“State a casa” vale anche per la salute della pensione complementare. Rivolgendosi a tutti coloro che sono molto vicini all’uscita dall’attività lavorativa, e che potrebbero essere tentati di riscattare subito il capitale accumulato con un fondo integrativo, il Presidente di Assoprevidenza Sergio Corbello consiglia di mantenere la posizione. E’ un consiglio “tecnico”: “Com’è noto – spiega Corbello – il valore della posizione previdenziale individuale dell’iscritto deriva dalla valutazione, a prezzi correnti, dell’investimento nel fondo di appartenenza. Da febbraio in avanti, con il deflagrare del Coronavirus, le Borse e i mercati finanziari in generale hanno subito violenti ridimensionamenti, con il risultato che l’ammontare delle posizioni dei singoli risulta inferiore, anche di molto, rispetto a pochi mesi fa”.
Secondo il Presidente dell’Associazione per la previdenza complementare non è proprio il caso, per chi può aspettare, di riscattare in perdita. “Al lavoratore che va in pensione adesso e che quindi ha diritto a percepire o in capitale o in rendita quanto accumulato con il fondo integrativo – afferma Sergio Corbello – il suggerimento non può che essere: ‘stai a casa’. In questa fase di turbolenza finanziaria e di estrema volatilità delle quotazioni, ovviamente salvo casi di emergenza individuale, il nostro consiglio tecnico è di attendere, mantenendo la posizione presso il fondo pensione, il tempo necessario perché il valore degli investimenti riprenda quota, ragionevolmente nel giro di un biennio”.
Visto che i pensionandi godranno tuttora, in linea generale, di un assegno mensile di base non disprezzabile, nella maggior parte dei casi non c’è la necessità impellente dell’integrazione con la previdenza complementare per mantenere l’attuale livello di reddito lavorativo. “Occorre quindi – ribadisce Corbello – mantenere i nervi saldi e saper attendere tempi migliori. Magari, se il singolo ne ha la possibilità, approfittando della situazione per integrare la posizione esistente nel fondo pensione con ulteriori contributi volontari: si investirebbe in un momento favorevole, con le quotazioni dei titoli basse, beneficiando oltretutto delle agevolazioni fiscali previste (sono deducibili 5.164,57 euro l’anno)”.
Mantenere la posizione presso il fondo integrativo sarebbe la scelta migliore, secondo Assoprevidenza, anche per chi ha diritto al riscatto per semplice cessazione del rapporto di lavoro, senza pensionamento. “E’ una condizione sicuramente più delicata e problematica – osserva Sergio Corbello – che solo il singolo è in grado di giudicare. In questo caso l’unico consiglio tecnico, accorato, è di non far prevalere decisioni soltanto emotive, prese in assenza di bisogni reali”.
(ITALPRESS/WEWELFARE.IT)
Assoprevidenza, no riscatto fondo pensione, sì contributi volontari
Terzo settore, arriva il prestito di Acri e Intesa Sanpaolo
Acri e Intesa Sanpaolo hanno sottoscritto una “Convenzione per il sostegno agli Enti del Terzo Settore per l’emergenza Covid-19 – Prestito Sollievo”, mettendo in sinergia le rispettive risorse e competenze per assicurare il proprio sostegno al mondo del non profit, che rischia di trovarsi in grande difficoltà per la sua strutturale fragilità dal punto di vista finanziario. Il Prestito Sollievo si compone di un’offerta di finanziamenti dedicati alle organizzazioni del Terzo settore (Onlus, organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale, cooperative e imprese sociali), erogati da Intesa Sanpaolo e garantiti da un apposito Fondo rotativo attivato dalle Fondazioni di origine bancaria, mediante il Fondo Nazionale Iniziative Comuni. Con una dotazione iniziale di 5 milioni di euro, che, integrata da ulteriori contributi volontari da parte di singole Fondazioni – finora si sono aggiunte Compagnia di San Paolo e Fondazione Con il Sud, con un milione di euro ciascuna, Fondazione Carispezia con 40mila euro e Fondazione CR Fermo con 20mila euro – e grazie a un effetto di leva finanziaria e all’intervento aggiuntivo del Fondo di solidarietà e sviluppo di Intesa Sanpaolo Prossima, permetterà l’erogazione di finanziamenti per almeno 50 milioni di euro, portando così liquidità a migliaia di organizzazioni. A questo le Fondazioni hanno affiancato un Fondo di 500mila euro, che consentirà di abbattere gli interessi passivi dei finanziamenti erogati. Possono accedere ai finanziamenti del Prestito Sollievo le organizzazioni di Terzo Settore con sede legale e operativa sul territorio italiano. I finanziamenti – della durata fino a 24 mesi – vanno da un minimo di 10mila a un massimo di 100mila euro. «Di fronte all’emergenza Covid-19, le Fondazioni di origine bancaria si sono subito mobilitate mettendo a disposizione in poche settimane oltre 70 milioni di euro in favore delle autorità sanitarie e delle organizzazioni del Terzo settore dei loro territori – afferma Francesco Profumo, presidente di Acri -. Oggi questa iniziativa nazionale realizzata insieme a Intesa Sanpaolo porterà nuova linfa a tutte quelle organizzazioni che nel nostro Paese continuano a garantire la coesione sociale delle nostre comunità e che saranno cruciali anche nella fase di ripartenza, quando l’emergenza sarà finita». «Intesa Sanpaolo è onorata di poter contribuire all’iniziativa dell’Acri, in particolare grazie alla competenza acquisita in oltre dieci anni di attività specifica al servizio del Terzo Settore da Banca Prossima, una realtà ora pienamente parte del nostro Gruppo – sottolinea Carlo Messina, Consigliere Delegato di Intesa Sanpaolo -. Mettere un tale strumento di crescita a disposizione delle organizzazioni non profit, oggi sotto forte pressione, significa riconoscerne concretamente il potenziale per una ulteriore crescita ma soprattutto il ruolo vitale nella nostra società».
(ITALPRESS/WEWELFARE.IT).
Treu “Sì al ritorno dello Stato purché insieme al privato”
Riecco lo Stato. Dopo l’ondata liberista che ha investito e contagiato tutto il mondo, dopo il verbo della globalizzazione che sembrava aver allentato il ruolo e le attese degli Stati nazionali, riecco lo Stato. Il bisogno di Stato, la richiesta di Stato. «Più ancora di un ritorno alla centralità del pubblico, in senso lato, stiamo assistendo a una richiesta planetaria di più Stato». Tiziano Treu, presidente del Cnel, ex ministro del Lavoro, osservatore privilegiato da sempre dell’evoluzione dei sistemi di protezione sociale e dell’organizzazione del lavoro, ha una visione forte, ma non apocalittica: «C’è motivo di credere che si tratti di un effetto, il più clamoroso, dell’emergenza che stiamo attraversando; ma tutto fa ritenere che ci sarà un riequilibrio da parte del settore privato, non appena potremo metterci alle spalle la fase 1». Proprio nel suo ruolo attuale, al vertice del Consiglio Nazionale dell’economia e del lavoro, Treu è testimone di una progressiva ricognizione dei settori produttivi, attraverso le informazioni raccolte direttamente dalle parti sociali, dalle confederazioni e dalle forze produttive maggiormente rappresentative che sono presenti in Consiglio. Il Cnel, che ha predisposto una prima informativa alle Camere per i settori del turismo e logistica/trasporti, provvederà poi a un’analoga indagine sui segmenti dell’agricoltura e ovviamente della sanità. «Si è parlato molto dei tagli alla sanità – aggiunge ed eccepisce Treu – ma si è speso comunque tanto, sia da parte del pubblico, sia da parte del privato. Non si è speso bene. II problema della sanità non sono solo le risorse che si mettono in campo, ma il modo in cui si spende. In particolare, si è speso poco o nulla per la prevenzione sanitaria sul territorio. Conta l’organizzazione. I flussi finanziari non possono essere sufficienti per giudicare la buona o cattiva sanità. A volte si è forse ecceduto con lo spazio ai privati: penso al modello Lombardia, che in questa circostanza ha mostrato qualche fragilità in più rispetto al Veneto, per esempio».
Treu, dunque più Stato e meno mercato? Davvero avremo una retromarcia improvvisa, rispetto al pensiero unico di questi ultimi anni?
«Ma no. Anzitutto ricordiamo i grandi numeri. Ci sono circa 12 milioni di lavoratori italiani che utilizzano in modi diversi le prestazioni di sanità integrativa. E poco più di 8 milioni sono quelli che hanno aderito alla previdenza complementare. Quindi il mix pubblico-privato c’è, ed è forte oltre che radicato».
E rispetto alle nuove frontiere che si sono immaginate, penso al welfare aziendale? Nel 2016 si passò dal welfare aziendale dei pionieri, al welfare aziendale di massa. Oggi che cosa resta? Domani che cosa accadrà di questo nuovo mercato?
«La leva della defiscalizzazione ha fatto intravedere la forza dei piani di welfare aziendale. Ma forse si è confusa la quantità con la qualità delle iniziative. Il valore del welfare aziendale si misura non solo sulla sua diffusione, ma anche sulla qualità delle misure concretamente attuate, cioè sulla loro aderenza al benessere dei lavoratori e, indirettamente, sul contributo che possono dare alla coesione della comunità aziendale. Le rilevazioni sulla qualità e sulla distribuzione di benefit sono parziali, perché le fonti disponibili si concentrano soprattutto sulle dimensioni quantitative del welfare e dedicano poche riflessioni ai contenuti delle misure e all’impatto che esse hanno sulle relazioni 250 fra lavoratori e imprese».
E tuttavia, a quanto risulta dalle varie indagini il bilancio 200 dell’esperienza fin qui trascorsa essa si presenta diseguale anche per questo aspetto.
«Vero. Abbiamo registrato un centinaio di prestazioni diverse che a diverso titolo fanno parte dei piani di welfare adottati nelle imprese. Forse è un ventaglio un po’ troppo ampio. E non tutto merita la defiscalizzazione. Il debito pubblico sta schizzando, una razionalizzazione è inevitabile».
E ci saranno meno risorse da mettere nel “portafoglio welfare” dei dipendenti della gran parte delle aziende.
«Ho qualche dubbio. Per alcune aziende gli spazi di manovra potranno addirittura crescere. È vero che chi andava male potrebbe andare peggio, dopo questa fase di stallo dell’economia. Ma è altrettanto vero che chi andava bene, potrebbe andare meglio. Con soddisfazione anche dei dipendenti di queste imprese che sapranno meglio di altre affrontare i cambiamenti, i nuovi impatti con la tecnologia, i nuovi sbocchi di mercato. Le aziende che reagiscono meglio sono quelle che hanno saputo innovare e assorbire l’innovazione, anche tecnologica».
Il futuro del welfare aziendale sarà in gran parte agganciato alla contrattazione, nazionale, di territorio o aziendale. Le parti sociali sono pronte a tale passaggio?
«Purtroppo per i rinnovi contrattuali credo che dovremo aspettare un po’, anche per quelle categorie che sarebbero state chiamate al rinnovo proprio in questi tempi. Penso ai metalmeccanici, che proprio al Cnel, lo scorso autunno, hanno aperto il loro confronto. Però vedo segnali confortanti di dialogo. A esempio per gli accordi che ci arrivano, in relazione alle prossime auspicate riaperture. I protocolli di sicurezza si stanno dimostrando una buona occasione di dialogo. E di intesa. Se il nuovo welfare aziendale riparte dai contratti può ripartire più forte».
(ITALPRESS/WEWELFARE.IT).
Welfare Hub, in banca la piattaforma a misura di Pmi
La piattaforma di welfare aziendale che conta il maggior numero di aziende collegate e certamente quella allestita da Intesa Sanpaolo, con il suo Welfare Hub. Nato come piattaforma per erogare servizi di welfare per i dipendenti della banca – secondo una case history modello di welfare aziendale – da qualche anno è diventato il link per le piccole e medie aziende clienti della banca, che offrono i benefit “flessibili” nel catalogo di quelli organizzati dall’istituto di credito.
Per chi resta a casa
Uno degli ultimi servizi aggiunti, in relazione alla congiuntura attuale è la nuova sezione #iorestoacasa dedicata ai servizi fruibili online e valorizzata con una grafica che la rende immediatamente visibile. I lavoratori dipendenti delle aziende che hanno sottoscritto il servizio, opportunamente informati, individuano agevolmente in questo modo le soluzioni fruibili direttamente da casa, idonee a soddisfare le esigenze di tutta la famiglia utilizzando il proprio credito welfare (a esempio abbonamenti a riviste, buoni acquisto libri o Amazon, abbonamento a pay tv, supporti psicologici on line, ripetizioni on line per I figli, abbonamenti digitali a quotidiani, corsi di lingua on line, eccetera).
I Flexible Benefit
In questo modo si coniuga l’esigenza di restare a casa con la possibilità di accedere a servizi utili e adatti a tutto il nucleo familiare del dipendente titolare del beneficio. Una evoluzione dei flexible benefit previsti dai piani di welfare, che ben si adeguano alla situazione di particolare disagio in cui vivono milioni di italiani, blindati a casa oltre le loro intenzioni. Andrea Lecce, responsabile direzione Sales e Marketing privati e aziende retail, commenta: «il welfare aziendale rappresenta una delle soluzioni più interessanti per favorire la ripartenza economica dopo il Covid 19 nella prospettiva di una sempre maggiore “unità di intenti” tra aziende e dipendenti. Il nostro gruppo guarda da sempre con grande attenzione a questo “virtuoso” strumento, fortemente agevolato dal punto di vista fiscale e contributivo. Nella fase emergenziale attuale intendiamo fornire assistenza e soluzioni alle imprese e ai loro dipendenti anche in questo ambito e siamo impegnati quotidianamente per rendere i servizi offerti sempre più in linea con le esigenze dei nostri clienti».
Compensi a chi lavora
In questo frangente Welfare Hub assicura un supporto e un affiancamento alle aziende che, non avendo interrotto la propria attività, stanno valutando il riconoscimento di benefit ai dipendenti per ricompensarli in qualche modo dell’attività svolta in questo periodo difficile di emergenza epidemiologica. In tal senso la piattaforma Welfare Hub consente ai dipendenti di accedere a tante opportunità e vantaggi fruendo delle agevolazioni fiscali. Le migliaia di aziende clienti della banca trovano nei servizi di Welfare Hub una sorta di “super-provider” di welfare aziendale, che consente di reperire sul mercato le migliori convenzioni per garantire servizi su tutto il territorio nazionale. Una vera e propria maxi-piattaforma che si propone solo alle imprese collegate a Intesa Sanpaolo, da una relazione di clientela. Nell’ambito delle iniziative di supporto alle esigenze delle aziende e dei propri dipendenti è stato siglato un accordo di segnalazione con Rbm Assicurazione Salute, con una nuova polizza “Assicurazione per indennità da Sindromi Influenzali di natura pandemica”. Con tale copertura è possibile garantire alcune tutele e maggior serenità in caso di contrazione di virus pandemici. Una opportunità di miglior copertura sanitaria che va ad integrare il servizio del Sistema sanitario nazionale.
Un aiuto a chi studia
Welfare Hub diventa così un moltiplicatore delle iniziative e delle opportunità offerte dalla banca per essere al fianco dei dipendenti e delle loro famiglie. In particolare la ripartenza del Paese non può prescindere dall’investimento nella formazione delle giovani generazioni per le quali la banca offre l’accesso a un prodotto innovativo come è il caso di “per Merito”, finanziamento a condizioni estremamente vantaggiose, senza richiesta di garanzie, per sostenere le spese universitarie. L’iniziativa “per Merito” è un finanziamento accessibile e senza garanzie rivolto a oltre 1,6 milioni di studenti universitari in Italia che lo potranno richiedere sul sito www.intesasanpaolo.com: fino a 5.000 euro l’anno per cinque anni per coprire spese di studio, mobilità, residenza e periodi formativi all’estero.
(ITALPRESS/WEWELFARE.IT03).
Welfare aziendale dopo covid-19, vince il “People Care”
Il welfare aziendale dopo il Covid-19: siamo alla quarta “puntata” della serie di appuntamenti proposti da Luca Pesenti, docente di Sistemi di Welfare Comparato e di Organizzazione e Capitale Umano all’Università Cattolica di Milano e da Giovanni Scansani, co-fondatore di Valore Welfare (gruppo Cirfood), advisor specializzato nella materia.
Sulla base delle premesse generali presentate nella terza puntata del nostro personalissimo “viaggio al termine della pandemia”, possiamo andare ai contenuti futuri immaginabili per il “nuovo” Welfare Aziendale (WA).
Per farlo, però, occorre innanzitutto provare a leggere entro quale profonda trasformazione valoriale e culturale saremo sempre più immersi.
Poco più di quarant’anni fa (era il 1977) lo scienziato sociale statunitense Ronald Inglehart nel suo libro The Silent Revolution, teorizzò l’inevitabile trasformazione dei valori occidentali nella direzione del post-materialismo: data per scontata la sicurezza materiale (economica e di salute), le generazioni divenute adulte dagli anni Settanta in poi attribuiscono maggiore importanza a obiettivi come la capacità di autoespressione, l’autonomia, la libertà di scelta, l’ambientalismo.
Inglehart sosteneva che al crescere della prosperità, tali valori post-materiali sarebbero gradualmente divenuti egemonici all’interno delle società post-industriali grazie ai processi di sostituzione intergenerazionale. Fino a un certo punto le cose sono effettivamente andate in quella direzione. Dagli anni Settanta – dati per scontati alcuni elementi basici (benessere economico, salute, pensione, sicurezza) – l’Occidente ha effettivamente “virato” il proprio impianto culturale verso nuovi valori legati ai “nuovi diritti” (l’ambiente, la “qualità della vita”, il wellness, ecc.).
Un processo strettamente collegato alla nascita e allo sviluppo della società consumista di massa e all’idea che il benessere potesse crescere in modo continuo permettendo a ciascun individuo di trovare la propria strada sviluppando una propria definizione di benessere.
Poi però qualcosa ha cominciato a rompersi. A seguito della tragedia dell’11 settembre 2001, la domanda di “sicurezza” ha ricominciato a crescere, e dopo il crack finanziario del 2007/2008 anche la domanda di protezione sociale è tornata prepotentemente in auge. Per certi versi, una parte della società occidentale, da ormai quasi due decenni, sembra essere tornata a valori “materialisti”, tanto da spingere lo stesso Inglehart (insieme alla collega P. Norris) a identificare l’emersione di un “cultural backlash“, una reazione valoriale anti-postmaterialista, incarnatasi poi politicamente nei movimenti populisti e sovranisti. Ecco, dentro questo quadro l’Occidente al tempo del Covid-19 scopre che, oltre alla sicurezza e alla protezione sociale, si sta indebolendo anche un terzo, grande pilastro della modernità: quello della salute.
E che al contempo, anche il benessere economico non può più essere dato per scontato. Stiamo dunque tornando (almeno per una parte crescente della popolazione) alla casella di partenza, dopo esserci illusi di aver costruito il migliore dei mondi possibili e aver addirittura vaneggiato un futuro liberato dal problema del lavoro.
Anche le strategie di WA non potranno non tenere in considerazione queste dinamiche.
Il lavoro da mettere in sicurezza
Facile preconizzare (e vivamente sperare) che il WA prossimo venturo dovrà passare, anzitutto, per una più strutturata attività di prevenzione e gestione della sicurezza organizzata su una più vasta scala d’interventi, dovendosi ora includere nel set dei rischi (attuali e futuri) anche quello di tipo pandemico (con quel che conseguirà in tema di procedure, controlli e ridefinizione dei limiti della privacy da coordinare meglio con le più ampie aspettative di sicurezza collettiva).
Bene sarebbe se tali attività potessero coordinarsi con il Sistema sanitario nazionale (SSN) in un utile scambio di informazioni che tra loro aggregate sarebbero capaci di aggiornare il monitoraggio territoriale mettendo così a sistema, almeno su questo fronte, il tessuto produttivo e quello sociale complessivo.
È possibile, altresì, immaginare che possano essere definiti “protocolli territoriali” che tenendo conto delle condizioni socio-demografiche della popolazione e di quelle attinenti le patologie più diffuse, anche rispetto alla tipologia delle lavorazioni locali, impongano alle aziende l’adozione di veri e propri “piani sanitari” da certificare e sottoporre a periodici controlli, ampliando le responsabilità del medico competente e sburocratizzandone le funzioni. Ben più che una traccia per avviarsi verso questa impostazione è rappresentata dal recentissimo “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure di contrasto e contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” sottoscritto il 14 marzo scorso dalle Organizzazioni sindacali dei lavoratori e dalle Rappresentanze datoriali.
Il “nuovo” WA, dunque, passerà per una ridefinizione del concetto stesso di sicurezza sul lavoro (ampliando le funzioni del RSPP e del RLS) che sarà più ampia ed efficace (il coronavirus ci ha fatto scoprire che quasi nessuna azienda, anche tra quelli globali, aveva i DPI per affrontare l’attuale e non meno globale pandemia) e passerà anche per una rinnovata attenzione all’operatività degli interventi a tutela della salute, grazie ad un più diffuso sviluppo dell’assistenza sanitaria integrativa, all’investimento in polizze collettive ad hoc e nelle coperture LTC.
Il luogo di lavoro insomma – come recentemente in un’intervista rilasciata per “La Stampa” ha ricordato Marco Bentivogli (Segretario Generale dei metalmeccanici della CISL) – “deve diventare un safe-place: un posto assolutamente protetto, più della propria casa”.
Verso piani di welfare “neo-materialisti”
La prevenzione dei rischi sul luogo di lavoro è il primo passo, ma il WA del “dopo Covid-19” dovrà affrontare una sfida totalmente differente: quella del ritorno ancora più forte ed esplicito di un bisogno di protezione sui temi classici del welfare (salute, reddito, pensioni).
Gli anni che abbiamo di fronte, anche dopo il giorno in cui saremo stati capaci di sconfiggere definitivamente questo virus, porteranno con sé una richiesta molto più basica di quella cui la logica dei flexible benefit ci ha abituati. Prima di poter pensare a spendere il proprio budget di WA in viaggi (esotici o esperienziali che siano) o in altre forme di spesa in beni e servizi dell’area del lifestyle, i lavoratori richiederanno più frequentemente (e più probabilmente) altro: il carrello della spesa, la copertura dei costi per l’asilo nido o la babysitter, il rimborso delle spese per i libri o le scuole dei figli, convenzioni commerciali più vantaggiose, il rimborso per le spese sanitarie, l’accesso a prestiti, il sostegno per il pagamento dei mutui…
Messo in sicurezza (e reso più salubre e igienico) il luogo di lavoro e chi vi opera, si dovrà insomma rimettere mano ai piani di WA (anche a quelli esistenti). Ridefinire e ampliare, sia tramite la bilateralità (CCNL), sia in sede aziendale (contrattazione integrativa) le coperture garantite dall’assistenza sanitaria rafforzabili, se del caso, mediante prodotti assicurativi (caso delle LTC), rafforzare l’area della conciliazione vita-lavoro, potenziare i benefit di sostegno al reddito, ripensare le policy di ageing aziendale: saranno queste le prime piste sulle quali immaginare che il “nuovo” WA potrà incamminarsi. Se possibile, aprendosi al territorio e facendo sistema nella direzione di un vero “welfare responsabile”, per attivare maggiori e più stretti legami con l’offerta pubblica dei servizi sanitari e socio-assistenziali, nonché per coinvolgere il Terzo Settore con appositi accordi e partnership. Sempre che, naturalmente, soggetti pubblici e di Terzo Settore sappiano cogliere appieno l’opportunità.
Imparare per tutta la vita
La sicurezza, però non richiama solo l’idea dell’integrità psico-fisica e dell’essere posti al riparo da incidenti e malattie. Il panorama d’incertezza economica che caratterizzerà la fase di uscita dall’emergenza e la stessa successiva ripresa produttiva sarà inevitabilmente caratterizzato dalla perdita di posti di lavoro in conseguenza di ristrutturazioni e chiusure di aziende.
Emerge qui l’importanza di un’altra imprescindibile misura di welfare che in futuro dovrà essere sempre più assicurata: il long life learning come strumento di tenuta dell’employability delle persone da considerare come un pilastro irrinunciabile, perché le transizioni lavorative – già in sé diffuse nell’attuale generale processo di ridefinizione dell’organizzazione del lavoro – saranno ancora più frequenti e possibili in futuro. Una strategia di people management che non includa questo tema sarebbe miope ed un piano di WA che non includa questo tipo di percorso potrebbe rilevarsi, nel tempo, gravemente deficitario.
E non è solo la formazione in vista del rafforzamento della propria capacità di generare reddito, tramite il lavoro, a dover essere considerata nello scenario prossimo venturo.
Il reddito ed il proprio profilo economico, nel panorama fitto di incertezze che ci attende, dovrà poter essere rafforzato non già e non solo con misure dirette (delle quali il WA, inteso come strumento di sostegno, è una tra quelle possibili), ma si dovrà espandere includendo misure come, ad esempio, la formazione finanziaria perché è a tutti ben noto come in Italia il grado di conoscenza media della materia sia basso ed è facilmente ipotizzabile che in un panorama incerto come quello che ci attende, per i più sarà molto (o ancor più) difficile orientarsi.
E per restare ancora sul tema della formazione, assisteremo forse a una più diffusa presa di coscienza che “fare welfare” in azienda non potrà prescindere dalla formazione dei beneficiari ad un suo “uso” più consapevole e lungimirante. Sarà forse meno trendy raccontare nei convegni di aver spinto verso la previdenza complementare e l’assistenza sanitaria integrativa, ma sarà stato anche molto più utile, in chiave prospettica, rispetto all’aver messo a disposizione gl’immancabili buoni benzina e le divertenti e post-materialistiche GiftCard.
Il benessere digitale
L’emergenza Covid-19 ci ha messo di fronte anche alla più grande (ed improvvisa, oltre che nella maggior parte dei casi anche improvvisata) prova di digitalizzazione di massa del lavoro da remoto. Il “nuovo” WA sarà allora anche interessato a dare risposte ad una nuova richiesta di benessere di cui si sente la crescente necessità a fronte dell’uso delle innovazioni tecnologiche che ormai connotano il lavoro e la vita stessa, tra loro spesso mixate nello (e dallo) stesso device che abbiamo a disposizione.
Alludiamo al benessere digitale che non è solo questione di dotazione di strumenti, di velocità e di qualità dei collegamenti o di formazione per lavorare in remoto (una questione che investe anche un tema di equità perché forte è ancora un certo digital divide all’interno delle stesse aziende), ma è ricerca e rispetto di un maggiore equilibrio tra la propria dimensione soggettiva (sempre più sussunta dal lavoro) e il “carico” della componente dovuta alle sollecitazioni digitali complessive della vita considerata nella sua interezza. Il diritto alla disconnessione, certo. Ma c’è molto di più e alcuni psicologi del lavoro hanno sviluppato approcci originali per conciliare l’ambito del lavoro con quello privato, anche rispetto alla dimensione digitale nella quale entrambe le sfere sono ormai collocate e vissute.
Meno flex, più people care
Alla luce di tutte le considerazioni che abbiamo in precedenza proposto, il “nuovo” welfare d’impresa – prima ancora che guardare a defiscalizzazione e decontribuzione di benefit e premi – dovrà volgere il suo sguardo all’organizzazione del lavoro per renderla coerente con le nuove policy di prevenzione e sicurezza (quelle attuali legate all’emergenza e quelle future, associate alla prevenzione ed al corretto fronteggiamento dei rischi). Significa ripensare turni, trasferte, flussi di ingresso e uscita, zone comuni (come spogliatoi, mense, sale riunioni, aule di formazione), ridefinire gli interventi di pulizia e sanificazione di ambienti e attrezzature.
Per quanto riguarda il WA in senso stretto, crediamo che inevitabilmente dovranno trovare maggiore spazio soluzioni che limiteranno l’impostazione flexible dei benefit sin qui concessi per fare spazio a una maggiore adozione dei servizi di people care, intesi sia con riferimento ai lavoratori quali beneficiari diretti degli interventi, sia considerandone la portata extra-individuale che finisce per includere il nucleo familiare e quindi, in particolare, i figli minori e gli anziani. Salute, reddito, pensioni: il ritorno dei bisogni “materialisti” su cui si è costruito il modello classico del welfare europeo rappresentano non più “una” sfida, ma “la” sfida per il futuro prossimo del WA nel nostro Paese.
Ampliare i piani di WA alle sollecitazioni che abbiamo descritto ne rafforzerà gli effetti ed aiuterà ad accelerare quel processo di neo-umanesimo che il lavoro ed il suo futuro sempre più richiedono.
Al crescere dell’impatto delle tecnologie e degli effetti della ridefinizione dei processi produttivi (anche in conseguenza delle crisi e non solo delle crescite), quello di cui si sente e si sentirà sempre più bisogno non sarà mai scritto in un software, né sarà mai racchiuso in qualche componente hardware di ultima generazione: parliamo dell’apporto della pienezza umana nel (e per il) lavoro e della sua piena umanizzazione per uno sviluppo realmente integrale delle persone e delle collettività.
(ITALPRESS/WEWELFARE.IT).
Welfare aziendale, la sfida della partecipazione
Il welfare aziendale dopo il Covid-19: siamo alla terza “puntata” della serie di appuntamenti proposti da Luca Pesenti, docente di Sistemi di Welfare Comparato e di Organizzazione e Capitale Umano all’Università Cattolica di Milano e da Giovanni Scansani, co-fondatore di Valore Welfare (gruppo Cirfood), advisor specializzato nella materia. Il refrain del momento è che con il Covid-19 “siamo come in guerra”. Rispetto al conflitto del 1940-1945 si dimentica, però, una differenza di non poco conto: dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, in Italia (come altrove), restava ben poco della struttura economica e produttiva: in gran parte linee ferroviarie, strade, fabbriche e macchinari erano stati completamente distrutti o gravemente danneggiati, mentre il sistema industriale riconvertito per le esigenze belliche aveva bisogno di una contro-riconversione per tornare al suo status originale. Oggi è esattamente il contrario: tutto quello che avevamo a disposizione per lavorare e per produrre è ancora lì che ci aspetta, pronto a ripartire. In molti ritengono che questa differenza possa rappresentare un grande vantaggio rispetto al passato, pur senza dimenticare che gli effetti sociali ed economici che deriveranno dalla pandemia potranno, in molti casi, rallentare proprio quella ripartenza ed in altri, purtroppo, persino impedirla. Difficilissimo, in ogni caso, provare ad avanzare qualunque ipotesi dotata di senso, per il momento. Se comunque proprio si vuole insistere con il paragone bellico, allora possiamo dire che, quanto al welfare, dalla storia di quell’epoca ci giunge una speranza.
In quel periodo, ben prima del successivo boom economico, le imprese italiane – sulla scorta delle esperienze maturate tra gli anni ’30 e ’40 del secolo scorso – non azzerarono le loro iniziative “sociali” (le cosiddette “provvidenze”, come si chiamavano allora), ma semmai le rafforzarono. E ciò fecero sulla premessa che un taglio alla voce “benessere” avrebbe sì ridotto dei costi, ma avrebbe ulteriormente aggravato la condizione dei lavoratori che, come tutti, uscivano da un periodo drammatico sul piano sociale ed economico. Tagliare quella voce di spesa avrebbe significato deprimere lo spirito della rinascita che, anzitutto, doveva essere condiviso ed agìto pienamente proprio dai lavoratori se si volevano risollevare le sorti delle singole aziende e della nazione. Sentieri diversi nel post-epidemia Sarà così anche di fronte alla sfida rappresentata dalla “ricostruzione” post-Covid19? Lo capiremo un passo dopo l’altro, come sempre. Ma sin d’ora, provando a leggere in controluce anche i primi segnali emersi nel pieno dell’emergenza (di cui abbiamo parlato nel precedente articolo), è possibile avanzare un’ipotesi precisa: la differenza, domani più di ieri, verrà dalla “cultura del welfare” presente all’interno dell’azienda. L’emergenza di questi giorni non farà che enfatizzare le differenze di approcci tra aziende free riding e aziende sharing value. Da un lato, abbiamo le aziende che prima del Covid-19 pensavano il Welfare Aziendale (WA) in modo del tutto strumentale, seguendo logiche di free riding finalizzate a “nascondere”, dietro le retoriche welfariste, esigenze (certamente lecite, talvolta addirittura comprensibili in un Paese come l’Italia) più basiche e contingenti. In sostanza chi ha “fatto” WA avendo in mente innanzitutto (o esclusivamente) l’immagine dell’azienda o, più spesso, la possibilità di alleggerire un po’ i costi relativi alla parte variabile dello stipendio – nello specifico: il premio di risultato (PdR) – difficilmente proseguirà su questa strada.
Dall’altro lato, stanno le aziende che hanno saputo abbracciare da tempo la cultura del “valore condiviso” (sharing value) tra azienda, lavoratori e altri stakeholder, applicandola alle logiche interne di HR management e a serie politiche di people care integrate nelle strategie aziendali. Sono di solito le aziende che hanno investito non soltanto sui flexible benefit e sulla convertibilità del PdR, ma che hanno costruito organici piani di WA a partire dall’ascolto reale delle esigenze delle persone, coinvolgendo (là dove presente) il sindacato in una dinamica di ridefinizione dello scambio tra prestazione e salario capace di contabilizzare anche il benessere della persona tra gli elementi da tenere in considerazione. Queste aziende, come già stiamo osservando in queste settimane, saranno ancora più protagoniste sul fronte del rafforzamento del benessere dei lavoratori. L’epidemia è destinata ad allargare il fossato tra questi due tipi di approccio al WA? Non necessariamente. Anzi, è possibile che l’esperienza di queste settimane possa spingere molte aziende free rider a cogliere questa emergenza come un’occasione per un cambio di rotta nella propria cultura organizzativa. Di fronte alle criticità cui è stata ed è tuttora sottoposta la business continuity delle imprese (inclusa la negligente assenza di corrette dotazioni ICT e di programmi di disaster recovery che la pandemia ha impietosamente svelato), i datori di lavoro si sono resi conto, una volta di più, di quale sforzo e di quale capacità operativa possano essere protagonisti team aziendali realmente motivati e in grado di generare risposte che solo una forte spinta verso la reciprocità, generata da condotte attente alla persona nella sua totalità, è in grado di attivare. Ovviamente ci stiamo riferendo a quelle aziende dove la comprensione di ciò che stava accadendo non è stata nascosta con l’ordine di lavorare comunque e a testa bassa, ma che prima delle (e non già contro le) esigenze produttive hanno anteposto la salute dei loro dipendenti.
La partecipazione e l’azienda “comunità di destino”. Dentro quest’ultimo virtuoso quadro d’insieme (che va oltre il mero scambio economico e ne richiama un altro, molto più ricco e complesso: un vero e proprio “patto”) il rispetto per la persona e per il lavoro, non disgiunto da quello per la salute, sta spianando la strada anche ad un crescente desiderio di maggiore partecipazione espresso sia dai lavoratori, sia dagli stessi datori di lavoro: quelli che hanno compreso come non vi sia futuro nello sviluppo delle imprese se nel progetto sottostante e negli obiettivi che ne delineano la rotta, non siano chiamati a bordo anche coloro che sono in prima fila nello sforzo della navigazione che verso il raggiungimento di quegli stessi obiettivi deve condurre. Forse mai come adesso, nella storia del lavoro, le imprese che hanno agito rispettando il “patto” (e non solo il contratto) sono state percepite come delle comunità espressione di un destino comune. In queste aziende, quand’anche questa drammatica crisi dovesse porre il dilemma di dure scelte, sarà proprio il livello della partecipazione alla sua organizzazione e al suo destino che le renderà capaci di creare le condizioni per una maggiore e meno dolorosa condivisione delle decisioni che dovranno essere assunte.
Favorire e diffondere le pratiche partecipative nel lavoro e nell’impresa significa, in prospettiva, (ri)creare una coscienza della partecipazione anche nella società ed è sotto gli occhi di tutti quanto di ciò vi sia e vi sarà bisogno nel prossimo, speriamo vicino, “nuovo dopoguerra”. Il tema della partecipazione porta con sé anche un altro importante aspetto del benessere individuale e collettivo: quello della riappropriazione della piena dignità del lavoro, della sua rivalorizzazione e dell’irrobustimento del cosiddetto “contratto psicologico”, che completa il contratto di lavoro (altrimenti, per definizione, sempre incompleto) con il quale molti degli aspetti più rilevanti del lavoro non possono essere “comprati”: si pensi alla dedizione, alla passione, all’engagement ed alle altre immaterialità che il lavoro sprigiona e senza le quali il lavoro non può mai essere ben fatto, né vissuto integralmente. Il “nuovo” WA passa anche da queste considerazioni e il tema dei suoi obiettivi nel “dopo-Covid19”, associato all’introduzione (o all’irrobustimento, se già presenti) di meccanismi di partecipazione organizzativa sembra possa essere una delle cartine di tornasole della capacità di saper cogliere il momento e di uscire dalle secche dalle quali le stesse Relazioni Industriali degli ultimi anni avevano cercato di trarsi, riposizionandosi proprio sui temi appena citati e sull’importanza di più tangibili riconoscimenti delle singole soggettività, quali elementi sempre più centrali nei processi di evoluzione verso la cosiddetta “impresa 4.0”.
Non è un caso, allora, che le parti sociali nel “Patto per la Fabbrica” siglato nel 2018 (si noti: “patto”, non contratto) aprano e chiudano la to do list dei temi ritenuti prioritari per i prossimi anni, rispettivamente indicandoli proprio nel “welfare” e nella “partecipazione” (Art. 6). La centralità della persona (intesa non come slogan da citare nei convegni e nelle interviste, ma come impegno sostanziale) che le conseguenze della pandemia, sulla produzione e sul lavoro, ha per certi versi esaltato sembra destinata a non esaurirsi nel “dopo-Covid19”, ma a rinsaldarsi proprio a partire da questa fase drammatica. Le stesse Relazioni Industriali – spesso viste in azienda come funzione secondaria (prima le vendite e la finanza) – sono destinate a guadagnare centralità e a caratterizzarsi per una maggiore partecipazione: lo si vedrà a partire dai numerosi rinnovi dei CCNL scaduti e/o in scadenza e nella presumibile manutenzione dei contratti di secondo livello attualmente in vigore. Non è escluso, anzi, che quella che si aprirà potrà essere proprio una stagione di forte sviluppo della contrattazione aziendale e della partecipazione (diretta e indiretta): un’occasione – come si comprende – particolarmente allettante per il Sindacato perché nello scenario futuro, agendo diversamente, ciò che finirebbe per caratterizzarne la funzione sarebbe il taglio assistenzialistico della sua azione, in palese contrasto con il crescente empowerment che i meccanismi partecipativi porranno sempre più all’ordine del giorno.
(ITALPRESS/WEWELFARE.IT).
Il welfare aziendale dopo il Covid-19 non è lo smart working
Sono più o meno cinque anni che lo smart working è entrato di prepotenza nel dibattito pubblico e nel linguaggio corrente del nostro Paese. Già attuato da alcuni grandi aziende anche prima che fosse normato in modo organico, per la prima volta, con il Jobs Act (2015), successivamente è stato oggetto di un estenuante iter parlamentare, per giungere finalmente ad una codificazione definitiva con la Legge n. 81/2017. Partiamo allora da qui per capire di che cosa stiamo esattamente parlando. Perché l’impressione è che ci sia qualcosa di stonato nel modo con cui lo si sta raccontando (soprattutto dall’inizio dell’emergenza) in questo periodo di riassestamento da remoto di (quasi) tutti i lavori possibili. Con smart working possiamo sinteticamente definire una specifica modalità di svolgimento della prestazione lavorativa caratterizzata dalla possibilità di lavorare dove, quando e come si vuole. Contiene dunque il riconoscimento, da parte dell’azienda, di una forte dose di libertà nell’adempimento della prestazione di lavoro (ciò che la contraddistingue nettamente dal telelavoro).
Operativamente rappresenta una modalità di esecuzione dell’ordinaria prestazione lavorativa contrattualmente definita con ciascun “lavoratore agile” ed associata ad una un’evoluzione del telelavoro; essa è basata sull’uso e la piena disponibilità di strumenti informatici e telematici che consentono lo svolgimento del lavoro anche mutando il luogo in cui la prestazione è erogata (ad esempio da casa o da un coworking). Nella sua essenza (e dalle sue corrette prassi esecutive) lo smart working è inteso come una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare, a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati (utilizziamo qui la definizione che ne dà l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano). Per potersi dire davvero smart, il lavoro deve possedere quattro requisiti fondamentali: i) una specifica cultura organizzativa non più unicamente basata sulla presenza fisica e sul controllo visivo, ma sulla responsabilizzazione verso i risultati, ii) l’esplicita introduzione di politiche aziendali orientate alla flessibilizzazione degli orari e dei luoghi di lavoro, iii) adeguate dotazioni tecnologiche (garantite dall’azienda ai lavoratori coinvolti, e iv) adeguati spazi fisici. Proprio alla luce di questa definizione generale, l’esaltazione che in queste settimane è stata fatta dello smart working (che di smart adesso ha ben poco perché, per la maggior parte delle persone coinvolte, è solo lavoro da remoto coatto) è apparsa impropria e persino controproducente anche rispetto ad una corretta lettura di questo istituto. Basterebbe anche solo pensare al fatto che la fonte istitutiva dell’attuale sedicente smart working non è più l’accordo con il singolo lavoratore, ma l’automaticità derivante dall’unilaterale decisione datoriale ora consentita dalla disciplina emergenziale dei dpcm susseguitisi sin qui.
Lo smart working al tempo del Covid-19, pertanto, non c’entra nulla con questa pratica, almeno quando essa sia riferita ad aziende (la maggior parte) che, se non ci fosse stata la pandemia, a questa modalità di lavoro non sarebbero certo arrivate (o, almeno, non con questa velocità). La sensazione è che molti di coloro che sono stati “messi” in smart working, soprattutto se non precedentemente avvezzi a questa condizione (ancora una volta: la stragrande maggioranza, se è vero che sempre l’Osservatorio del Politecnico ha stimato in soli 570mila il numero di “lavoratori agili” nel nostro Paese), non vedono l’ora di tornare al loro posto di lavoro. E i motivi sono molti. Perché, per i più, la casa non è propriamente il luogo ideale per lavorare. Immaginatevi ad esempio una coppia impegnata in qualche call e in “incontri” via web con i colleghi di lavoro, contemporaneamente chiamata a seguire uno o più figli piccoli durante le lezioni in home schooling. Figli – sia detto per inciso – che a loro volta (che come “lavoro” fanno gli alunni nelle scuole), non vedono l’ora di tornare in aula. O ancora, immaginiamoci le condizioni di lavoro di coloro i quali non possono vantare la presenza in casa di uno spazio specifico dedicato (uno studio, per esempio). Ma anche le difficoltà di chi deve fare i conti con dotazioni tecnologiche e/o reti internet non adeguate perché un po’ vecchiotte e/o lente. Sommiamo tutti questi elementi e possiamo immaginarci una nuova geografia delle diseguaglianze (sociali ed economiche) al tempo del Covid 19.
Ma oltre a questi elementi strutturali, c’è anche altro. Qualcosa che occorrerà mandare a memoria, per sapere resistere a tentazioni utopistiche sul lavoro che verrà. La temporanea assenza da uffici, fabbriche, studi, scuole, università, officine, insomma dai luoghi in cui ogni giorno milioni di persone si recano per lavorare, ci sta dando un’utile lezione culturale, forse addirittura antropologica. Ci mancano i colleghi dell’ufficio, come ai figli mancano i compagni di banco o di corso. Certo ci sono internet e la tecnologia a darci una mano, ma non è facile stare da soli, per settimane, davanti ad uno schermo e continuare a sentirsi parte di un team come quando le relazioni con gli altri si vivevano offline, come quando c’era la fisicità dei luoghi, dei suoni o dei rumori e quella delle parole e degli occhi di chi ci stava di fronte. Lavorare da casa, nelle attuali condizioni, non è la stessa cosa e ciò non foss’altro perché non è stata una nostra scelta, ma un’inevitabile costrizione e per di più la peggiore: quella causata dalla paura. Abbiamo scoperto, stando a casa lavorando (invece che solo per godere dei nostri affetti e del nostro tempo libero), che prima di amare gli spazi di fondamentale libertà dal lavoro, amiamo proprio il lavoro e lo amiamo nel luogo dove il lavoro si fa normalmente: negli uffici, nelle fabbriche, nelle scuole, in ogni luogo dove si stia a contatto con gli altri e per gli altri.
Lavorare è stare immersi nell’ambiente che il lavoro genera e riproduce: è questo il “bene comune” che adesso ci manca e che ci è stato rapinato dal “male comune” del virus che ci ammorba. Basta questo a far capire che lo smart working ai tempi del Covid-19 non è affatto lavoro agile, perché la sua premessa, e soprattutto la sua promessa, sta proprio nella libertà di sceglierselo e di organizzarselo. È solo così che il work diventa smart e diventa anche una misura di benessere organizzativo dentro e fuori dal luogo di lavoro (e quindi di Welfare Aziendale). Tutto ciò, senza ovviamente tacere il fatto che lo smart working (quello vero) non è “lavoro da casa”, ma è il risultato di un ben più complesso processo di change management che ruota intorno ad un cambio di prospettiva epocale nelle aziende: dal controllo “qui e ora” alla valutazione dei soli risultati generati da un contesto massimamente fiduciario al quale, però, molti manager fino in fondo ancora non credono, convinti come sono che la formula “presenza fisica + controllo visivo” esaurisca il potere direttivo (un evidente misunderstanding tra autorità e autorevolezza). Non a caso (e chiudiamo tornando a citare i dati dell’Osservatorio del Politecnico di Milano) quei 570mila smart worker italiani distribuiti nel 58% delle grandi imprese mostrano più elevati livelli di soddisfazione, un più diffuso engagement e un miglior rapporto con i “capi” cui debbono rispondere.
(ITALPRESS/WEWELFARE.IT)
Il welfare al femminile. Da sempre, secondo Nuna Lie
Nuna Lie, azienda italiana che opera da oltre dieci anni nel mercato del fashion retail al femminile, si contraddistingue per un’attenzione alle politiche di welfare in materia di formazione e crescita delle dipendenti. In un’intervistala responsabile Risorse Umane – Formazione e Sviluppo, Mariagiovanna Modoni, spiega la filosofia aziendale.
Nuna Lie è un marchio made in Italy in crescita, ormai presente quasi totalmente sul territorio nazionale e anche all’estero. Cosa vuol dire però essere un brand al femminile oggi? Questa è una domanda alla quale io faccio molta fatica a rispondere. Quella che viene considerata come un’eccellenza, per noi è la nostra quotidianità. Nuna Lie nasce come azienda al femminile ed è per noi naturale avere il 95% di dipendenti donne che ricoprano ruoli di rilievo nell’ambito manageriale e amministrativo. Le nostre colleghe possono fare percorsi di crescita ed essere mamme allo stesso tempo, per noi non è mai stato un problema.
Come e da quanto avete strutturato i vostri piani di welfare? Nuna Lie ha sempre lavorato con degli incentivi al personale basati sul raggiungimento degli obiettivi da parte di ciascun negozio. Da circa un anno e mezzo, abbiamo deciso però di utilizzare un portale di flexible benefits che le colleghe possono utilizzare per il supporto alla famiglia (assistenza genitori anziani, istruzione dei figli, voucher baby sitting) e per dotarsi di un’assicurazione sanitaria integrativa. E la formazione? Tutti le nuove dipendenti ricevono un Induction Kit, un manuale di lavoro che riguarda sia la formazione tecnica che il regolamento dell’azienda, in più un libro relativo alla vendita assistita perché ci teniamo che le colleghe siano tutte preparate allo stesso modo. Abbiamo predisposto inoltre un corso di due giornate che fanno tutte le nuove colleghe entro il primo semestre dall’assunzione, e inoltre una formazione a catalogo riguardante corsi in aula specifici per le varie figure operative. Fa parte del nostro storico tenere dei corsi in negozio con consulenti esterni che ci seguono da anni oppure tenuti da colleghe senior che ormai formate si spostano e svolgono attività da docenti. Un successo questo che ci permette di capitalizzare la formazione e indice di crescita professionale: ormai il ruolo di chi lavora in negozio come store manager, supera di gran lunga la vecchia concezione della commessa.
Avete già attuato piani di smart working o è una soluzione alla quale siete ricorsi in occasione dell’emergenza Covid-19? Abbiamo sospeso le attività da una quindicina di giorni non essendo i nostri esercizi che producono beni di prima necessità. Lo smart working è stato applicato nella nostra azienda a partire dallo scorso ottobre, prevedendo in media una giornata lavorativa da casa a settimana per dipendente, quindi eravamo già pronti con una struttura tecnica a sostegno consistente in un pc e la connessione sicura al server aziendale. Tuttavia da fine febbraio e con l’aggravarsi dello stato d’emergenza, c’è stato un incremento delle giornate lavorative e poi lo spostamento completo in modalità smart working per i reparti che devono continuare a lavorare. Il nostro bilancio dunque, e al di là della crisi attuale, è molto positivo non solo per l’azienda ma anche per i dipendenti, il progetto funziona e viene incontro a coloro che sono pendolari o hanno famiglia.
Donna in carriera e mamma: è possibile per Nuna Lie? Dobbiamo implementare i piani integrativi per la maternità e non abbiamo quindi ancora una strutturazione adeguata alla quale provvederemo in tempi brevi, quello fatto finora consiste nell’aver strutturato dei percorsi individuali che rispettino i bisogni delle colleghe. Vogliamo favorire il talento delle nostre dipendenti e sarebbe controproducente non agevolare le necessità relative alla famiglia. Progetti e piani futuri una volta usciti da questo periodo di quarantena? Oltre all’apertura di nuovi negozi prevista prima del lock down, continueremo a investire sempre in formazione. Stiamo facendo crescere delle risorse per renderle delle trainer sul territorio, un pool di talenti in area manager, chiamato informalmente start team, e formato in maniera specializzata tenendo conto delle specifiche competenze. Se il singolo cresce, cresce tutto il gruppo. Alcuni dati relativi al vostro brand. Nuna Lie oggi conta circa 120 punti vendita di cui 63 a gestione diretta e i restanti in franchising, in Ticino abbiamo 4 negozi e uno in Spagna nella provincia di Barcellona, per un totale di 330 dipendenti diretti. Il fatturato aziendale del 2019 è stato di 55 milioni di euro.
(ITALPRESS/WEWELFARE.IT).









