Arthur. Gancio per porre in relazione il nascente Joker con l’ancor piccolo Bruce Wayne, lungo la linea d’ombra di un destino che li vedrà opposti nel segno di Batman.
Il film è costruito tutto addosso al malessere umano e psicologico di questo personaggio, perseguitato dal destino, condannato al sorriso triste del clown e alla felicità forzata impostagli dal nomignolo attribuitogli dalla madre. Todd Phillips fa di lui un outsider che sgorga dallo scenario di una Gotham anni ’70 mutuata dalle strade scorsesiane di “Taxi Driver”, traslando anche in questo il modello dalla graphic novel di Alan Moore e Brian Bolland dedicata al Joker (The Killing Jake), cui il film pare ispirarsi concretamente. La modulazione è classica, perché funziona letteralmente sull’iconografia del villain forgiato dall’ingiustizia della vita e dai soprusi subiti, ma ciò che colpisce del film è la volontà di tarare nascita e ascesa del Joker sul versante di una rivolta sociale che guarda alla ribellione dei miserabili contro i potenti e all’attacco al sistema. Ecco dunque che l’uccisione di tre bulletti da metropolitana, mezzemaniche in libera uscita dall’impero di Thomas Wayne, che aggrediscono Arthur e si ritrovano freddati dalla sua pistola, diventa l’inizio di disordini sociali condotti all’insegna della maschera da clown indossata da Arthur al momento dell’uccisione.
E questa strada è percorsa sino in fondo, spingendo anche sul pedale dello spettacolo che ridicolizza i drammi sociali, qui incarnato da un ottimo Robert De Niro (altra presenza scorsesiana del film) che interpreta il condutture televisivo Murray Flanklin, nel cui spettacolo avrà luogo lo showdown fondativo del Joker. Il film ha un impianto drammaturgicamente pieno, anche se sostanzialmente prevedibile, sia per impostazione visiva che per definizione caratteriale dei personaggi. La seconda parte risulta nettamente più convincente e va detto che intriga non poco l’impostazione politica data all’operazione. Così come appare interessante, soprattutto per eventuali sviluppi futuri, l’accenno a un legame tra il Joker e Bruce Batman Wayne, di cui è meglio non dire di più ora per non rivelare troppo.