La sostenibilità come pilastro per il rilancio del Paese: in questa fase critica per l’economia italiana, Intesa Sanpaolo rafforza ulteriormente il proprio impegno a favore delle piccole e medie imprese con una nuova soluzione per il credito denominata Sustainability Loan. Grazie a un plafond di 2 miliardi di euro il Gruppo sostiene le PMI che intendono effettuare investimenti innovativi in base ai criteri ESG (Environmental, Social, Governance) in coerenza con il Piano della Commissione Europea per una crescita sostenibile. Nell’ambito di questa iniziativa, il primo gruppo bancario italiano conferma il proprio ruolo strategico di catalizzatore della trasformazione ESG del Paese, supportando le imprese che ambiscono a migliorare il profilo di sostenibilità anche grazie alla consulenza dei Desk specialistici del Gruppo con l’obiettivo di affiancarle in un percorso di cambiamento strutturale.
Un aspetto significativo nell’ottica di far comprendere alle imprese le aree di intervento per consolidare il proprio posizionamento competitivo e permettere ritorni stabili nel tempo, creando valore condiviso con tutti gli stakeholder e correlando le decisioni di natura economica e finanziaria ai loro impatti ambientali e sociali. In questo contesto si inserisce il nuovo Sustainability Loan di Intesa Sanpaolo, caratterizzato da una formula innovativa che permette la condivisione degli obiettivi di miglioramento in logica ESG mediante specifici indicatori certificati dall’impresa nella nota integrativa al bilancio.
Previste dal nuovo tipo di finanziamento anche forme di “premialità” rivolte alle imprese che raggiungono obiettivi di miglioramento sostenibile. Ed è in questa cornice che rientra il più ampio impegno del Gruppo nell’agevolare l’accesso al credito per le PMI in coerenza con gli obiettivi del Piano di Impresa 2018 -2021, promuovendo soluzioni dedicate alla transizione ESG e green di imprese e famiglie. Con l’obiettivo di diventare un punto di riferimento anche in termini di sostenibilità in Italia, la Banca ha messo a disposizione un plafond creditizio dedicato alla Circular Economy pari a 5 miliardi di euro nel quadriennio, ha lanciato nel 2019 il primo Sustainability Bond focalizzato sull’economia circolare dopo aver debuttato nel 2017 come prima banca italiana con un green bond da 500 milioni di euro destinato a finanziamenti a sostegno delle energie rinnovabili e dell’efficienza energetica.
Il Gruppo si è reso disponibile inoltre a finanziare con 50 miliardi di euro di nuovi crediti la realizzazione del green deal europeo nel Paese. Coerentemente, Intesa Sanpaolo ha predisposto l’offerta di finanziamenti “green”, ossia mutui e prestiti personali che premiano con condizioni di tasso vantaggiose chi acquista immobili ad elevata efficienza energetica; inoltre, sulla base delle norme introdotte dal Decreto Rilancio sull’innalzamento al 110% della detrazione per le spese relative ad interventi di efficientamento energetico e di riduzione del rischio sismico (ecobonus), la Banca metterà a disposizione di privati, 2 condomini e aziende di ogni dimensione soluzioni finanziarie modulari e flessibili prevedendo l’acquisto dei crediti di imposta dei contribuenti.
Nel corso del mese di luglio, infine, Intesa Sanpaolo ha avviato un nuovo importante progetto per il polo universitario di Grugliasco (Torino) interamente finanziato dal Gruppo, che si estenderà su una superficie di 121.660 metri quadri e prevede la realizzazione di un complesso di edifici sostenibili integrati nell’ambiente circostante con ricadute positive per il coinvolgimento di imprese e startup del territorio nell’ottica di stabilire un legame forte tra ricerca e tessuto produttivo.
Stefano Barrese, responsabile Banca dei Territori Intesa Sanpaolo, ha affermato: “L’adesione ai principi ESG è tema cruciale per Intesa Sanpaolo e per i nostri stakeholders. Tra i numerosi elementi concreti per la realizzazione di questa transizione, la nuova linea di due miliardi per finanziamenti allo sviluppo sostenibile sarà un passo ulteriore per il rilancio delle PMI che sempre più si orientano verso la riduzione dell’impatto ambientale e il miglioramento in ambito sociale e di governance. Il nostro impegno come banca sta anche nel supportare i clienti nella definizione di obiettivi improntati ai criteri ESG, proponendo soluzioni dedicate e coerenti con essi”.
(ITALPRESS/WEWELFARE.IT).
Un sostegno alle Pmi attente all’ambiente
Enpam, il welfare al centro anche prima del Covid
La Fondazione Enpam ha approvato il bilancio sociale 2020. Si tratta di un documento che fotografa l’ultimo anno (2019) prima della pandemia. Indica tendenze e riassume comportamenti e azioni che l’emergenza coronavirus hanno aggiornato. Ma offre una indicazione forte rispetto ai temi del welfare per la categoria dei medici e degli odontoiatri. Come ricorda il presidente della Fondazione (rinnovato per i prossimi cinque anni al vertice della Cassa), Alberto Oliveti: “La promessa era: se le proiezioni attuariali consentiranno un margine di manovra si potrà intervenire sui contributi o migliorare le prestazioni. Detto, fatto. Grazie agli ottimi risultati degli investimenti e al vantaggio accumulato rispetto alle proiezioni del bilancio tecnico, all’arrivo del Covid-19 ci siamo potuti permettere una manovra di sostegno senza precedenti (fino a 3mila euro di aiuti diretti a ciascun libero professionista, oltre mezzo miliardo di incassi rinviati, misure per la quarantena e per gli immunodepressi)”. “Sul welfare – continua Oliveti – in questo quinquennio abbiamo: introdotto la tutela malattia/infortuni per tutti i liberi professionisti, dando l’80% del reddito dal 31° giorno (prima c’era un sussidio dopo il doppio del tempo e solo per chi aveva redditi molto bassi); migliorato la polizza per i primi 30 giorni per i medici di medicina generale; garantito gratuitamente agli iscritti una protezione Long term care con un vitalizio aggiuntivo di 1.200 euro al mese esentasse in caso di non autosufficienza; aumentato il sostegno alla genitorialità (indennità minima più alta, gravidanza a rischio per le libere professioniste, contributi volontari, bonus bebé); addirittura abbiamo fatto entrare nella Fondazione gli studenti del V/VI anno di università, dando loro tutele previdenziali e assistenziali da subito e permettendo di fatto di riscattare due anni di laurea con neanche 250 euro”. Grande attenzione è stata dedicata all’assistenza e all’impegno sociale profuso dalla Fondazione oltre a rammentare le attività previdenziali e i connessi investimenti finanziari che hanno consentito l’erogazione delle prestazioni dello scorso anno e quelle di questo 2020 così difficile per tutti e soprattutto per la categoria dei medici, in prima linea nella gestione dei problemi della pandemia.
(ITALPRESS/WEWELFARE.IT).
Intesa Sanpaolo, è arrivato il credito per le mamme lavoratrici
Intesa Sanpaolo annuncia l’avvio di “mamma@work”, un prestito a condizioni agevolate che consente alle giovani madri lavoratrici di avere un sostegno economico per conciliare vita familiare e professionale nei primi anni di vita dei figli. Attivo dal 24 luglio, è destinato a tutte le donne che lavorano da almeno sei mesi, risiedono in Italia e hanno figli di età non superiore ai 36 mesi. Carlo Messina, Consigliere Delegato e CEO Intesa Sanpaolo, ha commentato: “Oltre 37 mila madri lavoratrici si sono dimesse nel corso del 2019 indicando tra le motivazioni la difficoltà di conciliare il lavoro con le esigenze di cura dei figli. Questa tendenza è costantemente in crescita e peggiora ulteriormente il record negativo dell’Italia nell’occupazione femminile e di conseguenza sul PIL. Facilitare l’accesso al credito di questa categoria di cittadine significa innescare uno dei passaggi necessari per la modernizzazione del Paese, un impegno che in Intesa Sanpaolo sentiamo fortissimo. Per una giovane madre continuare a lavorare vuol dire contribuire al reddito famigliare, rendersi autonoma, coltivare le proprie giuste ambizioni. Come per gli studenti universitari, puntiamo su chi, nella società, ha più potenziale e lo facciamo con strumenti di assoluta avanguardia in termini di sostenibilità”.
Le somme ricevute possono essere liberamente utilizzate, per esempio per pagare le rette dell’asilo nido o la babysitter. Il prestito viene erogato in tranche semestrali fino a 30.000 euro, sino al compimento dei 6 anni del bambino, quando, come rileva l’Istat, si conclude il periodo di massima criticità economica per una famiglia. Si ottiene senza alcuna garanzia, presentando in filiale la documentazione di una qualunque attività lavorativa in corso. Il rimborso delle somme utilizzate può avvenire in un periodo fino a 20 anni. In caso di perdita di occupazione per qualsiasi causa, la linea di credito continua a essere erogata per sei mesi se solo la madre autocertifica la volontà di cercarne una nuova. Al semestre successivo se non sono rispettati i requisiti di mantenimento richiesti ma viene sempre dichiarata la volontà di cercare un nuovo posto di lavoro, vengono sospese le erogazioni ma viene lasciata in vita la linea di credito fino a scadenza.
(ITALPRESS/WEWELFARE.IT)
Assoprevidenza, nuova rielezione per Corbello
Sergio Corbello è stato riconfermato presidente di Assoprevidenza, l’Associazione per la previdenza e assistenza complementari, al termine dell’assemblea dei soci che ha eletto il nuovo Comitato direttivo per il triennio 2020-2023.
Vicepresidente vicario è Olivia Masini, vicepresidente Alessandro Zanon. Del direttivo fanno parte Alessandro Baldi, Fabio Cappelloni, Giuseppe Chianese, Agostino Cingarlini, Luigi Di Falco, Ivonne Forno, Claudio Graziano, Teresa Greco, Gabriele Livi, Graziano Lo Bianco, Franca Maino, Fabio Marchetti, Eugenio Ruggiero, Pasquale Sandulli, Alberto Tosti, Pier Vaisitti, Gianfranco Verzaro.
L’ammodernamento del patrimonio immobiliare italiano può avere tra i finanziatori anche i fondi di previdenza complementare. A certe condizioni i benefici fiscali che incentivano le operazioni di riqualificazione rappresentano infatti interessanti opportunità di investimento. Un webinar su questo tema di grande attualità ha aperto i lavori dell’assemblea. Alcuni fondi sono tuttora proprietari di grandi patrimoni immobiliari, altri potrebbero investire in fondi alternativi (FIA) specializzati nella compravendita dei crediti d’imposta derivanti dagli incentivi fiscali. “Questi investimenti – ha affermato il presidente di Assoprevidenza Sergio Corbello nel suo intervento introduttivo – potrebbero unire il risultato di un rendimento comunque remunerativo con l’eventualità di mettere a disposizione dei propri iscritti un servizio di acquisto crediti a prezzo calmierato, così da agevolare lo stimolo a compiere interventi di riqualificazione abitativa”.
Tenuto conto della diffusione in Italia della proprietà della prima casa e del fatto che, notoriamente, l’edilizia mette in moto più settori, si tratterebbe – ha tenuto a sottolineare Corbello – di capillari investimenti nell’economia reale in grado di avere anche un impatto sociale.
Dopo un intervento a carattere tecnico-fiscale di Eugenio Ruggiero, hanno partecipato al dibattito la Presidente di Assoimmobiliare Silvia Rovere – che ha sottolineato l’esigenza di “fare squadra” per riqualificare il patrimonio immobiliare italiano e le nostre città -; l’Amministratore Delegato di Alternative Capital Partners Evarist Granata – che ha sostenuto che il super Ecobonus “rappresenta un’opportunità unica per Casse e Fondi Pensione di supportare i propri iscritti e l’economia reale tramite la riqualificazione energetica del patrimonio abitativo nazionale”; l’Amministratore Delegato di INVIMIT sgr Giovanna della Posta, che ha illustrato il modello di valorizzazione degli immobili pubblici, con il coinvolgimento diretto di investitori professionali: “Il Fondo i3 Dante, primo esempio operativo di questo modello – ha affermato – consente di investire sull’economia reale e al contempo contribuire all’abbattimento del debito pubblico”; il Direttore Generale di REAM sgr Oronzo Perrini, che ha sostenuto l’importanza di disporre di infrastrutture sociali tecnicamente di avanguardia (RSA, strutture sanitarie, studentati) per fronteggiare con successo emergenze sanitarie, anche di carattere pandemico.
Gli organi associativi di Assoprevidenza per il nuovo triennio sono stati completati con il Collegio dei Revisori (Fabio Carniol Presidente, Eugenio Burani, Claudio Lesca) e il Collegio dei Probiviri (Loredana Pesoli Presidente, Luca Laurini, Francesco Vallacqua).
(ITALPRESS/WEWELFARE.IT).
Smart Working ai tempi del Covid-19, luci e ombre
Ecco la terza “puntata” della riflessione che Luca Pesenti e Giovanni Scansani hanno dedicato all’evoluzione dello smart working. Quello che doveva essere. E quello che sta diventando.
Come abbiamo provato a spiegare nelle due puntate precedenti, il lockdown ha generato un mostro, un piccolo “Frankenstein”, per riprendere il riferimento al film di Mel Brooks con cui avevamo concluso la prima puntata di questa mini-serie di articoli. Mentre era a tutti chiaro che il lavoro da casa (coatto ed imposto dall’emergenza sanitaria) era unicamente una misura di distanziamento sociale di massa (benedetta e necessaria), gli apostoli dello Smart Working (SW) hanno colto la palla balzo per festeggiare l’arrivo del “Messia”, annunciando il compimento di una rivoluzione che avrebbe per sempre cambiato il lavoro e le nostre vite. “Si può fareee!” è il grido liberatorio che si alza in queste settimane, proprio come accadde al grande Gene Wilder nel film di cui sopra. Perchè ciò che la tecnologia permette, va sempre bene.
Si tratta, forse inavvertitamente, della conferma di un processo culturale che abbiamo ormai imparato a conoscere. Come acutamente osservava il sociologo dell’Università Cattolica Mauro Magatti nel suo importante “Libertà immaginarie” (Feltrinelli, 2009), il capitalismo contemporaneo ha definitivamente consegnato alla tecnica (dunque anche alle “tecniche organizzative”) il problema della definizione dei significati. E dunque, se qualcosa è permesso dalla tecnica, allora (per l’appunto) si può fare. Senza la necessità di porsi particolari problemi aggiuntivi. Proprio per questo Magatti ha coniato il termine di “capitalismo tecno-nichilista”: da un lato consegna alla tecnica il problema di decidere ciò che si può o non si può fare, dall’altro apre la strada a una nuova “grande trasformazione” sociale ed economica, nella quale la logica della frammentazione (delle identità, dei luoghi, delle carriere, dei legami) impone un “immaginario della libertà” che è però anche una “libertà immaginaria”.
Da quegli apostoli dello SW, per la verità, hanno preso le distanze alcuni tra i commentatori più attenti, opportunamente distinguendo tra un fenomeno di prevenzione epidemiologica e l’illusione dell’avverarsi di una svolta epocale nell’organizzazione delle imprese e del lavoro. Ricordiamo qui ad esempio Carlo Ratti del MIT, che in un articolo pubblicato sul “Corriere Economia” ha opportunamente richiamato il ruolo fondamentale che rivestono i cosiddetti “legami deboli”, ovvero le relazioni interpersonali e fisiche, nel determinare i processi di innovazione. Oppure possono essere richiamati i ripetuti interventi del giuslavorista Pietro Ichino nel segnalare l’interpretazione burocratica data, nello “stato d’emergenza”, a uno SW che trasformandosi in diritto perde le caratteristiche fiduciarie che dovrebbero contraddistinguerlo (è il rischio della “giuridificazione”).
In mezzo a questo dibattito stanno i milioni di lavoratori e lavoratrici che hanno sperimentato (e ancora sperimentano) questa modalità di lavoro del tutto eccezionale. Soprattutto le lavoratrici. Per le donne, specialmente per quelle che sono anche mogli, mamme e caregiver informali di qualche familiare anziano non autosufficiente, questo periodo ha coinciso (e spesso ancora coincide) con un sommarsi di fatiche e fonti stressogene (da condividere con i mariti, a loro volta in casa e da lì al lavoro anch’essi). Un piccolo “inferno domestico” fatto di scuole e di strutture chiuse, assenza di centri estivi, di assistenza socio-sanitaria spesso interrotta, di spazi fisici non sempre adeguati.
E’ iniziato, così, quello che per molti degli otto milioni di “remotizzati” si è trasformato in un percorso a ostacoli online: la scuola, il lavoro e quando è andata bene anche l’assistenza si sono materializzati dentro un solo device, spesso il proprio pc personale, non sempre in grado di reggere simili ritmi e da utilizzare nell’assenza di idonee connessioni e di non meno idonei luoghi che in casa potessero consentire di svolgere i propri ruoli tenendoli distinti.
Nel bel mezzo di una videocall magari qualcuno accende la PlayStation in modalità condivisa, o Netflix, e così tutto rallenta o s’interrompe. Un urlo, si spegne. Ci si ricollega, ma cosa dire al capo? Beh… ad esempio di darci una connessione decente, se non anche un pc più potente. Al di là di queste notazioni impressionistiche, numerose ricerche scientifiche indipendenti segnalano, con la forza dei grandi numeri, come l’incastro tra lavoro e famiglia vissuto durante il lockdown sia stato, per molti, un concentrato di fatiche e di stress.
Tuttavia, invece di difendere lo SW (il vero SW) sottolineandone – anche fino alla nausea – la differenza abissale che intercorre tra la sua corretta adozione e la devastante realtà venutasi a creare, abbiamo assistito allo sventolare di mille bandiere annuncianti il compimento di una svolta epocale. Fino alla classica frase: “Nulla sarà come prima!”; presto seguita dall’immancabile: “Non si torna più indietro”.
Come già abbiamo avuto modo di scrivere, riteniamo questa posizione un errore fatale: oltre che durante la fase in cui la politica l’ha confuso (ed andava evitato) con una misura di prevenzione sanitaria, lo SW andava difeso facendo comprendere che quello che stava riguardando otto milioni d’italiani posti in “lavoro da remoto forzato” non rappresentava l’upgrade tanto atteso che poteva far gridare alla compiuta metamorfosi del lavoro (almeno) dei colletti bianchi.
Nè giova insistere ancora per sostenere che il Sindaco di Milano si sbaglia quando dice che “è ora di tornare al lavoro” alludendo al rientro negli uffici, perchè questa frase non significa che lo SW (rectius: il lavoro da remoto forzato) è equivalso ad una vacanza.
Nella grande maggioranza dei casi non si è certamente trattato di una vacanza. Neppure per buona parte dei dipendenti della Pubblica Amministrazione, benchè sia probabilmente ragionevole pensare (come ha fatto il Giudice Emerito della Corte Costituzionale Sabino Cassese dalle pagine del Sole24Ore) che in alcuni casi la diffusione dello SW in un ambiente privo di ogni controllo sulle performance sia verosimilmente equivalso ad un periodo di almeno temporanea riduzione delle mansioni.
Certamente però, nel lavoro privato e in buona parte di quello pubblico (e nel “privato” di ciascuno), tanto stress, ben poco o nessun work-life balance, semmai tanto impegno per tenere in vita il lavoro, l’azienda, i servizi erogati, le relazioni (insomma, tutto l’armamentario old style, analogico ed offline che però è mancato e manca alla maggior parte delle persone). Nessuna vacanza, d’accordo: ma probabilmente nemmeno quel miglioramento della produttività che alcune ricerche ed un buon numero di interviste che hanno coinvolto gli HR hanno sin qui sventolato, ma che a nostro avviso (anche alla luce dei risultati di ricerche che hanno invece coinvolto i lavoratori e le lavoratrici) avrebbe a dir poco del miracoloso (fatte salve, come sempre, le singole eccezioni).
Il Sindaco di Milano (ma ciò sarà nei pensieri di tutti i suoi colleghi) ha inteso anche ricordare che se tutti lavorassero frequentemente in SW l’economia cittadina (fatta di relazionalità, di incontri, di scambi “dal vivo” tra gente viva: proprio come il lavoro negli uffici e nelle fabbriche prima della pandemia) inesorabilmente morirebbe. Chi ha fatto riferimento a Milano come la città regina dello SW e della sua rivoluzione facendo il paragone con i grandi cambiamenti urbanistici che l’hanno caratterizzata negli ultimi anni ed ha citato in proposito la zona Garibaldi e quella di CityLife, dimentica che quelle sono proprio le zone dove sono state realizzate costruzioni arditissime che presuppongono migliaia di persone al lavoro negli uffici, non a casa! Lì dentro e lì fuori, poi, pullula una vita ed un’economia di relazioni che lo SW (di massa e mal interpretato, oltre che inopinatamente rivenduto come soluzione da adottare “sempre” e “per sempre”, come alcune multinazionali sostengono) inesorabilmente ucciderebbe.
E’ sufficiente farsi una passeggiata dentro la cerchia dei Navigli di Milano, provando a spostarsi dalla fermata della metropolitana verde di S.Agostino (zona viale Papiniano, per chi conosce Milano), fino alla zona dell’Università Cattolica, per poi girare attorno al Castello Sforzesco e spingersi su via Dante per arrivare a Piazza Duomo, per accorgersi del fatto che una citta di lavoratori (e di studenti) confinati a casa nelle loro attività è semplicemente una città morta, destinata a una inevitabile desertificazione progressiva. Che cosa accadrà al commercio, al mercato immobiliare, al mercato del lavoro di Milano e degli altri grandi centri metropolitani?
Dobbiamo pensare a un futuro esclusivamente turistico, senza più city users per motivi lavorativi e a ranghi ridotti anche dal punto di vista dei residenti (perchè uno smart working di massa inevitabilmente spingerebbe molti a trasferirsi altrove)? E che cosa accadrà a chi oggi vaticina un futuro di south working, ovvero di lavoratori e lavoratrici impiegate in aziende del Nord, ma stabilmente residenti nelle città del Sud Italia grazie ancora una volta allo smart working? Quanto ci metteranno le aziende a pensare che, tutto sommato, lontananza per lontananza, sarà per loro molto più conveniente delocalizzare il lavoro d’ufficio assumendo qualcuno a Mumbai o a New Dehli?
Per evitare queste inevitabili (e rovinose) conseguenze di sistema, sarebbe sufficiente distinguere il grano dal loglio: dire apertamente che quello che si è fatto nella “fase1” e in questa lunga “fase2” non dovrà essere quello che si potrà fare nella “fase3”, a pandemia finita.
La difesa che conta è quella della bontà innovativa di questa modalità organizzativa che presuppone un potente impegno sul fronte del cambiamento dell’approccio (dal controllo “qui e ora” alla verifica dell’andamento di progetti), secondo logiche partecipative e snelle che presuppongono l’adozione di un mindset completamente diverso (che è poi ciò che manca nella maggior parte delle aziende nelle quali lo SW corre il rischio di essere solo una diversa modalità di esecuzione di un lavoro comunque basato su dinamiche fordiste: dall’ufficio-fabbrica, magari in open-space, alla propria abitazione, in un restricted-space fattosi succursale del reparto aziendale al quale si è addetti).
In conclusione, la difesa dello SW avrebbe dovuto spingere coloro cui va il merito di averlo studiato, promosso e sin qui sapientemente diffuso (ante Covid-19) ad ergersi a difensori della sua “purezza” evitando di confonderlo con una condizione drammatica, eccezionale, che tutti ci auguriamo dal più profondo del cuore di non rivivere mai più. Così come avrebbe dovuto spingere i più ad assumere un approccio realista, positivo e responsabile, assumendosi la capacità di una rilettura sistemica capace di cogliere le inevitabili (e potenzialmente disruptive) esternalità negative di un repentino processo di remotizzazione di massa del lavoro.
Non c’è nulla di bello da portare con noi dal tunnel buio del lockdown, ma c’è tanto di luminoso da vivere tornando a stare insieme “nel” lavoro e quindi con (e per) le persone con le quali abbiamo sin qui condiviso le nostre esperienze professionali. Ciò non toglie che si possa essere ancor più soddisfatti se, per qualche giorno al mese, si potrà liberamente fruire di una modalità diversa con la quale lavorare, secondo regole, modi e tempi contrattati tra il lavoratore e l’impresa, dentro un rapporto fiduciario che è anch’esso figlio della relazione molto più che dell’astratta logica dei “nuovi diritti”. Ecco allora (tornando alla scoperta di Gene Wilder in Frankenstein jr) la necessità che “i poli” dello SW siano riportati “da positivo a negativo e da negativo a positivo” per mettere in cortocircuito la lettura sbagliata che se n’è data e ridisegnare, con obiettività, la corretta dimensione del fenomeno e soprattutto sostenerne lo sviluppo futuro che è certamente auspicabile nella misura in cui sia anche umanisticamente sostenibile (umanamente lo è certamente).
(ITALPRESS/WEWELFARE.IT).
Intesa Sanpaolo, “Prossima” alla cultura con 25 milioni
Intesa Sanpaolo Prossima, la struttura di Intesa Sanpaolo dedicata all’Economia del Bene Comune, ha sottoscritto oggi un accordo con Federculture, Agis, Forum del Terzo Settore e Alleanza delle cooperative – principali soggetti italiani impegnati nel settore cultura e spettacolo dal vivo-per sostenere un mondo che è tra i più colpiti dalla crisi economica esanitaria causata dal Covid-19 e che sconta le maggiori difficoltà nella fase di ripartenza. Per il rilancio del settore culturale, la Banca metterà a disposizione una quota del proprio Fondo di Solidarietà e Sviluppo di 5 milioni di euro, con un effetto leva che consentirà di concedere finanziamenti per un massimo di 25 milioni di euro a realtà più piccole periferiche e giovanili con particolari difficoltà di accesso al credito.
L’obiettivo di Intesa Sanpaolo Prossima è aumentare ulteriormente il proprio impegno creditizio nel settore, oggi valutabile in 250 milioni di euro, per sostenerne il rilancio. Con l’accordo la Banca promuove inoltre uno spazio di confronto nel quale gli operatori del comparto si incontrano in modo continuativo per definire modelli di sostenibilità sulla base delle rispettive esperienze con un approccio strutturale alla crescita che andrà a beneficio dell’intero settore.
Questo strumento, di valenza strategica secondo l’esperienza già maturata dalla Banca in altri settori come l’infanzia, lo sport ei servizi socio-sanitario-assistenziali, viene quindi avviato oggi a vantaggio di una delle economie più qualificantidel Paese. Adottando regole di gestione, rendicontazione, marketing, fund raising tratte dalle esperienze più virtuose, le realtà della cultura e dello spettacolo dal vivo si renderanno più efficienti migliorando così le proprie possibilità di accesso al credito. Superata la fase di emergenza sanitaria che ha richiesto interventi in prevalenza a fondo perduto o con garanzia pubblica per il sollievo dei lavoratori, nella fase di rilancio l’obiettivo dell’accordo è predisporre le condizioni che consentano attraverso il credito – di breve e soprattutto di medio/lungo termine – lo sviluppo del Sistema cultura con una sostenibilità complessiva migliore di quella precedente la crisi. Su questo mondo, infatti, gravano sia gli effetti non ancora calcolati del distanziamento sociale, con l’inevitabile riduzione di presenze fisiche, sia quelli collegati alla diminuita capacità economica delle persone e delle famiglie, cui si aggiunge la crisi del turismo con una riduzione drastica dellacircolazione interna e internazionale.
Mettendo in sinergia le rispettive risorse e competenze per assicurare indirizzo e sostegno al sistema cultura superando la tradizionale fragilità che caratterizza molti operatori del settore, gli attori coinvolti nell’accordo si propongono di intercettare i Fondi di garanzia pubblici attivati per migliorare l’accesso al credito e di valutare con più completezza i modelli di business dei vari settori culturali (teatro, musica dal vivo, festival, musei) per facilitare l’erogazione di credito di lungo periodo.
Marco Morganti, responsabile Intesa Sanpaolo Prossima, ha commentato: “Fare rete con i soggetti economici in settori di primario interesse per il Paese è una delle linee di azione che da 13 anni ci identifica meglio. Gli effetti – come dimostrano le nostre esperienze nell’ambito dell’infanzia, dello sport e dei servizi socio-sanitario-assistenziali – sono un miglioramento decisivo nell’accesso al credito e una migliore sostenibilità. La cultura e gli spettacoli dal vivo si trovano oggi in una”tempesta perfetta”, da trasformare in elemento di svolta verso una sostenibilità migliore rispetto a quella pre-crisi. La presenza di garanzie pubbliche, oggi in fase di determinazione, aiuterà il processo, ma proprio per questo bisogna preparare progettualità di breve e soprattutto di medio-lungo termine, in modo condiviso con gli operatori. La piattaforma che si forma oggi è aperta a ogni soggetto che vorrà unirsi per rafforzare le imprese culturali, migliorarne la sostenibilità e accompagnarle verso la crescita”.
Andrea Cancellato, presidente di Federculture dichiara: “Sappiamo bene quanto la crisi di questi mesi abbia colpito il Paese e il settore della cultura in particolare. L’accordo con Intesa Sanpaolo Prossima e gli altri partner aiuterà le imprese culturali, in particolare quelle più fragili e meno strutturate per affrontare i rovesci della crisi, a superare il guado dell’emergenza e sarà un utile strumento per innovare i modelli produttivi dell’offerta culturale, rafforzandoli e rendendoli più sostenibili. Un’iniziativa – sottolinea Cancellato – che non è in contraddizione ma integra il Fondo nazionale per le imprese culturali garantito dallo Stato, inserito nel “decreto rilancio”. Ci auguriamo che il giorno successivo alla conversione del decreto il Ministero adotti i necessari decreti attuativi affinchè il Fondo sia immediatamente utilizzabile dalle imprese culturali e del terzo settore che ne hanno assoluta necessità”.
Francesco Maria Perrotta, Delegato Agis, aggiunge: “Gli effetti che la crisi ha avuto sul settore dello spettacolo dal vivo sono sotto gli occhi di tutti. Non si tratta di una forma di intrattenimento che si è fermata – e probabilmente, nella sua forma piena, resterà ferma ancora per un pò- ma si tratta di un ulteriore pezzo di economia, non così insignificante vista la nostra tradizione, nonchè di un pezzo importante di welfare che è venuto a mancare. L’iniziativa che stiamo mettendo in campo grazie a Intesa Sanpaolo Prossima non offre solo strumenti per ridare vigore al grande patrimonio di attività culturali, di cui siamo tra i principali detentori al mondo, ma vuole rappresentare una rete di solidarietà per lo sviluppo futuro del settore culturale e creativo, per consentirgli di assumere quel ruolo di core business che, senza dubbio, gli spetta”.
Claudia Fiaschi, Portavoce Forum nazionale del Terzo Settore sottolinea: “La riduzione delle diseguaglianze tra persone e territori passa anche dall’accesso alle opportunità culturali e di socialità di tutte le persone, e particolarmente di quelle più fragili, nonchè dalla valorizzazione dei territori più marginali. La creazionedi un’offerta culturale di prossimità, la promozione dei siti culturali minori sono solo alcuni esempi delle iniziative che vengono realizzate dal mondo del Terzo settore sia associativo che imprenditoriale, da sempre in prima linea anche negli ambiti della cultura e dello spettacolo dal vivo. Un impegno fortemente messo in crisi da questa emergenza, ma dal quale, siamo convinti, dipenderà anche la ripartenza del Paese. Riteniamo quindi preziosa questa alleanza che getta le basi di collaborazioni e investimenti sulle reti del Terzo settore culturale, sulle periferie e sui giovani”.
(ITALPRESS/WEWELFARE.IT)
Smart working ai tempi del covid-19, tra utopie e realtà
Luca Pesenti e Giovanni Scansani con questo intervento proseguono l’analisi sull’evoluzione dello smart working. Quello che doveva essere. E quello che sta diventando. La seconda “puntata”.
La storia dello smart working (SW) nel nostro Paese è sotto molti aspetti esemplare. L’impianto culturale “standard” dell’impresa italiana, in particolare delle PMI, si presenta in forma rigorosamente “solida”: il luogo di lavoro è lo spazio privilegiato attraverso il quale è possibile controllare lo svolgimento delle attività per le quali i dipendenti sono pagati. Con una tendenza insana a sviluppare logiche di valutazione informale della produttività in ragione delle ore di lavoro passate in ufficio.
Dentro questo scenario, culturale e organizzativo, i casi di lavoro realmente “agile” (sviluppati principalmente nell’ambito di aziende multinazionali) sono stati relativamente pochi, pur essendo nel frattempo entrata in vigore una specifica normativa (la legge 81/2017) che ha appunto introdotto il “lavoro agile” (smart working è una invenzione lessicale che non trova riscontro in letteratura) come possibilità individuale regolabile (altra novità importante) attraverso specifici accordi tra l’azienda e il lavoratore. L’Osservatorio del Politecnico di Milano stimava nel 2019 l’esistenza di circa 570mila lavoratori “agili” in Italia: un numero sideralmente inferiore rispetto ai milioni registrati in Paesi più attrezzati come, ad esempio, l’Olanda.
Negli anni immediatamente precedenti l’arrivo del Covid-19 alla diffusione delle prassi di SW (pur non associate a quel necessario cambio di paradigma che dovrebbe sostenerle) iniziavano a dar manforte anche una serie di altre aziende, spesso motivate da finalità più ascrivibili al marketing che ad una reale volontà di innovare la loro tradizionale organizzazione del lavoro (che tale dunque rimaneva, con “uffici-fabbrica” e procedure replicate a domicilio, con regole ferree di collegamento costante durante la giornata lavorativa, obbligo di osservare orari e di partecipare, sia pure online, a meeting e riunioni varie: insomma, il fordismo in casa propria od ovunque si fosse).
Smart Working e Welfare Aziendale: percorsi paralleli?
Parallelamente a queste spinte crescevano anche quelle che diffondevano le prassi del Welfare Aziendale (anch’esso in parte mitizzato, talvolta mal interpretato o ridotto nella sua reale portata) nel cui ambito veniva spesso fatto ricadere anche lo stesso SW inteso (anche in questo caso in modo riduttivo) come misura di conciliazione vita-lavoro (semmai questa sarà un suo effetto, ma non la causa, nè la motivazione per cui lo si adotta).
In quel periodo, tanto il Welfare Aziendale che lo SW ricevevano una serie di endorsement di tipo normativo che ne favorivano lo sviluppo. Anche se è sempre necessario ricordare che se il primo può essere fatto risalire concettualmente ed operativamente alle esperienze sorte con la prima industrializzazione italiana tra gli anni ’30 e ’40 del secolo scorso, il secondo è invece molto più recente ed ha una matrice statunitense. E’ infatti negli USA che viene inventato il suo antecedente logico (il telelavoro), così come sempre dagli Stati Uniti arriva anche un’altra “invenzione” diventata molto glamour anche da noi, ovvero il Chief Happiness Officer, un manager chiamato ad un compito così complicato da sfidare l’utopia: fare della felicità individuale di ciascun collega una “leva” di people management complessiva per l’azienda migliorandone i risultati.
(ITALPRESS) – (SEGUE).
Questa diversa collocazione, culturale e temporale, ci dice che mentre il primo “istituto” ha solide radici e non deve temere eventuali sbavature nella sua interpretazione, il secondo deve ancora farsi le ossa e necessita invece di una grande attenzione perchè si sviluppi in modo adeguato in un contesto (come quello europeo e italiano in particolare) segnato da culture organizzative e di people strategy profondamente differenti rispetto a quelle d’oltreoceano.
Gli sforzi profusi per diffondere lo SW arrivano a dare i primi frutti proprio negli ultimi anni. Tanto da rendere possibile anche l’avvio di una quantificazione del fenomeno, grazie allo sforzo scientifico dell’autorevole Osservatorio del Politecnico di Milano. Si tratta evidentemente di numeri tutto sommato ancora molto piccoli, e soprattutto molto lontani dalle medie registrate nel periodo in Europa, ma nondimeno incoraggianti: nel corso del 2019 lo avrebbero praticato poco più di 570mila lavoratori e lavoratrici. Certo, si tratta di una quota molto ridotta degli oltre 18 milioni di lavoratori dipendenti attivi nel nostro Paese, in evidente contrasto (per quanto riguarda il settore pubblico) con disposizioni che già prima dell’emergenza pandemica obbligavano (sulla carta) le PA ad organizzare in SW il lavoro del 10% dei loro organici.
Intendiamoci: una rivoluzione ha i suoi tempi e s’inizia sempre grazie all’azione di quelle che il grande storico inglese Arnold Toynbee definiva “minoranze creative”. Ma questi dati ci dicono che quella in atto fino al Covid-19 non era ancora neppure l’avanguardia di una vera rivoluzione del lavoro, del tutto imparagonabile con il 40% di lavoratori che potevano disporre di modalità di telework in Olanda o del 35% registrato in Svezia. Un inizio promettente però, sì.
Utopie e (necessario) realismo
C’è dunque una seppur piccola e breve storia dello SW anche nel nostro Paese. Una storia che, come il raggio di luce che si immerge nel prisma, passando attraverso il lungo lockdown cui 8 milioni di lavoratori e lavoratrici sono stati costretti, sembra oggi essere esploso in una moltitudine di colori. Perdendo la sua connotazione di mero strumento a complemento di una trasformazione della cultura organizzativa e di gestione dell’impresa, per assumerne una differente, utopica e (a nostro avviso) pericolosamente irrealistica: quella dell’introduzione a una nuova “civiltà del lavoro” come liberazione del lavoro dai limiti di tempo e di luogo imposti (come già aveva colto la grande sociologia storica di Max Weber) dallo sviluppo razionalizzante della modernità e della società industriale.
Sappiamo di usare termini “pesanti”, ma ci pare indispensabile farlo soprattutto in questa fase, nella quale dentro la logica dell’emergenza si può rischiare di radicalizzare dinamiche che invece hanno bisogno di essere maneggiate con la giusta cautela. Sostenere – come pure è stato fatto – che sarebbe massimamente desiderabile poter lavorare in SW come regola, ossia potenzialmente “sempre” e “per sempre”, rendendo quindi di fatto eccezionale o addirittura superflua la presenza della persona in ufficio, significa a nostro avviso entrare nei territori delle utopie. Con tutto il fascino, ma anche con tutti i rischi connessi alla tentazione di spostare anche il lavoro all’interno della lettura post-umana di fenomeni sociali che si fanno obbedienti al sistema sperimentale della scienza e della tecnica, senza adeguate premesse di tipo filosofico, sociologico o (addirittura) teologico. Si tratta della stessa utopia che è stata salutata da qualcuno come l’avvento di una “nuova era” quando qualche settimana fa colossi come Disney e Twitter hanno annunciato che presto i loro collaboratori sarebbero stati collocati in SW in modo permanente.
Quasi sulla stessa scia, Facebook e la Apple prevedono che la maggior parte dei dipendenti, una volta terminata l’emergenza, non rientreranno in ufficio.
Di fronte a queste utopie della totale “remotizzazione” del lavoro (e dunque della riduzione del classico ufficio a una sorta di reperto archeologico), crediamo occorra un soprassalto di realismo. Necessario per salvaguardare ciò che di propriamente “umano” c’è nel lavoro, ma anche per salvare lo stesso SW dalle sue pericolose radicalizzazioni. Come abbiamo sostenuto nel nostro recente libro “Welfare Aziendale: e adesso?” (un e-book che potrete scaricare gratuitamente dal sito www.vitaepensiero.it) nel quale il primo capitolo è stato dedicato proprio al tema dello SW durante la pandemia, la temporanea assenza da uffici, fabbriche, studi, scuole, università, officine, insomma dai luoghi in cui ogni giorno milioni di persone si recano per lavorare, ci ha dato un’utile lezione culturale, forse addirittura antropologica. Abbiamo scoperto che ci mancano i colleghi dell’ufficio, come ai ragazzi e ancora di più ai bambini mancano i compagni di banco o di corso. Certo, ci sono internet e la tecnologia a darci una mano, ma non è facile stare da soli, per settimane, davanti ad uno schermo (molto più che in precedenza, in ufficio) e continuare a sentirsi parte di un team come quando le relazioni con gli altri si vivevano offline, come quando, oltre all’online, c’era la fisicità dei luoghi, degli sguardi e delle parole dette e non trasformate in bit.
Le avanguardie del post-umano applicato al lavoro accusano ogni riflessione problematizzante in argomento di essere, sic et simpliciter, reazionaria, passatista: insomma indifendibile. La nostra idea è che invece non si diventi certo retrogradi difendendo l’umano che c’è nel lavoro e ciò semplicemente perchè il lavoro (e il modo con cui culturalmente lo concepiamo) contribuisce massimamente a dare realizzazione e significato alla nostra umanità. La pandemia e il sedicente SW emergenziale (che SW non è) ha, probabilmente, svelato il lato oscuro dell’immateriale: lavorare da casa, nelle attuali condizioni, non è la stessa cosa e non soltanto perchè non è stata una nostra scelta, ma un’inevitabile costrizione. La verità è che abbiamo scoperto, stando a casa lavorando ogni giorno da quel luogo (invece che viverlo solo per godere dei nostri affetti e del nostro tempo libero), che prima di amare gli spazi di fondamentale libertà dal lavoro, amiamo proprio il lavoro e lo amiamo nel luogo dove il lavoro si fa normalmente: negli uffici, nelle fabbriche, nelle scuole, in ogni posto dove si stia in relazione con gli altri e per gli altri. Lavorare, insomma, non è semplicemente “produrre”: è stare immersi nell’ambiente che il lavoro genera e riproduce. Questo è il “bene comune” che ci è stato rapinato dal “male comune” del virus.
Lavoro da casa: quel che il lockdown non ci può insegnare
Ed è male fare del virus un alleato per sostenere che proprio la sua comparsa (che è una tragedia planetaria) ci avrebbe finalmente sospinto, volenti o nolenti, dentro una nuova, utopistica condizione, per organizzare la nostra vita e il nostro lavoro. A smentire simili assunti ci hanno pensato alcune recenti ricerche come, ad esempio, quella del Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica dalla quale emerge un vissuto molto problematico da parte di chi (lavoratore dipendente) ha dovuto da un giorno all’altro trasferire il proprio lavoro in casa: bassa soddisfazione e bassa produttività self reported sono segnali rilevanti, certo dettati da una condizione senza scampo, ma altrettanto certamente capaci di metterci in guardia dal rischio di pensare che quel che siamo stati in grado di fare in emergenza possa diventare regola nel new normal che stiamo costruendo.
Sono cose che potevamo immaginare anche senza studiare le ricerche, in fondo. Le sapevamo già, perchè sono emerse parlandone con i colleghi di lavoro o con i vicini di casa (ovviamente su Zoom o con Webex). Il drammatico lockdown e il “tutti a casa” generalizzato non ha giovato al senso di libertà e di serenità che il vero SW dovrebbe generare, come quando lo si vive stando in un contesto aziendale basato su logiche partecipative e realmente responsabilizzanti.
C’è peraltro anche qualcosa di fastidiosamente snobistico nella continua difesa dello SW a tutti i costi e costi quel che costi. Si prova la sensazione che si dimentichino, ad esempio, i lavoratori e le lavoratrici di quelle imprese ritenute “essenziali” che hanno continuato a lavorare affrontando un rischio in più – e per di più – enorme: il contagio. Molti di questi sono stati giudicati “eroi”; non sono solo i medici e gli infermieri, ma anche i lavoratori e le lavoratrici della GDO, delle filiere dell’alimentare e della logistica: durante il lockdown ci siamo accorti delle cassiere e dei fattorini, tutta gente che, detto per inciso, in SW non ci andrà mai. Così come si dimenticano tutti coloro i quali non hanno condizioni domestiche adeguate, non sono dotati di strumenti, tecnologie, contesti famigliari o anche abitazioni capaci di corrispondere adeguatamente all’utopia di un mondo senza uffici (o in cui l’ufficio rientra negli strumenti “di risulta” di un lavoro svolto massimamente altrove). Si dirà: ci sono i coworking. Possiamo rispondere che anche questa soluzione, in disparte altre valutazioni, sul piano anche solo economico non è alla portata di tutti (specie di coloro che un ufficio comunque ce l’avrebbero e che a quel punto tanto vale continuino a frequentare).
Ma soprattutto c’è qualcosa che, nuovamente, rischia di sconfinare nel mitologico e che pure viene comunicata come una verità granitica. Due esempi. Si dice: durante il lockdown, stando in SW si è lavorato di più. Se così fosse, a parità di salario, non sarebbe certo una bella notizia! Premesso che semmai occorrerebbe lavorare non di più, ma meglio, quello che è sin qui accaduto è che il fatto di aver lavorato di più va associato al fatto di aver lavorato male, ossia in condizioni non certamente ideali. Altro assunto: la produttività è cresciuta. E’ un mantra fondato in prevalenza su auto-dichiarazioni del management intervistato in specifiche survey senza alcuna riprova derivante da una qualche misurazione quantitativa, se si eccettuano quelle che conteggiano le videocall e il numero di messaggi WhatsApp scambiati tra colleghi: un pò poco per dirci qualcosa di serio in proposito. Sarebbe interessante dare una risposta a queste semplici domande: in che modo è aumentata la produttività di una figura impiegatizia, poniamo addetta alla contabilità o inquadrata nell’ufficio dedicato all’amministrazione del personale? In che modo lo SW (emergenziale) ha accresciuto la produttività del personale commerciale? A queste domande possono aggiungersi (sul fronte del lavoro pubblico) le ormai celebri sette domande proposte dal Prof. Ichino alla ministra della PA Fabiana Dadone, secondo la quale, come noto, la PA durante il lockdown avrebbe funzionato in tutti i reparti come e meglio di prima.
(ITALPRESS/WEWELFARE.IT)
Imprese sociali creano lavoro, lo afferma l’Europa
Wewelfare.it ha pubblicato la traduzione dell’Executive Summary realizzata in modo indipendente dalla Commissione Europea. Traduzione di Ilda Curti. I rapporti dei singoli paesi confermano che le imprese sociali esistono in tutti i paesi analizzati e che stanno crescendo in numero e importanza. Sono per lo più di tipo comunitario e spesso emergono dall’economia sociale e utilizzano la sua tipica forma organizzativa. Un’ampia e crescente quota dell’offerta di servizi di interesse generale è garantita da imprese sociali spesso in collaborazione con le autorità locali. Inoltre, le imprese sociali contribuiscono direttamente alla creazione di migliaia di posti di lavoro in generale e per persone svantaggiate in particolare. Social Enterprises and their Ecosystems in Europe: Comparative Syntesis Report è un rapporto di sintesi comparativa che fa parte dello studio “Social Enterprises and their Ecosystems in Europe” e fornisce una panoramica aggiornata della mappatura delle imprese sociali in Europa sulla base delle informazioni disponibili a partire da gennaio 2020. È una pubblicazione redatta da Euricse ed EMES Network su incarico della Commissione Europea, Programma EaSI (Occupazione e Innovazione Sociale, 2014-2020). Ricerca, educazione e sviluppo di competenze L’attività di ricerca sulle imprese sociali emerge, in Europa, negli anni ’90: da allora si è consolidato il campo di ricerca scientifica e nuovi ricercatori con differenti background disciplinari se ne sono occupati. La ricerca ha contribuito ad aumentare la visibilità delle imprese sociali e i fenomeni sociali ad esse collegati, così come è aumentata la consapevolezza dei cittadini e dei policymakers sulla rilevanza di questo schema di sviluppo sociale. Tuttavia la ricerca rimane abbastanza frammentata, sostanzialmente descrittiva e classificatoria e spesso utilizza definizioni di impresa sociale che differisce dalla definizione operativa dell’UE. Un’ampia gamma di strumenti e attività di formazione sono emersi per colmare la mancanza di competenze degli imprenditori sociali. Malgrado ciò molti programmi di training tendono a mimare quelli delle società tradizionali invece di esplorare i vantaggi competitivi dell’impresa sociale rispetto a quella convenzionale. Inoltre c’è un bisogno urgente di capacity building e di conoscenza condivisa nei funzionari pubblici (civil servant) e negli operatori finanziari e bancari, che spesso non capiscono i fattori chiave dell’impresa sociale e i suoi bisogni. Definizione di impresa sociale Il punto di partenza dello studio di mappatura è stato l’adozione di una concezione comune di impresa sociale che si ispira alla definizione approvata dalla Commissione Europea attraverso la sua Social Business Initiative (SBI). Questa definizione è stata ulteriormente articolata a livello operativo su tre dimensioni che contraddistinguono l’impresa sociale: la dimensione sociale la dimensione imprenditoriale la dimensione della proprietà della governance. Sulla base di questa definizione, le imprese sociali, oltre a mostrare le tipiche caratteristiche di tutte le imprese, devono perseguire un esplicito obiettivo sociale. Ciò implica che i prodotti forniti / attività gestite, devono avere una connotazione di interesse pubblico e sociale. Inoltre, ci si aspetta che le imprese sociali adottino modelli di governance inclusivi: questo comporta l’impegno di diverse categorie di stakeholder che hanno relazioni con l’impresa. Le imprese sociali, inoltre, adottano un dispositivo specifico – il vincolo alla distribuzione degli utili – che ha lo scopo di garantire che lo scopo sociale perseguito dall’impresa sociale sia salvaguardato e sopravviva nel tempo, al di là dell’impegno dei suoi fondatori. I motori dell’impresa sociale Le imprese sociali sono emerse principalmente negli ultimi due decenni: si sono sviluppate grazie all’interazione tra processi bottom-up (guidati dalla comunità) o top-down (guidati dall’esterno). Il loro sviluppo è così plasmato dai valori della solidarietà, che incoraggiano i cittadini ad auto-organizzarsi, e si intrecciano con specifiche politiche pubbliche e schemi pubblici. Gli ecosistemi delle imprese sociali: una prospettiva comparata I report dei differenti Paesi mostrano che il numero delle imprese sociali e delle persone occupate stanno progressivamente aumentando in quasi tutti gli Stati dell’Unione Europea. La domanda di servizi erogati dalle imprese sociali cresce e contemporaneamente il contesto nel quale operano sta diventando sempre più abilitante. Nel complesso c’è una correlazione tra il grado di riconoscimento dell’impresa sociale, la sua istituzionalizzazione, la dimensione e la facilità di accesso ai finanziamenti. Tuttavia, il potenziale dell’impresa sociale è ancora lontano dall’essere pienamente sfruttato ed esiste un significativo margine di miglioramento degli ecosistemi in cui le imprese sociali operano soprattutto per quanto riguarda i 4 pilastri su cui si basano le SEs: capacità di auto-organizzarsi; visibilità e riconoscimento; accesso alle risorse; ricerca e sviluppo delle competenze. Capacità di auto-organizzarsi L’emergere delle imprese sociali è rafforzato dall’impegno sociale e civile di gruppi di cittadini che si auto-organizzano, spesso con poche risorse a disposizione, per affrontare le nuove esigenze e le sfide della società. Il consolidamento e la diffusione delle imprese sociali vengono rafforzate dalle reti di economia sociale con attività di advocacy, lobbying, formazione e capacity building, nonché attraverso forme di mutualismo. Anche i network europei sono stati fondamentali nel sostenere l’armonizzazione e la diffusione di buone pratiche e strumenti operativi. Visibilità e riconoscimento Lo sviluppo dell’impresa sociale non richiede necessariamente l’adozione di una legislazione specifica. Le imprese sociali possono anche fare affidamento sui quadri giuridici esistenti. Paesi come l’Austria, l’Estonia, la Germania, i Paesi Bassi e la Svezia hanno preferito non introdurre una legislazione specifica, pur tuttavia un numero significativo di imprese sociali operano e si sviluppano. Una tendenza molto recente sembra quella di riconoscere l’impresa sociale attraverso leggi quadro riconoscendola come parte di un fenomeno più ampio: l’economia sociale o solidale, il terzo settore. Oltre ad un sistema di riconoscimento pubblico per le imprese sociali, alcuni paesi utilizzano un sistema di marchi privati, etichette e certificazioni. Questi schemi sono stati adottati progressivamente in Austria, Finlandia, Germania, Polonia e Regno Unito. Uno dei motivi alla base della creazione di schemi di certificazione privati è la disponibilità delle imprese interessate a segnalare la loro specificità, data la mancanza di leggi e strategie ad hoc specificamente rivolte alle imprese sociali o l’esistenza di incentivi concreti che spingano le imprese sociali a registrarsi come tali. Accesso alle risorse Per comprendere il ruolo, il potenziale e l’impatto delle diverse fonti di finanziamento su cui si basano le imprese sociali, è essenziale distinguere tra: Risorse a fondo perduto per la fase di start-up / consolidamento: le situazioni variano dalla disponibilità di un’ampia gamma di misure e politiche coerenti (Paesi Bassi, Regno Unito), alla grande varietà non coordinata di misure (Francia) fino a regimi di sostegno pubblico estremamente limitati (la Repubblica Ceca e Svezia). In molti paesi le misure di sostegno alla fase di start-up sono più sviluppate di quelle per il consolidamento e la disponibilità di risorse è maggiore laddove esistono sistemi di sostegno all’imprenditorialità in generale (Germania, Paesi Bassi, Regno Unito). Risorse generatrici di reddito: in tutti i paesi mappati, le imprese sociali si basano su un mix di risorse finanziarie che derivano da diverse attività generatrici di reddito, che variano a seconda dei paesi analizzati. Le modalità di interazione con l’attore pubblico includono la co-progettazione a contratto, i voucher e bilanci personali, nonché gli appalti pubblici che – regolamentati dalle norme UE in materia di appalti pubblici entrate in vigore nel 2014 – offrono nuove opportunità per le imprese sociali. Risorse rimborsabili / prestiti / finanziamenti: la variazione tra i diversi paesi dipende dal livello di sviluppo delle imprese sociali, dalla loro capacità di pianificazione e disponibilità finanziaria. Certamente le imprese sociali non sono ancora “investor-ready” in quasi nessuno dei paesi analizzati. Un’ulteriore difficoltà deriva dal fatto che le risorse rimborsabili sono per lo più modellate secondo una logica d’investimento tradizionale che si aspetta rendimenti alti e a breve termine che le imprese sociali non sono in grado di garantire. Benefici/incentivi fiscali: data la loro natura in quasi tutti i paesi le imprese sociali godono di quei benefici fiscali previsti per le organizzazioni non-profit, organizzazioni di economia sociale e imprese tradizionali. Il vantaggio fiscale più diffuso è l’esenzione dall’imposta sugli utili non distribuiti. Ulteriori benefici fiscali concessi alle imprese sociali comprendono l’esenzione o la riduzione di aliquote IVA, costi di previdenza sociale ridotti o coperti da sovvenzioni, benefici fiscali rivolti a donatori privati e/o istituzionali. L’impresa sociale nei confronti delle politiche pubbliche e dei sistemi di welfare A seconda del paese, le imprese sociali svolgono un ruolo diverso all’interno del sistema di welfare ed ai processi di riforma intrapresi. Nei Paesi con un’offerta tradizionalmente scarsa di servizi sociali da parte dei fornitori pubblici e forti tradizioni di impegno civico, le imprese sociali sono emerse inizialmente per colmare le lacune nella fornitura di servizi sociali. In questi Paesi (Grecia, Italia, Portogallo, Spagna), le autorità pubbliche hanno successivamente deciso di garantire la fornitura di servizi di interesse generale finanziando e sostenendo le imprese sociali. In quegli Stati membri (Danimarca, Finlandia, Svezia, Regno Unito) dove l’offerta di servizi sociali è stata tradizionalmente pubblica, l’emergere delle imprese sociali si è tipicamente intrecciata con la trasformazione dei sistemi di welfare. I principali campi d’intervento sono quelli in cui la fornitura di servizi è stata appaltata all’esterno. Nei paesi in cui i sistemi di welfare sono in fase di riforma, sono emerse le imprese sociali in uno spettro diversificato di aree con una forte propensione a soddisfare le esigenze di gruppi svantaggiati ed emarginati. Ciò vale per un numero significativo di paesi extra unione. Paesi con ampie strutture di welfare senza scopo di lucro già sostenute da risorse pubbliche e che coprono la maggior parte dei bisogni della popolazione hanno visto un cambiamento verso posizioni imprenditoriali più forti (Austria, Germania e Paesi Bassi). Ci sono, inoltre, alcuni paesi dove le imprese sociali tendono ad essere scollegate dalle politiche pubbliche (Albania, Malta, Macedonia settentrionale, Serbia, Turchia). Nel complesso, le imprese sociali sono attualmente ampiamente diversificate in termini di tipologie di servizi di interesse e gruppi target serviti. Questi diversi campi di attività possono, tuttavia, essere ricondotti a tre principali aree di intervento: servizi sanitari e sociali; integrazione lavorativa di persone svantaggiate; altre sfide sociali.
(ITALPRESS/WEWELFARE.IT).









