Home Spettacoli Pagina 368

Spettacoli

ROYAL WEDDING: MEGHAN HA DETTO SÌ AL PRINCIPE HARRY

0

Meghan Markle ha detto il fatidico “sì”. L’attrice americana si è dunque sposata con il principe della famiglia reale britannica Henry del Galles, noto come Harry. I due giovani, rispettivamente 36 e 33 anni, sono stati nominati ufficialmente, dalla Regina, Duca e Duchessa di Sussex.

Fra i numerosi ospiti, nella cappella di Saint George del castello di Windsor, visibilmente commossi la mamma della sposa da una parte e il Principe Carlo, con William, duca di Cambridge, dall’altra.

“Sei meravigliosa”: queste le prime parole pronunciate da Harry alla sposa, al momento dell’arrivo di quest’ultima all’altare.

(ITALPRESS).

CANNES, MARCELLO FONTE MIGLIOR ATTORE

0

Dopo l’assenza dello scorso anno, l’Italia torna in concorso nella selezione ufficiale del festival di Cannes e conquista il premio per il miglior attore al calabrese Marcello Fonte per “Dogman” di Matteo Garrone e per la miglior sceneggiatura (ex equo) per “Lazzaro felice” di Alice Rohrwacher.  Palma d’Oro per il film “Shoplifters” (“Un affare di famiglia”) del regista giapponese Hirokazu Kore-Eda.

“Siamo molto felici, eravamo già molto sorpresi e contenti della reazione che avevamo avuto all’anteprima, molto calda. Ora il fatto di potere avere un riconoscimento per il film, che è nelle sale”, ha detto al Tg1 Matteo Garrone.

“Grande successo per il cinema italiano che con i premi a Cannes dimostra, ancora una volta, di essere vivo e apprezzato in tutto il mondo”. Così il ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, Dario Franceschini si complimenta con Alice Rorhwacher e con Marcello Fonte per i prestigiosi premi vinti a Cannes.

 

MUSICA, TORNANO GLI AVION TRAVEL

0

L’ultima esperienza risale a quindici anni fa. Gli Avion Travel sono tornati in uno studio di registrazione dando vita a “Privè”, il nuovo album che uscirà domani. 

“È il titolo di una canzone dell’album. Consideriamo le faccende private narrate in questa canzone un’occasione di lettura delle faccende che riguardano tutti”, spiega Peppe Servillo. 

Un album arrivato dopo un congruo lasso di tempo dal precedente e che rivela la doppia anima del gruppo: “C’è la speranza e c’è l’invocazione. Vogliamo che la parola garantisca una possibilità concreta per alimentare le relazioni individuali: l’amore, l’amicizia, ma anche i semplici incontri. Sono passati tanti anni dal nostro ultimo album, anni durante i quali ognuno di noi si è messo alla prova, affrontando dei percorsi personali. E poi c’è stata la scomparsa di Fausto Mesolella, avvenuta dopo che avevamo iniziato a lavorare al disco. Per questo abbiamo deciso di non inserire le chitarre nel lavoro ultimato, con l’eccezione ovviamente delle parti che aveva già suonato”, aggiunge Servillo. 

Un evento che ha avuto ripercussioni tangibili sulla vita dei ‘nuovi’ Avion Travel: “Ci manca moltissimo. Nella vita privata, ma soprattutto sul palco. Fausto era una persona molto estrosa e non ritrovarlo più vicino a noi ci provoca molto dolore”. 

“In studio, invece, si può dire che lui sia sempre al nostro fianco: nella registrazione dell’album abbiamo preso alcune decisioni immaginando quello che lui avrebbe detto. La sua morte ci ha fatto capire quanto siamo precari. Viviamo in un mondo che quasi ci convince di essere immortali, ma non è così”, sottolinea ancora Servillo. La pubblicazione del disco sarà seguito da un tour, del quale sono state annunciate le prime date: il 15 giugno al Teatro Socjale di Piangipane (RA), il 16 giugno all’Auditorium Fondazione Cariplo di Milano, il 23 giugno al Museo Nazionale Ferroviario di Pietrasarsa di Portici/Napoli, il 29 giugno al Teatro Romano, nell’ambito della manifestazione Estate Fiesolana a Fiesole, il 2 luglio all’Arena Estiva Fondazione Teatro Due di Parma, il 20 giugno all’Estate Romana Casa del Jazz, nella capitale, il 22 luglio in Piazza San Nicola ad Anacapri (NA) e il 31 luglio in Piazza Plebiscito a Ceglie Messapica (BR).

 

E’ MORTO TOM WOLFE

0

E’ morto, all’età di 87 anni, Tom Wolfe, all’anagrafe Thomas Kennerly Wolfe Jr. Nato a Richmond, fu un saggista, giornalista, scrittore e critico d’arte. Tra le sue opere più famose, “Il falò delle vanità”.

Fu l’inventore di alcuni neologismi entrati a far parte del lessico, tra cui radical chic.

CANNES: MATT DILLON SERIAL KILLER PER VON TRIER

0

L’uomo cattivo Lars Von Trier, il regista bollato come persona non grata sette anni fa per una infelice risposta sui nazisti data in conferenza stampa, torna a Cannes 71 con un film su un uomo molto più cattivo di lui… Un serial killer di nome Jack, di professione ingegnere (con aspirazioni da architetto) e con il volto di Matt Dillon. Ha l’inferno in testa, questo uomo cattivo, e ce lo racconta in cinque “incidenti” (come li chiama lui) scelti a caso tra gli oltre sessanta che compongono la sua carriera di assassino seriale. Più di sessanta efferati omicidi, stipati nella cella frigorifero che ha in casa e fotografati in pose artistiche per essere inviati ai giornali con la firma di Mr. Sophisticated: una storia lunga anni, che Lars Von Trier immagina ovviamente alla sua maniera, ovvero come un saggio sulla lucidità della follia omicida, cucito addosso a un personaggio che ha le stimmate del genio. Il meccanismo di proiezioni narcisistiche è da sempre ben oliato nella prassi registica di questo regista ossessionato dal culto di se stesso: il film è un labirinto di elucubrazioni teoriche spiattellate per oltre due ore e mezza, suddivise in 5 capitoli, uno per “incidente”, più un epilogo dantesco, con Bruno Ganz (l’angelo sul cielo berlinese di Wenders) che interpreta Virgilio, ovvero quel Verge che per tutto il film ha ascoltato pazientemente le narrazioni di Jack e che alla fine lo porta in gita turistica nell’inferno che ha costruito con le proprie mani. L’inizio è invece marcato dalla presenza di Uma Thurman, la Sposa tarantiniana che qui appare in versione di attraente signora, ferma con l’auto in panne sul ciglio della strada, che chiede aiuto a Jack e lo provoca sul suo aspetto da serial killer, sino a evocare il demone che sin dall’infanzia giace in lui. Un colpo secco di crik in faccia e la tentatrice è accontentata da Jack, mentre in sala ci si prepara al peggio che deve ancora arrivare: una sequenza di scene raccapriccianti che nella proiezione pubblica hanno provocato l’esodo della parte più sensibile del pubblico e magari anche di quella più annoiata… Ché, va detto a scanso di equivoci, “The House That Jack Built” non è proprio un horror in quota blockbuster: serrato sulle teorie del serial killer in cerca di punizione in un mondo che è ormai cieco di fronte all’orrore che ha sotto gli occhi e sordo alle grida di aiuto levate delle vittime, si arrovella su questo tutto sommato banale criterio morale al quale in fin dei conti si affida.
Nulla di più, con tanto di tirata di Jack sui nazisti e sull’Olocausto, chiaramente messa lì da Von Trier a scusarsi del “misunderstanding” di sette anni fa. Il che non ha certo evitato che il film venisse proiettato a Cannes fuori concorso e, per buona misura, privo della tradizionale sigla del Festival… Lars Von Trier se ne fa certamente una ragione, il film si spinge dove vuole senza remore, giovandosi della presenza di Matt Dillon tanto quanto del genio del suo autore. Peccato che “The House That Jack Built” segni un netto passo indietro di Von Trier rispetto ai livelli ormai raggiunti negli ultimi suoi lavori, da “Antichrist” a “Melancolia” sino a “Nymphomaniac”.

cau

STAR WARS, A CANNES LE ORIGINI DI HAN SOLO

0

Prima di tutto il nome, Han Solo: è una delle prime cose che impariamo del mitico eroe alternativo della saga di Star Wars grazie a “Solo: A Star Wars Story”, lo spin-off messo in cantiere dalla Disney e lanciato su scala globale al Festival di Cannes. La nominazione dell’eroe è del resto cosa fondamentale, questo lo sappiamo, sicché fa il suo effetto scoprire che Han fa di cognome Solo perché non ha mai conosciuto i suoi genitori: è cresciuto da solo e quindi l’ufficiale dell’esercito imperiale che lo arruola gli affibbia quel nome. Bella scoperta per chi ama questo classico ‘lone hero’ creato da George Lucas e ora incastonato nelle trame parallele della saga stellare in versione disneyana.

La giovinezza dell’eroe è importante e il film firmato da Ron Howard che sbarca nei cinema di tutto il mondo ne esalta le caratteristiche, retrodatando il suo celebre carattere fatto di ironia, avventurismo, fedeltà, temerarietà. L’icona di ieri, Harrison Ford, si riflette nell’icona di oggi, Alden Ehrenreich, che di sicuro non è altrettanto carismatico, ma quanto meno mantiene la figura e ripropone fedelmente le pose plastiche di Harrison, come fosse un action figure in scala 1:1. Ma, niente paura, non c’è da esser cinici ne sfiduciati rispetto al film: “Solo: A Star Wars Story” funziona come si deve, tiene il ritmo con energia e simpatia, forse accumula troppo materiale narrativo e spreca qua e là qualche personaggio, ma that’s ok. 

Quel che conta, per la continuity dei fan, è che accanto a lui c’è il fido Chewbacca, che all’epoca di questo primo incontro con Han ha già 190 anni ma dopo una scazzottata iniziale, nel fango di una lurida prigione imperiale, diventa già il fidatissimo compagno di avventure che tutti amiamo. La storia, senza dover spoilerare troppo, si colloca prima ancora che prenda corpo la Ribellione alle mire dell’Impero. Han è un ragazzo cresciuto per le strade del pericoloso pianeta Corellia assieme all’amata Qira (una raggiante Emilia Clarke), ragazzina di strada non meno di lui, insieme alla quale cerca di trovare una via di fuga dal pianeta, dominato dalla capoclan Lady Proxima, creatura anfibia tutt’altro che gradevole e pacifica. La fuga dei due, pagata con una dose di coaxium, un raro minerale usato come combustibile per le astronavi, riesce però a metà: Qira viene catturata e Han le promette che tornerà a prenderla. Come? Coronando il suo sogno di diventare un pilota stellare arruolandosi nell’esercito Imperiale.

Brutto inizio d’avventura per il giovane eroe, che in realtà dal sogno delle stelle si ritrova nel fango del campo di battaglia come un semplice soldato. Ed è proprio qui che incontra la cricca di avventurieri con la quale farà subito comunella, quella guidata da Beckett (sempre al top Woody Harrelson) e dalla sua temeraria compagna Val (Thandie Newton). Il coaxium – da rubare – tornerà al centro della loro storia, perché sarà il combustibile dell’intera avventura, in cui si sommano immancabilmente, amore, tradimento, pericolo, eroismo, sacrificio e l’intera formula della saga di “Star Wars”. La regia di Ron Howard garantisce la solidità, del resto chi può conoscere Han Solo meglio di lui, che è stato compagno di giochi di George Lucas ai tempi di “American Graffiti”?

cau

 

A CANNES “UN AFFAIRE DE FAMILLE” DI KORE-EDA

0

Il piccolo mondo fuori norma di Hirokazu Kore-eda torna a farsi amare dal pubblico di Cannes, portando in concorso sulla Croisette “Une affaire de famille”, ancora una storia di affettività trasversali da questo grande regista giapponese, rivelatosi proprio qui a Cannes più di vent’anni fa con “Maborosi”, cui sono poi seguiti film amatissimi come “Afterlife”, “Nobody Knows”, “Little Sister” e “Ritratto di famiglia con tempesta”. Tutti film in cui la famiglia è elemento centrale, declinata però in una versione differente da quella cui siamo abituati, come una somma di vettori affettivi in cui i legami di sangue sono secondari rispetto ai legami formativi, emotivi, psicologici. Insomma una famiglia sostanziale più che dettata da vincoli di parentela diretta, in cui l’infanzia è il baricentro di un equilibrio che sgancia il gruppo dalle regole rigide e prestabilite della società. Tutti elementi che ritornano puntualmente in “Une affaire de famille”, storia di una famiglia fuori dal comune, che vive strappando la giornata tra il poco lavoro e qualche furto nei supermercati. Sei persone che vivono serenamente nella piccola casa della vecchia Hatsuke, vedova che tira con la pensione del marito morto e tiene con se la nipote Aki, ma anche la coppia composta da Osamu e Nobuyo, marito e moglie che tirano la giornata tra lavoro malpagato e qualche furto nei negozi per arrotondare la spesa. Ad aiutare Osamu nell’impresa è il piccolo Shota, che si direbbe loro figlio, ma evidentemente non lo è, visto che il ragazzino, pure molto legato a quei genitori, non se la sente proprio di chiamare quell’uomo papà. Shota sa bene di essere stato trovato e sostanzialmente (non legalmente…) adottato dalla coppia e quando una sera, tornando a casa, vedono al freddo sul balcone la piccola Juri, Osamu decide di portarla con sé a casa.

La bimba ha il corpo coperto di lividi e alla fine Nobuyo accetta di tenere la bambina con loro, come una nuova figlia, nascondendola al mondo proprio come avevano fatto con Shota. Questa famiglia trasversale vive fuggendo dalle regole sociali, duplicando in una chiave più lieve lo spunto narrativo che era appartenuto all’indimenticato capolavoro di Kore-eda, “Nobody Knows”. In “Une affaire de famille”, però, gli eventi scorrono in armonia, perché queste surrettizie figure parentali sono dolci e accoglienti pur nella loro visione spiccia e approssimativa delle regole sociali. E del resto sappiamo bene che il film è destinato a portarci verso una svolta che vedrà sfaldarsi questa meravigliosa e impropria scena affettiva sotto i colpi del mondo reale che da fuori incombe e finirà con l’entrare attraverso la porta in quella casa. Hirokazu Kore-eda anche questa volta trova dunque la sua poetica nella definizione di strati sociali differenti dalla norma, in cui colloca una visione alternativa della realtà ma non meno ordinata e coerente sotto il profilo morale, affettivo, psicologico. Il film definisce i rapporti tra i personaggi di questa impropria famiglia con una precisione emotiva straordinaria, lasciando ad ognuna delle figure in campo lo spazio per esprimere una visione spiazzante ma anche commuovente dei legami. Ciò che colpisce è la capacità del regista di trovare una dimensione morale nelle pieghe più inattese della realtà umana, affidandosi a una drammaturgia che scolora il dramma nella commedia dei sentimenti, senza mai perdere di vista un sostanziale approccio realistico e una invidiabile precisione psicologica. In questo Kore-eda trova sempre conforto in un cast di interpreti fidati che lo aiutano a definire adeguatamente le sfumature dei personaggi e delle situazioni.
cau

A CANNES “3 VISAGES” DI JAFAR PANAHI

0

Il cinema in cattività di Jafar Panahi trova sempre una via d’uscita, una sua strada che lo conduce verso la narrazione del suo mondo e, ovviamente, dell’Iran contemporaneo. Per quanto ancora formalmente costretto a non girare film, Panahi è in Concorso a Cannes 71 con “3 visages”, ma non ha potuto accompagnare il film al festival, non tanto per un divieto ad uscire dal suo paese quanto, spiega il direttore Thierry Fremaux, per il rischio di non potervi più tornare. I suoi lavori comunque escono, arrivano ai festival e arrivano al pubblico, distribuiti nel mondo intero come è accaduto anche con il precedente “Taxi Teheran”, uscito anche in Italia dove vedremo presto anche questo “3 visages”, già acquistato da Cinema Distribuzione. Il film è ancora una volta sulla strada, a bordo di una vettura spinta verso il Nord-Ovest del paese, nella regione azero-iraniana, da cui proviene la famiglia del regista (che infatti ha girato nei villaggi d’origine dei suoi genitori e dei nonni). La storia vede la celebre attrice iraniana Behnaz Jafari, popolare star di serie tv, accompagnata da Panahi stesso in un viaggio verso un villaggio, in cerca di una ragazza che ha mandato un videomessaggio in cui sembra che si impicchi, dopo aver chiesto il loro aiuto perché la famiglia non vuole che studi cinema. Il dubbio che si tratti di un vero gesto disperato o solo di una messa in scena sconvolge l’attrice e la spinge a farsi accompagnare dall’amico regista in quella regione lontana. La verità che scopriranno è fatta di una antica umanità pregna di tradizioni, legami, pregiudizi, rituali, in cui una ragazza dotata di talento e personalità viene considerata una matta ed è costretta ad obbedire al padre e al futuro marito. Jafar Panahi segue la traccia di partenza sino infondo, percorrendo polverose strade di provincia nel segno di un possibile suicidio, proprio come il protagonista del “Sapore della ciliegia” del compianto Abbas Kiarostami percorreva la periferia di Teheran. In “3 visages”, del resto, Panahi coniuga come un omaggio a Kiarostami la spinta poetica costante del proprio cinema, basato sul dialogo tra finzione e realtà, tra sguardo realistico e messa in scena cinematografica.

Il film nutre il dubbio che tutta la situazione sia una finzione ordita da Panahi stesso a scapito della diva per coinvolgerla nel suo film, ma poi la scelta di girare nei villaggi azeri da cui è originario testimonia di una necessità di radicare il suo cinema in se stesso, sentita anche più forte in ragione del divieto impostogli dalle autorità iraniane. Come la vecchia attrice che vive in quel villaggio isolata dal mondo e capace ormai solo di scrivere poesie e dipingere quadri, Panahi si proietta in uno scenario astratto e originario per ritrovare una sua ragione di essere e restituire alla verità del cinema la verità della sua terra. Il film è coinvolgente e semplice nella sua poesia realistica e trova nella presenza della star Behnaz Jafari un punto di forza carismatico e efficace.

cau