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THEGIORNALISTI, NUOVO ALBUM “LOVE”

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I Thegiornalisti, gruppo capitanato da Tommaso Paradiso, hanno rivelato sui social network la copertina e la tracklist di LOVE, il nuovo album della band in uscita per Carosello Records il 21 settembre. L’attesa per il nuovo lavoro della band è terminata e la notizia è stata accolta calorosamente dai fan, che hanno reagito sui social con enorme entusiasmo, generando migliaia di condivisioni e commenti, incuriositi soprattutto dagli undici titoli che compongono la tracklist dell’album: “Overture”, “Zero stare sereno”, “New York”, “Una casa al mare”, “Controllo”, “Love”, “Milano Roma”, “L’ultimo giorno della terra”, “Questa nostra stupida canzone d’amore”, “Felicità puttana”, “Dr. House”.

VENEZIA, ALESSANDRO BORGHI E’ STEFANO CUCCHI

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Duetta idealmente con l’apertura ufficiale affidata al già polemico Michele Riondino, quella scelta da Alberto Barbera per il concorso Orizzonti: in scena (come l’anno scorso con “Nico, 1988”) c’è il cinema italiano e a rappresentarlo, come protagonista di “Sulla mia pelle” di Alessio Cremonini, è uno dei suoi volti giovani più significativi, quello di Alessandro Borghi, che un anno fa era chiamato a tagliare il nastro della serata inaugurale, nel ruolo quest’anno affidato a Riondino. Considerando che l’attore tarantino, notoriamente impegnato sul piano civile, non ha mancato già alla vigilia di polemizzare con Salvini e altri esponenti del governo, e che “Sulla mia pelle” è dedicato alla tragica morte di Stefano Cucchi, si tratta per la Mostra veneziana di un esordio fiammeggiante sotto il profilo politico. Vedremo cosa ne verrà fuori, intanto registriamo per il cinema civile italiano un nuovo film duro e preciso, che ricostruisce fedelmente la settimana di calvario che portò alla morte di Cucchi mentre era nelle mani della giustizia italiana, incarcerato per possesso di sostanze stupefacenti. Diretto con determinazione dal quasi esordiente Cremonini, “Sulla mia pelle” si basa prevalentemente sulla performance di un Alessandro Borghi che si trasforma fisicamente per incarnare il corpo quasi cristologico di Cucchi, dando respiro e autenticità a quelle immagini da obitorio che abbiamo tragicamente imparato a conoscere. Seguendo una scansione cronachistica degli eventi che hanno portato all’arresto e alla morte di Cucchi dopo esser stato pestato mentre era in stato di fermo, “Sulla mia pelle” costruisce un ritratto capace di far indignare e di porre domande. Senza risparmiare nulla della verità della vittima, di cui non viene offerta certo un’immagine idealizzata e ripulita, ma anche senza risparmiarci l’effige del martirio cui fu sottoposto nel corso dei sette giorni di sofferenza trascorsi nelle mani di uno Stato incapace di garantirne l’incolumità.
Cremonini segue con precisione il ritratto psicologico di un ragazzo borderline, sospeso tra errori passati e presenti e la voglia di trovare un equilibrio stabile. Così come insiste sulle responsabilità e sulle omissioni di un sistema che non ha saputo salvarlo e che a tutt’oggi non ha ancora stabilito una verità sulla sua morte. La stessa famiglia Cucchi viene raccontata nella sua fragilità e nella fermezza con cui poi ha messo in moto la ricerca degli eventi reali, chiamando in scena Max Tortora, nel ruolo del padre di Stefano, e Jasmine Trinca in quello della sorella Ilaria. Ma è soprattutto Alessandro Borghi a farsi carico del film, tenendolo ancorato a una dimensione drammatica coerente con la natura del suo personaggio, ragazzo di borgata dolcemente ribelle e sostanzialmente puro.

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A VENEZIA TORNA ALFONSO CUARON CON “ROMA”

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Il titolo felliniano rimanda a una memorialistica incantata, ma “Roma”, il film con cui il messicano Alfonso Cuaron torna in concorso a Veneziza 75, è un progetto che tratta i ricordi come una materia viva, sospesa sul controluce di un’infanzia incastonata negli anni ’70 del quartiere di Città del Messico che dà il nome alla pellicola, in cui il regista è cresciuto con i fratelli, i genitori e le giovani domestiche indigene, che erano parte integrante della famiglia. Non è certo la prima volta che Cuaron maneggia le tracce autobiografiche della sua esperienza messicana: già “Y tu mamà también”, che proprio al Lido fu premiato per la sceneggiatura nel 2001, insisteva su un’adolescenza viva e vivace, come del resto il tema della famiglia e dei rapporti esistenziali su cui si basa la prima giovinezza sono centrali in un po’ tutta la sua opera. In “Roma”, però, mira a ricostruire l’affresco di un’epoca incrociando alla trama delle esperienze familiari le tracce di uno sfondo che è chiaramente il vero punto focale del film: il quartiere borghese, le strade di una città in fermento, gli echi delle espropriazioni dei territori alle popolazioni mapuche che rimbalzano dalla provincia, gli scontri studenteschi contro il governo di Gustavo Diaz Ordaz repressi violentemente dall’esercito, i prodromi del grande terremoto che di lì a poco più di un decennio avrebbe distrutto la città… Il tutto rientra nel quadro di questa storia familiare, costruita attorno alla grande casa in cui serve Cleo, la giovane domestica indios che si occupa prevalentemente dei quattro figli (tre maschi e una femmina) di questa grande famiglia medioborghese.

Il padre medico è ufficialmente in Quebec per degli studi, ma in realtà ha abbandonato moglie e figli per un’altra donna e la casa tira avanti con la sola forza di volontà della giovane madre, determinata a preservare la faccia di fronte al vicinato e a garantire la serenità dei figli. Cleo però è il punto focale su cui Cuaron costruisce la sua narrazione, testimone silenziosa di una vita condotta sul filo della semplicità e della serenità preservata nonostante tutto. Nonostante anche il piccolo dramma di essere rimasta incinta di un teppistello di quartiere che l’ha scaricata appena saputo della gravidanza… Inciso nei colori precisi di un bianco e nero che corrisponde ai contrasti emotivi su cui si puntellano i ricordi, “Roma” è un esempio magistrale di cinema della memoria che riesce a tenere insieme il ritratto d’epoca preciso e mai ridondante, il riecheggiare degli affetti e le tracce di una visione politica della società rievocata. Sorretto da un virtuosismo espressivo mai fine a se stesso, “Roma” conferma in Alfonso Cuaron un maestro versatile e impeccabile.

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“A STAR IS BORN”, LADY GAGA DIVA A VENEZIA

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Piove nel giorno della star delle star di questa 75ma Mostra del Cinema di Venezia: la diva più attesa tra i tanti divi che transiteranno per la kermesse veneziana risplende in un cielo nuvoloso, ma il sorriso e l’entusiasmo dei fan già in fila davanti al Palazzo del Cinema non viene meno. Sono tutti lì che aspettano il red carpet più glam del festival, quello che porta alla attesissima prima mondiale di “A star Is Born” diretto e interpretato da Bradley Cooper, quarta versione cinematografica della storia forse più classica tra quelle che raccontano il mondo dell’entertainment, raccontata per la prima volta nel 1937 da William Wellman e prodotta da Selznick e poi reiterata di epoca in epoca con sempre nuove star cui dar vita. Ora tocca a Lady Gaga, al suo esordio come protagonista, incarnare il mito del successo dal basso. Al suo fianco c’è uno degli attori più quotati del momento, Bradley Cooper, esordiente dietro la macchina da presa, ma pronto a interpretare anche il ruolo del pigmalione. La scena che accoglie questa volta la parabola non è però cinematografica ma musicale: Cooper è infatti Jackson Maine, amatissima rockstar da stadio, ovviamente tarato da alcol, droga e un passato familiare duro.

Il caso lo porta una sera in un bar dove si sta esibendo Ally, ragazza italoamericana dalla voce meravigliosa ma senza speranze di successo: le hanno detto che le canzoni che scrive e canta sono fantastiche, ma lei non è sufficientemente bella per sfondare sulla scena e lei si è rassegnata a fare la cameriera a vita. Jackson si innamora subito di lei, del suo talento, della sua timidezza e senza pensarci due volte la trascina con sé nel rutilante mondo della musica, offrendole subito un palco in cui esibirsi e trasformandola in una star virale. Il seguito è come da copione: il loro amore cresce, la dipendenza reciproca si trasforma in matrimonio, poi l’immancabile manager che s’intromette nella loro armonia, prende sotto contratto Ally, trasforma lei, il suo aspetto e la sua musica… Ally è travolta dall’incanto di quel sogno che si sta realizzando, mentre Jackson precipita nelle proprie ombre e il cielo diventa sempre meno blu per la star e per il suo pigmalione. Niente di nuovo, insomma, se non che Lady Gaga, dopo essersi imposta sulla scena pop come la Madonna 2.0 sembra ora intenzionata a proporsi sulla scena cinematografica come la Barbra Streisand 2.0… Il tema del naso prominente giocato come carta falsa e la scelta di rifare un film già rifatto dalla Streisand nel 1976 parlano piuttosto chiaro, ma tant’è.

L’impegno va detto che ce lo mette, soprattutto se si considera che Lady Gaga e Bradley Cooper hanno cantato dal vivo sul set e le canzoni che si sentono sono esattamente quelle registrate durante le riprese. Peccato che poi il film sia un disastro cinematografico di rara inconcludenza oltreché discretamente noioso. Per quanto firmata dallo specialista di romance Will Fetters e dal premio Oscar Eric Roth, oltre che dallo steso Cooper, la sceneggiatura è approssimativa in ogni suo aspetto: nella definizione dei personaggi e delle loro psicologie, nello sviluppo della loro relazione, nel tratteggiare la scena musicale, nel definire il background da cui emergono. Il film procede per blocchi schematici, per situazioni appena abbozzate e subito lasciate, senza dare respiro e senza trovare mai vertici narrativi effettivi, scene memorabili, momenti che raggiungano un autentico climax. Bradley Cooper regista non ha idee né intuito o esperienza e come attore qui non trova mai la concentrazione. Lady Gaga recita più d’istinto che di partecipazione, slabbrando le scene di tensione e sciupando i momenti di tenerezza. Riuscire a fare un film così brutto da una storia così paradigmatica era difficile: Bradley Cooper e Lady Gaga ci sono riusciti.

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FEDEZ-FERRAGNI, A NOTO IL SÌ DELLA COPPIA SOCIAL

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La coppia più social d’Italia ha detto sì. Fedez e Chiara Ferragni, all’interno di una blindatissima Dimora delle Balze, ottocentesco casale tra le campagne di Noto e Palazzolo Acreide, nel Siracusano, si sono uniti in matrimonio. Elegantissima nel suo abito bianco Dior la fashion blogger, completo Versace per il rapper.

A celebrare le nozze il sindaco di Noto Corrado Bonfanti che in questi giorni ha più volto sottolineato le ricadute positive dell’ebvento per la città.

Una villa blindatissima e inaccessibile ai curiosi quella scelta per la cerimonia con 150 invitati. Dall’esterno della Dimora delle Balze si vede anche una ruota panoramica allestita per la festa che sguirà la cerimonia di nozze.

Ieri sera, prima del party di benvenuto per gli invitati a Palazzo Nicolaci, nel centro di Noto, Fedez, Chiara e molti vip hanno regalato alla folla baci, sorrisi e qualche stretta di mano.

Molti gli invitati famosi arrivati in Sicilia per l’evento: come Bebe Vio, Giusy Ferreri, Bianca Balti, Manuel Agnelli. Anche se sono le assenze quelle che spiccano di più: J-Ax, che era dato per sicuro nella lista degli invitati, alla fine ha declinato l’invito. Assenze pure tra i colleghi di Fedez nella giuria di X-Factor, come Mika, che ha comunque usato Twitter per fare gli auguri.

VENEZIA, MINERVINI RACCONTA AMERICA RAZZISTA

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Il coraggio di filmare, la decisione nel raccontare e il giusto equilibrio tra osservazione e partecipazione: sono le doti del nuovo lavoro che Roberto Minervini ha realizzato, come sua abitudine, nel cuore più profondo dell’America. Secondo italiano nel Concorso di Venezia 75, “What You Gonna Do When the World’s on Fire?” compone, in un bianco e nero che sembra uscito dai reportage fotografici d’epoca, il ritratto di un paese che si trascina da sempre nella questione razziale, andando a scovarla nelle pieghe di quel profondo sud che nel 2017 (quando il film è stato girato) era particolarmente pressato dalle violenze sui neri, dalle proteste e dalle uccisioni da parte della polizia. Seguendo il suo metodo, Minervini è entrato in relazione con le situazioni autentiche, trovando un contatto nelle realtà umane e sociali più critiche, osservando, empatizzando e mettendo in immagini cinematografiche quello che andava vivendo. La scena offerta dal Mississippi è quella estremamente tesa di uno stato dove l’insorgenza del nuovo Ku Klux Klan si andava manifestando nella violenta uccisione di neri tanto quanto negli atti intimidatori.

Il regista allora ha seguito le azioni di protesta, i sit-in e le riunioni di una falange delle nuove Black Panther, che nel finale si ritrovano faccia a faccia con la reazione della polizia davanti al tribunale al quale chiedevano giustizia per l’uccisione di due neri. Allo stesso modo Minervini si sofferma sulle giornate di gioco di due ragazzini neri incontrati nel quartiere durante le riprese, due fratelli, Ronaldo e Titus, il primo più grande del secondo, che appare spaventato da ogni cosa, mentre a casa la madre non manca di raccomandarsi con loro sul comportamento, lo studio e l’orario di ritorno a casa. C’è poi Judy, che non è più giovane e ha una madre che sembra una scultura antica, fragile eppure ancora resistente: lei ha un passato di violenze e droga dal quale s’è liberata, ma ora sta vedendo crollare il suo sogno, investito nell’apertura di un bar, a causa del processo di gentrificazione del quartiere, portato avanti a colpi di affitti lievitati, sfratti e vendite degli immobili ai bianchi. Il tutto è incorniciato nella presenza di un gruppo di neri che tiene viva la tradizione degli indiani del Mardi Gras risalente all’Ottocento, quando gli africani americani non erano autorizzati a partecipare alle parate solenni : una sorta di rimando di Minervini a una spiritualità pagana del luogo, su cui il film si apre e si chiude.

“Che fare quando il mondo è in fiamme?” segue queste storie per descrivere uno scenario problematico ma soprattutto per far emergere la verità umana delle figure che si muovono in quella scena, al di là della contrapposizione razziale. Va detto che rispetto ai suoi lavori precedenti (“Louisiana” e “Stop the Pounding Heart”), qui il regista sembra troppo geometrico, equilibrato, qua e là incline a costruire la scena che pone dinnanzi alla macchina da presa. Resta comunque un enorme talento non solo documentario, ma soprattutto cinematografico, per la capacità di tenere l’equilibrio narrativo, la giusta distanza e la forza emotiva delle scene.

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VENEZIA, WILLEM DAFOE E’ VAN GOGH

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L’appeal cinematografico di Vincent Van Gogh non perde colpi e approda al Lido, nel concorso di Venezia 75, portato da Julian Schnabel con “At Eternity’s Gate”. La ritrattistica d’artista ha una marcia in più, in questo caso, perché la firma di Schnabel garantisce un approccio dinamico alla semplice ricostruzione biografica che pure il film propone, basandosi anche sulla prestazione di grande livello di Willem Dafoe. Adottando uno scandaglio introspettivo delle vicende esistenziali di Van Gogh, Schnabel segue la linea di una narrazione che insiste sulla sua incapacità di adattarsi ai canoni artistici ma anche esistenziali dell’epoca, raccontando soprattutto il tormento del suo sentirsi poco adatto al rapporto con la gente e l’estasi della sua passione per l’espressione pittorica, attraverso i segni forti, decisi come i colori che utilizzava. Centrali nel racconto sono il rapporto strettissimo che lo legò all’amato fratello Theo e il legame quasi simbiotico che strinse con Paul Gaugin, interpretato nel film da Oscar Isaac. La struttura narrativa procede con ordine attraverso gli eventi, partendo dalla decisione di lasciare la fredda Parigi per raggiungere la calda luce del sole del Sud. Troviamo dunque Van Gogh ad Arles, nella famosa casa gialla dove starà a lungo, sino all’insorgere dei primi fatti psicotici che lo portarono a reiterati ricoveri.

Schnabel costruisce un reticolato visivo che si spinge spesso nella dimensione soggettiva, per interpretare l’esperienza visuale da cui nasceva l’approccio pittorico dell’artista. L’incapacità della gente del tempo di vedere la bellezza delle sue opere, il sostegno di Gaugin e del fratello Theo, i contrasti con i paesani, tutto ruota attorno alla definizione di un rapporto disadattato tra l’artista e il mondo in cui vive. Sino al mistero della morte a seguito di un colpo di pistola, che Schnabel spiega come un incidente a seguito del gioco pericoloso di alcuni ragazzini del paese. Willem Dafoe è come sempre intenso sia sotto il profilo umano che sotto quello espressivo e dà un’interpretazione di Van Gogh che non passerà inosservata.

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“VOX LUX”, NATALIE PORTMAN POPSTAR A VENEZIA

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Gestire il disturbo post traumatico da stress diventando prima una candida pop singer quattordicenne e poi una disturbata e disturbante pop star trentaduenne: è la parabola che racconta lo statunitense Brady Corbet nella sua opera seconda “Vox Lux”, presentata in Concorso a Venezia 75. Il suo primo film, “L’infanzia di un capo”, tre anni fa gli era valso sempre qui alla Mostra sia il premio per la regia del concorso Orizzonti, sia quello per la migliore opera prima. Frequentatore della scena indipendente americana, giovane attore per registi come Greg Araki e Sean Durkin, Corbet torna alla Mostra nella competizione principale con un film dalle grandi ambizioni ma dai risultati molto deludenti. Definito dallo stesso Corbet un melodramma storico ambientato nell’America tra il 1999 e il 2017, “Vox Lux” racconta la storia di Celeste, una ragazzina della provincia americana che a 14 anni sopravvive per miracolo alla strage di studenti messa a segno da un suo compagno di classe e, cantando durante la cerimonia funebre una canzone scritta per l’occasione assieme alla sorella maggiore, diventa una piccola star nazionale.

La ritroviamo diciotto anni dopo, interpretata da Natalie Portman, ormai diventata una acclamata pop star al culmine della sua carriera, ovviamente alcolizzata e dedita a tutti gli eccessi del caso, con una figlia quattordicenne e la sorella che la segue nell’ombra da tiranneggiare: come dire è nata una stella ancora una volta… Qui però Corbet ha l’ambizione di descrivere il rapporto tra la scena globale e quella individuale in cui si muove la protagonista, cercando di fare di lei una sorta di metafora dei cambiamenti intercorsi nel passaggio tra XX e XXI Secolo nella società e nella cultura americana. L’epilogo che rievoca una delle tante stragi di studenti perpetrate negli States diventa il punto di fuga per la definizione di una scena in cui la giovane protagonista diventa una sorta di scheggia impazzita di quelle esplosioni, ribaltando la violenza dalla quale s’è salvata miracolosamente in una forma di potere legato allo showbiz. Non che le intenzioni del regista siano in realtà troppo chiare, probabilmente perché il film finisce poi nelle maglie della ingombrante presenza (anche produttiva) di una Natalie Portman che si cuce il film addosso.

Se infatti nella prima parte Corbet sembra controllare con una certa sapienza i fattori che mette in scena, nel preciso istante in cui subentra la Portman il film diventa un noioso pasticcio di ambizioni e scontatezze, che si consegna a un lungo e inutile finale on stage, con la Portman che per una quindicina di minuti si produce in uno show à la Madonna. Girato e presentato alla Mostra in pellicola, il film è stato accolto da non pochi fischi della stampa, tutti pienamente meritati.

cau