Lavoro & Welfare

Un futuro da società benefit per i provider del welfare aziendale

Per i provider di welfare aziendale c’è un futuro da “società benefit”. La suggestione/provocazione viene da Giovanni Scansani, consulente, co-founder di Valore Welfare (la società acquisita alla fine del 2019 da BluBe di Cirfood). L’intervento integrale nella sezione “Dossier”.
Per Giovanni Scansani il tema è questo: affrontare e discutere il ruolo “sociale” del provider di welfare aziendale. L’obiettivo del profitto, parametro essenziale di ogni attività imprenditoriale, potrebbe non essere l’unico, accompagnato da una o più “finalità di beneficio comune”. Vocazione universalistica del welfare integrativo; orizzonte integrativo del welfare aziendale con il welfare sociale, di comunità e di territorio; compenetrazione con gli obiettivi del Terzo settore, a pieno titolo competitor delle società che distribuiscono servizi di welfare alle aziende e ai loro dipendenti: tutte ragioni che dovrebbero sollecitare una riflessione attiva proprio sul ruolo “sociale” dei provider.
Per Scansani c’è già una cornice normativa: la definizione delle “società benefit”, varata in Italia con la legge di Bilancio del 2016 (la 208/2015, la stessa che ha dato il via all’esplosione del fenomeno del welfare aziendale!). Una tipologia che oggi conta circa 500 imprese.
Ma perché i provider potrebbero, quasi “naturalmente”, collocarsi nell’area delle “società benefit”, si chiede Scansani? “Lo si può desumere dalla lettura del comma 376 dell’articolo 1 della legge 208/2015 che riassume l’impostazione generale voluta dal Legislatore. Con tale disposizione, infatti, s’intende “promuovere la costituzione e favorire la diffusione di (…) società benefit che (…) oltre allo scopo di dividerne gli utili, perseguono una o più finalità di beneficio comune” le quali, in una con l’operare “in modo responsabile, sostenibile e trasparente”, devono essere rivolte a “persone, comunità, territori e ambiente, beni e attività culturali e sociali, enti e associazioni e altri portatori di interesse”. Quest’ultima espressione (“altri portatori di interesse”) – aggiunge Scansani – si riferisce a soggetti (o gruppi di soggetti) coinvolti dall’attività della società benefit, tra i quali – ponendosi dalla prospettiva dell’attività svolta da un provider – rientrano a pieno titolo i lavoratori (oltre che del provider stesso) anche delle imprese da esso servite (così come, ovviamente, anche i committenti, i fornitori e gli enti locali)”.
Al centro dell’agire della società benefit “sta dunque il perseguimento di una o più “finalità di beneficio comune”, ossia la ricerca di uno o più effetti positivi (o la riduzione di uno o più effetti negativi) rispetto ad una o più delle categorie di stakeholder con le quali i provider, come qualsivoglia impresa, normalmente si relazionano nel loro quotidiano operare” continua Scansani nel suo dossier.
E ancora: “Il provider che acquisisca la qualifica di società benefit è dunque un soggetto che dovrà porsi questo obiettivo di rendicontazione e di misurazione (coordinabile con le rendicontazioni di sostenibilità di molte tra le imprese committenti) che oltretutto comporterebbe un avanzamento di non secondaria importanza per il consolidamento del rilievo sociale delle prassi di welfare aziendale”.
(ITALPRESS/WEWELFARE.IT).

Studio Sila: per il lavoro, investire nel welfare di relazione

In attesa della 5a edizione del Welfare Index PMI 2020, abbiamo incontrato alcune delle realtà che si sono contraddistinte come Welfare Champion nell’edizione 2019. Intervista a Tommaso Sila, titolare di Studio Sila, realtà di tredici dipendenti specializzata nella Consulenza del Lavoro a Brescia per Aziende e Cittadini.

La vostra realtà imprenditoriale in che modo investe sui propri dipendenti (benefit, assistenza, smartworking)?
Studio Sila investe nel welfare in moltissime forme: utilizziamo lo smart working, flessibilità oraria e i flexible benefit utilizzabili tramite un plafond welfare molto ampio. Abbiamo inoltre convenzioni con soggetti terzi in campo salute e acquisti. I benefit sono riconosciuti per regole comuni e in base a meccanismi premiali.

Quanto ha inciso per voi il riconoscimento da parte del Welfare Index PMI e quanto è importante per la vostra reputazione aziendale?
Il Welfare Index PMI è arrivato come premio dopo che avevamo già deciso in autonomia come realtà di investire nel welfare. Il mio studio offre consulenze inerenti al welfare, progettiamo sistemi organizzativi di premialità e queste valutazioni sono state applicate all’interno dello studio, prima di proporle ai clienti, per testarle e perché ci credo. L’uso del logo Welfare Index PMI ha avuto un peso mediatico e di immagine ma non quantificabile a consuntivo.

Ultimamente si parla molto di community relation, ovvero l’interesse verso l’ambiente di riferimento nel quale lavora l’individuo e il tessuto relazionale da potervi costruire al suo interno. Attraverso quali strumenti ascoltate le comunità (dipendenti, realtà associative, enti) che vi gravita attorno?

La nostra struttura basa il suo ascolto attraverso una costante relazione umana coi nostri dipendenti. Scegliamo di interloquire ponendo delle domande e ottenendo risposte utili ad entrambe le parti. La comunità con la quale ci confrontiamo è quella dei clienti e dei loro dipendenti, che ci comunicano direttamente o indirettamente i loro bisogni e difficoltà. Rispetto invece al territorio, devo dire che di fatto c’è pochissima conoscenza realmente corretta in materia di welfare e fiscalità, quindi poca interazione, se non per eventi formativi che organizziamo periodicamente per clienti e i loro dipendenti.

Per i vostri piani di welfare, vi appoggiate a un provider e/o a realtà associative di categoria? In base a quali fattori li scegliete?

Siamo autonomi nella fornitura anche se poi per l’operatività pratica ci avvaliamo anche di un portale di flexible benefit messo a disposizione per i dipendenti nel quale possono scegliere liberamente i servizi da utilizzare.

Welfare aziendale e territorio: il terzo Settore può diventare un competitor nella fornitura di piani e servizi di welfare aziendale?

Abbiamo lavorato insieme alle cooperative per quanto riguardo la formazione della figura del welfare manager indicando loro la possibilità di gestione del welfare sia endoassociativo che per la fornitura di servizi a soggetti terzi, come provider di servizi in merito a ciò che può esser fatto nell’assistenza sanitaria domiciliare o maggiordomo aziendale. Credo che le cooperative abbiano una mission diversa: il loro welfare è indirizzato a utenti bisognosi e non ai loro dipendenti o a degli ipotetici “Clienti”. Per gestire per conto terzi il welfare bisogna avere una mentalità imprenditoriale, quindi le cooperative hanno un focus strutturalmente diverso.
(ITALPRESS/WEWELFARE.IT)

Welcome Italia, il welfare a tempo indeterminato

In attesa della 5a edizione del Welfare Index PMI 2020, abbiamo incontrato alcune delle realtà che si sono contraddistinte come Welfare Champion nell’edizione 2019. Intervista a Lara Martini, HR Development Manager di Welcome Italia, società italiana specializzata nell’offerta di servizi integrati di telecomunicazione e cloud computing

La vostra realtà imprenditoriale in che modo investe sui propri Dipendenti (benefit, assistenza, smartworking)?

La cosa che ci interessa di più è avere Clienti e Dipendenti felici. Ci prendiamo cura delle Persone dal momento in cui entrano in azienda e vogliamo accompagnarle in un processo di crescita che prosegue per tutta la loro vita lavorativa. Tutti i Dipendenti di Welcome Italia hanno contratti a tempo indeterminato. Una scelta su cui puntiamo perché dà sicurezza alle Persone, permette di investire sulla formazione continua e rassicura i Clienti che sanno di poter contare sull’assistenza di interlocutori preparati e attenti alle loro esigenze.
Crediamo che lo sviluppo delle Persone abbia effetti positivi anche per l’azienda e sosteniamo chi esprime il desiderio di ampliare il proprio bagaglio culturale: affiancato alla formazione strutturata prevista per ciascun Reparto, abbiamo stanziato un fondo illimitato per il finanziamento di corsi, anche non strettamente collegati all’ambito lavorativo, che ciascun Collega può richiedere. Con il fondo è possibile finanziare anche percorsi di counseling o di coaching, sedute di psicoterapia per i Dipendenti e per i loro familiari oltre che l’acquisto di libri di testo (personali o messi a disposizione di tutti nella biblioteca aziendale). Al fondo si accede attraverso la super valutazione dei permessi: ogni 300 euro spesi per finanziare i costi del corso e di trasferta, vengono scalate 8 ore di permesso. Il contributo chiesto ai Colleghi è minimo e palesa il loro ingaggio e la loro motivazione. La formazione è così importante per la crescita aziendale che chiediamo a tutti i Responsabili di organizzare il lavoro del proprio Reparto in modo da permettere alle Persone di studiare almeno due ore a settimana durante l’orario di lavoro.

Ci prendiamo cura anche del comfort e della salute delle Persone.
Per tutti i Dipendenti abbiamo messo a disposizione sedie ergonomiche Herman Miller (le stesse che il presidente statunitense Barack Obama utilizzava per i meeting alla Casa Bianca) e, nella sede di Pisa, abbiamo postazioni regolabili in altezza per chi desidera lavorare in piedi (un toccasana, come confermano i medici, per chi svolge un lavoro sedentario).

L’azienda ha definito un sistema premiante che arriva fino a due mensilità extra legate al raggiungimento di obiettivi aziendali e ad altri, stabiliti insieme ai Manager, legati alla crescita personale. Ogni sei mesi ciascun Manager incontra i propri Collaboratori per restituire loro un feedback strutturato e legato al lavoro svolto nei mesi precedenti.

Alcuni benefit aziendali puntano a sostenere il reddito di chi lavora lontano da casa con rimborsi chilometrici e buoni pasto. Il Km12, ad esempio, prevede un rimborso di 0,15 euro lordi per ogni Km percorso (oltre il dodicesimo) per il tragitto casa-lavoro, la Trasferta sede invece prevede la restituzione di 20,00 euro nette a chi, a seguito di una richiesta del Manager, si deve spostare tra le due sedi di Pisa e Massarosa (LU).

Ci impegniamo per favorire il work-life balance e permettiamo, a chi lo desidera, di dedicarsi alla famiglia e gestire autonomamente i propri impegni personali nel modo che ritiene più opportuno: gran parte delle Persone, in accordo con il proprio Responsabile e nel rispetto degli impegni professionali, può usufruire di un orario flessibile e lavorare da casa.
Chi lavora a contatto con il Cliente, e ha più vincoli dal punto di vista dell’orario, può scambiare il proprio turno con i Colleghi senza chiedere il permesso al proprio Responsabile, ma semplicemente comunicando la modifica. Questo è reso possibile grazie a un’accurata organizzazione dei Reparti basata sulla massima diffusione delle competenze e sulla perfetta interscambiabilità delle Persone.

Tutti i Dipendenti hanno anche a disposizione gratuitamente una SIM con chiamate illimitate e traffico dati oltre che la connettività gratuita di Welcome Italia per uso domestico con 2 canali telefonici.

Quanto ha inciso per voi il riconoscimento da parte del Welfare Index PMI e quanto è importante per la vostra reputazione aziendale?

Ricevere un premio per il Welfare riconosce il valore delle politiche aziendali, a favore delle Persone, che abbiamo implementato. Partecipare a questo evento è stato un grande onore perché ha confermato che abbiamo scelto la strada giusta per rendere felice chi lavora ogni giorno con noi.

Ultimamente si parla molto di community relation, ovvero l’interesse verso l’ambiente di riferimento nel quale lavora l’individuo e il tessuto relazionale da potervi costruire al suo interno. Attraverso quali strumenti ascoltate le comunità (Dipendenti, realtà associative, enti) che vi gravita attorno?
Puntiamo molto sull’ascolto delle Persone e sulla valorizzazione delle loro idee. Il primo esempio che mi viene in mente è la realizzazione della nuova sede di Massarosa, un investimento importante che migliorerà i servizi offerti ai Clienti ma avrà anche notevoli riflessi occupazionali ed economici sul territorio. A “guidare” il progetto saranno i Dipendenti: chi meglio di loro sa cosa serve per creare un ambiente di lavoro ideale? Per questo abbiamo scelto di ricorrere alla progettazione partecipata e chiesto ai nostri Colleghi di fare le loro proposte per rendere ancora più confortevole la sede.

L’iniziativa ha avuto un successo notevole e così la nuova sede sarà una casa “cucita” sulle esigenze delle meravigliose Persone che ogni giorno si prendono cura dei nostri Clienti. Il progetto partecipato per la sede riprende lo spirito di “Porte Aperte”, l’iniziativa che permette a tutti di chiedere un appuntamento per proporre idee di miglioramento del lavoro e dei servizi.

Ogni sei mesi partecipiamo all’indagine guidata dal Great Place to Work Institute volta a misurare il clima aziendale. Le risposte vengono poi utilizzate per realizzare miglioramenti concreti. Siamo felici che anche quest’anno le opinioni espresse dai Colleghi ci abbiano permesso di ottenere la certificazione di Best Workplaces italiana, con livelli di apprezzamento in forte crescita in tutte le dimensioni oggetto di indagine.
Collaboriamo con le associazioni di categoria e usufruiamo dei servizi che ci mettono a disposizione. Così creiamo un network virtuoso sul territorio e per i Colleghi. Ad esempio, grazie alla collaborazione con l’Associazione Industriali, abbiamo attivato la detassazione Irperf al 10% sui premi annuali riconosciuti ai Dipendenti.

Per i vostri piani di welfare, vi appoggiate a un provider e/o a realtà associative di categoria? In base a quali fattori li scegliete?

Al momento non abbiamo una piattaforma per lo sviluppo del welfare ma, vista la continua crescita della nostra azienda, stiamo valutando l’idea di entrare in contatto con i migliori player del settore.

(ITALPRESS/WEWELFARE.IT)

Massagli “Il 60% dei buoni pasto cartacei sarà digitale”

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Emmanuele Massagli, presidente di Aiwa e Anseb (Associazione nazionale società emettitrici buoni pasto) chiarisce alcuni punti del dibattito odierno sui buoni pasto a seguito delle ultime proteste e della recente nota Consip sull’avvio di una ricognizione sulla scontistica Le aziende cambiano atteggiamento: dopo aver scommesso sull’evoluzione del mercato, Fipe Confcommercio grida al collasso, minaccia uno sciopero e chiede entro l’autunno una riforma… cosa è successo in questi primi mesi? Non vi sono fatti di cronaca politica o economica attuali, non è stato periodo di interventi normativi o di nuove assegnazioni di gare pubbliche. L’unica novità è il tavolo di lavoro aperto al Ministero dello Sviluppo Economico con lo scopo di inserire nei contratti di convenzionamento una fidejussione a garanzia degli esercenti. Il movimento mediatico è quindi motivato dalla volontà degli esercenti di segnalare al decisore pubblico – come più volte fatto nel corso degli anni – l’illogicità di un mercato rovinato dal meccanismo di gara Consip al massimo ribasso. È una intenzione legittima e condivisa da ANSEB nelle sue intenzioni profonde. Questo il messaggio forte emerso dalla conferenza stampa alla quale si fa riferimento, nella quale è stato anche annunciato un contenzioso tra gli esercenti e Consip per la mancata vigilanza sul caso di QuiGroup. Contenzioso che noi di ANSEB non solo approviamo, ma abbiamo reso possibile dando mandato a Fipe di rappresentare anche noi.

La presunta “tassa occulta del 30% sul valore di ogni ticket”, incomprensione o dato di fatto? Un dato arrotondato per motivi comunicativi: ad oggi, come emerso nel corso della stessa conferenza stampa citata, la media degli sconti in gara Consip è attorno al 19,5%, non al 30%. Il resto sono costi di gestione che riguardano l’esercente, non il servizio specifico. Anche il 19,5% è una cifra elevata, comunque, sebbene non sempre richiesta per intero alla rete degli esercenti: dietro queste cifre vi sono sovente dei meccanismi di retrocessione in servizi o pubblicità di parte di queste commissioni, che abbattono di diversi punti la cifra apparentemente pattuita. Il totale risulta quindi più basso di quello apparso sui media. Attenzione però: questo meccanismo (c.d. retromarketing) è problematico ed è anch’esso una stortura della gara pubblica. Inoltre, non attenua il problema della crescita delle commissioni che gli esercenti fanno bene a segnalare. Facciamo ancora una volta chiarezza: quanto costa il passaggio alla digitalizzazione e perché un’azienda dovrebbe farlo? Nell’ultima finanziaria è stato abbassato il valore defiscalizzato e decontribuito dei buoni cartacei a 4 euro. Concretamente, vuole dire che oggi se un lavoratore riceve dalla sua azienda un buono del valore più alto di 4 euro, sulla differenza azienda e lavoratore pagano le rispettive quote di contributi e il lavoratore le tasse da reddito da lavoro secondo la sua aliquota. Il valore incentivato del buono digitale è stato invece innalzato a 8 euro. Quindi, per intenderci, se decidessimo di riconoscere a un dipendente un buono da 8 euro (cifra che in molte zone d’Italia non basta per pranzare), in un caso (cartaceo) all’azienda costerebbe circa 9,2 euro e il lavoratore ne percepirebbe circa 6,50; nel secondo caso (digitale) il costo azienda sarebbe di 8 euro e così anche il netto spendibile dal dipendente. Non è una differenza di poco conto.

Qual è la differenza tra un’erogazione dei buoni pasto disciplinata da un accordo sindacale e un’altra vincolata da un regolamento aziendale? Per il lavoratore non c’è differenza: il buono pasto è sempre quello e spesso il dipendente non è a conoscenza se alla base vi sia un contratto o un regolamento. Il punto è che il contratto è decisamente più rigido da gestire, mentre il regolamento è una decisione unilaterale, quindi subitanea. Il problema si pone quando cambia la legislazione (è stato in passato così anche in materia di premi di produttività o welfare): se nell’accordo il valore del buono è fissato esplicitamente a 5,29 euro e la modalità individuata è quella cartacea, in coerenza con la vecchia normativa, occorre un nuovo accordo per passare all’elettronico e/o per alzare/abbassare il valore. Intanto che si compie questa operazione, 1,29 euro iniziano ad essere tassate e contribuite. Il sindacato è certamente disponibile a valutare velocemente questi casi, ma dietro agli accordi sindacali vi sono spesso nodi e tensioni ben più urgenti e profonde del buono pasto, che potrebbero allungare i tempi.

Anseb ha in animo qualche iniziativa sui buoni pasto? Di proposte normative ne abbiamo fatte tantissime, quasi mai ascoltate. Da anni proponiamo il superamento della centralità della offerta economica per l’assegnazione dei lotti di gara CONSIP mediante la fissazione di un limite massimo di punteggio associato allo sconto. Si tratta di un meccanismo già utilizzato dalle amministrazioni che non si avvalgono di CONSIP. Sempre in questa direzione si muovono altre proposte, attivabili senza modifiche normative: innalzamento del numero di esercenti da convenzionare; maggiore differenziazione della rete secondo indicatori di qualità; passaggio al solo buono pasto digitale. Normativamente andrebbe salvaguardato il valore nominale del buono pasto anche in sede di offerta in gara. Si potrebbe inoltre realizzare un fondo di garanzia a tutela degli esercenti alimentato da una percentuale del circolante relativo alle gare pubbliche. È da valutarsi anche un irrigidimento dei requisiti per l’autorizzazione alla attività di emissione dei buoni pasto, non soltanto per quanto concerne la solidità patrimoniale, ma anche prevedendo per legge che il soggetto giuridico incaricato del rimborso dei buoni pasto alla rete degli esercenti affiliati sia lo stesso assegnatario dell’appalto o contraente del contratto. È opportuno, infine, istituire per decreto, senza oneri per lo Stato, una commissione nazionale rappresentativa dei portatori di interesse del servizio sostitutivo di mensa. Nel dibattitto di questi giorni non vedo da nessuno questo dettaglio di proposta, già messo in forma di norma. Perché non unire le forze e convincere la politica ad ascoltarci?

Possiamo avere ad oggi un dato delle aziende che hanno fatto richiesta dei buoni digitali e delle aziende emettitrici che si sono organizzate per predisporre il pagamento negli esercizi commerciali? Il dato in un mese e mezzo è ancora incerto, ma sappiamo che il mercato ha compreso la novità e sta reagendo: il primo sondaggio ci dice che oltre il 60% dei clienti del cartaceo si è interessato al digitale e che il 30% di questi sta già predisponendo il passaggio. Entro fine anno il mercato sarà in larga maggioranza digitalizzato.

(ITALPRESS/WEWELFARE.IT)

Smart Working, emergenza o cambiamento necessario?

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La modalità di lavoro in smart working, portata al centro dell’attenzione dall’emergenza Coronavirus con il DPCM del 25 febbraio 2020, è largamente applicata in Europa, ma non in Italia. Secondo Eurostat il lavoro agile nel nostro paese è ancora molto poco diffuso, il 2% nel 2018, pari a 354 mila persone, percentuale più bassa d’Europa (poco sopra Cipro e Montenegro), ma anche la più distante da Paesi come Regno Unito (20,2%), Francia (16,6%) o Germania (8,6%). Per non parlare di quelli del Nord Europa, dove la quota di lavoratori che possono lavorare da casa anche con flessibilità oraria sale al 31% in Svezia e Olanda, 27% circa in Islanda e Lussemburgo, 25% in Danimarca e Finlandia. Eppure sono 8 milioni 359 mila i lavoratori dipendenti potenzialmente occupabili in smart working. Se ad un terzo di questi fosse concessa la possibilità di lavorare saltuariamente o stabilmente in modalità “agile”, si raggiungerebbero i 2 milioni 758 mila. In Europa invece l’11,6% dei dipendenti europei lavora da casa saltuariamente (8,7%) o stabilmente (2,9%) (dati Eurostat 2018). Nonostante la legge sul lavoro agile (L. 81/2017) abbia introdotto elementi di flessibilità organizzativa nel mercato del lavoro italiano che, sfruttando le opportunità offerte dalle nuove tecnologiche, consentono di coniugare gli obiettivi di efficienza e produttività aziendale con il benessere del lavoratore, il numero dei dipendenti coinvolti è ancora estremamente basso. La motivazione plausibile è dettata da una diffidenza verso soluzioni organizzative innovative, che facciano della cultura del risultato il baricentro del modello gestionale. “Il lavoro agile rappresenta un vero e proprio modello organizzativo per le aziende e necessita di un approccio e di strumenti gestionali diversi da quelli ordinari o emergenziali”, evidenzia il Presidente della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, Rosario De Luca. “Se da un lato sono evidenti i benefici per il dipendente che lavora da casa in termini di conciliazione vita privata e lavoro, riduzione dei tempi e dei rischi legati allo spostamento casa-lavoro – continua -, dall’altro lato, l’adozione di questo modello implica da parte delle aziende uno sforzo organizzativo rilevante in termini di investimento tecnologico; revisione dei processi di lavoro, formazione e valutazione dei dipendenti e soprattutto il superamento delle naturali diffidenze che possono sussistere da parte del management e degli stessi lavoratori”. L’organizzazione del lavoro agile non risulta dunque così semplice, implica una rivoluzione di approccio sia dal punto di vista sociale che economico finanziario in grado di ammortizzare questo cambiamento strutturale. “Ben vengano, dunque, in questo frangente provvedimenti d’urgenza volti a favorire il lavoro agile, ma è assolutamente necessario implementare questa modalità lavorativa con interventi più strutturali e mirati, volti ad incentivarne l’utilizzo e a risolvere anche alcune ambiguità normative, come quelle legate al tema della sicurezza, che ancora ne ostacolano la diffusione”, conclude De Luca.

(ITALPRESS/WEWELFARE.IT).

Fondi pensione? Maré ci pensa e boccia (a metà) Mucchetti

Massimo Mucchetti all’inizio del mese di gennaio ha lanciato una sassata nello stagno della previdenza complementare. A differenza del tormentato mondo delle “pensioni”, intese come prestazioni obbligatorie del sistema pubblico (costantemente oggetto di riforma con scaloni, scalini, esodati, quote e ripensamenti), il secondo pilastro della previdenza vive da un quarto di secolo in un mondo ovattato; talmente ovattato da coinvolgere meno di un terzo dei lavoratori italiani; poco più del 20% se consideriamo coloro che effettivamente pagano i premi previsti dall’adesione al proprio fondo di riferimento.
Provocatore da giornalista, irregolare nelle file del Pd anche durante il suo mandato parlamentare da senatore, con un’articolessa sul Foglio, Mucchetti ha scelto la strada del politicamente scorretto. Mentre c’è chi, più o meno velatamente, si pone il problema di rendere obbligatoria l’adesione al secondo pilastro previdenziale (almeno con un ripristino del silenzio-assenso che nel 2007 consentì l’iscrizione di molti lavoratori dipendenti ai fondi negoziali), Mucchetti propone di consentire una volontaria contribuzione aggiuntiva presso Inps.
L’idea – che prese le prime mosse nel 2012, con il disegno di legge “IntegraInps” che rimase chiuso in un cassetto, complice l’imminente scioglimento delle Camere, all’inizio del 2013, l’ostilità dei sindacati, e l’ondata anti-casta, anti-sistema, che tutto travolse, tacciando anche le buone proposte come cattive intenzioni – non riguarda la creazione di un nuovo fondo di previdenza complementare, alternativo e concorrente degli attuali quasi 400 (eh sì, un po’ tanti!). Nulla a che vedere con la suggestione del presidente Inps Tridico che vorrebbe invece un vero e proprio fondo Inps a capitalizzazione, per integrare la prestazione pensionistica che sarà sempre più magra.
Mucchetti vorrebbe che i lavoratori dipendenti potessero versare contributi volontari, destinati a migliorare la prestazione previdenziale – sempre secondo il criterio della ripartizione – attraverso il calcolo con il metodo contributivo. Una rivoluzione? Per Mucchetti almeno una opzione di libertà in più, per aumentare le entrate contributive pubbliche da vincolare a investimenti in economia reale. Due nemici sicuri: l’industria del risparmio bancario-assicurativo, il mondo sindacale.
Infatti si sono levate solo voci contro. Come era prevedibile. Talvolta facendo confusione, a volte erogando bacchettate un po’ arroganti e poco disponibili al confronto. Al netto della provocazione – c’è chi l’ha definita una “mucchettata”, memore della vocazione “contrarian” dell’ex vice-direttore del Corriere della Sera – la questione del futuro dei Fondi pensione, a 25 anni dalla riforma della previdenza complementare, non è di poco conto.
Mauro Maré, consigliere del Mef, docente universitario, presidente di Mefop, entra nel dibattito con il garbo (e le premesse) del professore, che stima l’interlocutore, pur non condividendo la proposta.
Veniamo al dunque. “C’è qui una confusione tra ripartizione e capitalizzazione. Mentre ha senso – dichiara Maré – pensare a un meccanismo di solidarietà a ripartizione, tra pensionati ricchi e poveri o tra pensionati e le generazioni che matureranno una pensione bassa per gli insufficienti montanti versati – si pensi ai lavori tipici dell’economia digitale con basse contribuzioni e periodi di inattività – un fondo a capitalizzazione pubblico è un’idea errata e pericolosa per ovvie ragioni. Treu, Cazzola, io stesso negli anni passati proponemmo un meccanismo di solidarietà pubblico che potesse essere finanziato non tanto da una ulteriore contribuzione volontaria, ma soprattutto dalla fiscalità generale, coinvolgendo però le basi imponibili diverse dai redditi da lavoro che sono quelle che più facilmente eludono, se non evadono, l’obbligo fiscale”.
Con onestà intellettuale Maré riconosce che “questo meccanismo di solidarietà pubblico, finanziato dai contribuenti, può derivare anche da una volontaria quota aggiuntiva, rispetto alle percentuali obbligatorie e può soddisfare una legittima esigenza di libertà”.
“Venendo invece all’idea di un fondo pubblico integrativo a capitalizzazione, essa è apparsa di tanto in tanto nel nostro paese. È un’idea errata per diverse ragioni. Innanzitutto perché al rischio di mercato – tipico degli investimenti finanziari – si aggiungerebbe un meno controllabile e per questo più forte rischio politico. “Solo il Cile tentò nel 1979 uno schema pubblico esclusivo pensionistico a capitalizzazione. C’era però allora una dittatura! In tutto il resto del mondo, da sempre, la previdenza segue lo schema a ripartizione obbligatorio e in genere un sistema misto: pubblico a ripartizione e privato a capitalizzazione. I lavoratori attivi pagano le pensioni dei lavoratori in quiescenza oppure accumulano risorse vere in un fondo privato a capitalizzazione. I denari della contribuzione obbligatoria non si accumulano realmente nelle singole posizioni previdenziali dei contribuenti e sono solo di tipo nozionale, ma costituiscono le risorse con cui pagare le prestazioni da ripartire ai pensionati, secondo la legislazione vigente, che tiene in conto l’andamento demografico ed economico del Paese”.
Maré inquadra la questione, aggiungendo una seconda premessa: “Il sistema a ripartizione crea un implicito patto generazionale, per il quale chi viene dopo è chiamato a garantire la prestazione di chi lo ha preceduto. Non è così nei sistemi a capitalizzazione, almeno non in modo evidente, nei quali il singolo contribuente è titolare del proprio conto previdenziale, che non chiederà alla generazione successiva, al tempo della riscossione della rendita o del capitale, la prestazione che deriverà dai mercati finanziari”.
È evidente che il sistema a capitalizzazione rafforza i diritti di proprietà e riduce il rischio politico, mentre quello a ripartizione premia il criterio solidaristico, creando vincoli (ormai sempre meno equi) tra generazioni.
I fondi di previdenza complementare privati –negoziali o aperti – si propongono di distribuire il rischio, secondo ogni buona logica di investimento. Il fondo pubblico obbligatorio è regolato dalle leggi, e dalla politica economica e per sua natura dipende da scelte politiche. I fondi privati, se ben gestiti, sono esposti solo al rischio del mercato finanziario.
Il pericolo dell’idea? Per Maré è evidente: “L’ipotesi di versare volontaristicamente una quota aggiuntiva di contribuzione al fondo pubblico obbligatorio a ripartizione aggiungerebbe risorse nel breve periodo, inducendo la politica ad approfittare di queste nuove disponibilità finanziarie. Non sarebbe di fatto un’entrata netta per il bilancio perché ad essa corrisponderebbe un’uscita futura – anzi la riduzione del vincolo di bilancio nel breve periodo sicuramente stimolerebbe l’incentivo a spendere di più per pensioni – esattamente l’opposto di ciò che è necessario fare”.
Ma veniamo all’altro punto debole dei Fondi pensione, indicato da Mucchetti. È vero che dei 170-180 miliardi di euro accumulati dal sistema della previdenza complementare troppo pochi sono orientati al finanziamento dell’economia reale. Ma bisogna ricordare che il capitale esiguo raccolto (imparagonabile a quello dei fondi pensione nordeuropei o anglosassoni) non consente ai fondi di poter entrare con forza nel mercato dell’economia reale. L’ingresso dei fondi pensione nel finanziamento dell’economia reale del Paese presupporrebbe anche un intervento e una vigilanza sulla governance e magari anche sugli obiettivi di sostenibilità dell’investimento.
“Sacrosanta l’obiezione avanzata sulla prevalenza dell’incasso del premio finale, piuttosto che la rendita mensile, effettivamente complementare rispetto alla prestazione obbligatoria erogata dal primo pilastro – ammette Maré -. Si dovrebbe intervenire per creare un deciso vantaggio fiscale per chi sceglie la rendita, perché questo è l’obiettivo della previdenza complementare”: assicurare una prestazione aggiuntiva che consenta di recuperare una quota di reddito, a fronte di tassi di trasformazione sempre più prossimi al 50%, dal 70-80% degli scorsi anni.
La consolidata abitudine di incassare il capitale finisce per equiparare l’attività dei fondi di previdenza complementare ad altre modalità di investimento finanziario. “Bisognerebbe introdurre qualche vantaggio fiscale per coloro che rispettano gli obiettivi della previdenza complementare, cioè la fruizione di una rendita e non l’incasso del capitale. E parallelamente qualche disincentivo per chi volesse riscuotere il capitale invece della rendita” come suggerisce Maré.
Sullo sfondo resta il problema dei problemi: la quota di contribuzione previdenziale obbligatoria è talmente alta da comprimere sul nascere – e soprattutto in una congiuntura economica sfavorevole – ogni buona intenzione di risparmio previdenziale, destinato a un secondo o terzo pilastro. Il decollo delle forme di previdenza complementare, negli altri Paesi spesso indicati come benchmark virtuosi, si accompagna ad aliquote di contribuzione obbligatoria che valgono più o meno la metà di quelle vigenti in Italia.
In un mondo perfetto si dovrebbero poter introdurre elementi di libertà in entrambi i sensi: sia per chi volesse aggiungere risorse al proprio conto corrente previdenziale obbligatorio, sia per chi volesse sottrarre risorse (e prestazioni) dal fondo pubblico, per puntare più attivamente sul secondo pilastro. Il rischio è quello di aprire il vaso di Pandora, evocando l’opting out (vale per il mondo della previdenza tanto quanto per quello della sanità), tanto aborrito da chi vede materializzarsi minacce nei confronti del pilastro pubblico.
(ITALPRESS/WEWELFARE.IT).

Zurich4care, il nuovo business per la mutualità

Zurich Italia lancia Zurich4Care, un modello di business assicurativo basato su un nuovo approccio alla mutualità, per affrontare un problema che riguarda milioni di italiani: la non autosufficienza.
Zurich4Care è una piattaforma per l’acquisto di soluzioni assicurative destinata a gruppi di colleghi (appartenenti a grandi aziende con almeno 1.000 dipendenti o associazioni) che, uniti in un “gruppo d’acquisto”, hanno la possibilità di beneficiare di condizioni economiche non ottenibili individualmente. All’interno del gruppo i rischi sono preventivamente selezionati (età, sicurezza sul lavoro, controlli sanitari).
Dario Moltrasio, Amministratore Delegato di Zurich Investments Life, ha affermato: “Con Zurich4Care vogliamo avere un ruolo attivo nell’indirizzare il tema della non autosufficienza attraverso una soluzione innovativa e semplice. Vogliamo dare una risposta concreta ad un problema sociale, lo facciamo con un modello assicurativo mai visto sul mercato che fa della condivisione la sua forza”.
La prima soluzione disponibile nella piattaforma Zurich4Care è una copertura LTC (Long Term Care) sottoscrivibile ad un costo irrisorio, 10 euro al mese – il 90% in meno rispetto alle tradizionali LTC individuali – che garantisce una rendita vitalizia mensile di 1000 euro in caso di sopraggiunta non autosufficienza, causata da invecchiamento, infortunio o malattia. Zurich4care non prevede alcuna visita medica preventiva.
Nel mese pilota sono già 6.000 gli utenti raggiunti dalla piattaforma e entro fine 2020, Zurich punta a raggiungere 1 milione di persone con la soluzione LTC di Zurich4care. Potenzialmente, in 3 anni, il numero degli individui coperti con un’assicurazione LTC in Italia potrebbe raddoppiare, grazie a questo nuovo modello assicurativo.
4 milioni di persone in Italia oggi sono non autosufficienti a causa di infortuni, malattie e invecchiamento e, si stima, che nel 2030 i soli anziani non autosufficienti saranno più di 5 milioni. A fronte di queste evidenze, il welfare pubblico fatica a rispondere alle crescenti esigenze della popolazione dovute principalmente all’innalzamento dell’età media.
Gli italiani sono preoccupati più dalla non autosufficienza (80%) che dalla morte stessa (54%) ma, nonostante questo, meno del 3% della popolazione ha ad oggi sottoscritto una polizza LTC, che garantisce una rendita mensile alla perdita dell’autosufficienza. Le ragioni di questa tendenza alla sottoassicurazione dipendono principalmente dal costo delle tradizionali soluzioni assicurative oggi sul mercato. Da uno studio Zurich emerge che il 53,4% della popolazione decide di non sottoscrivere polizze LTC poiché le considera troppo care.
Al di là della copertura assicurativa, il costo della non autosufficienza è molto elevato, lo Stato non riesce a farsene carico, e, nella quasi totalità dei casi, grava sul bilancio familiare per un importo che varia da 1.500 euro (badante) a 4.000 euro (struttura) al mese.
Zurich4Care riduce i costi sociali della non autosufficienza consentendo a chiunque di pensare con serenità al futuro, proprio e dei familiari, sfruttando i vantaggi della condivisione e l’affidabilità di Zurich.
(ITALPRESS/WEWELFARE.IT)

Covip, manuale per controllo investimenti della casse

La Covip vuole vigilare più e meglio sulle casse private e privatizzate. Parliamo delle 20 Casse associate in Adepp, che rappresentano più di 1,6 milioni di professionisti italiani (e 400mila pensionati), alle quali la legge consente una maggiore flessibilità e per le quali da anni è in via di emanazioni il decreto “emanando” che dovrà definire i criteri cui le Casse dovranno attenersi per la scelta dei loro investimenti finanziari (un patrimonio complessivo di 87 miliardi di euro). L’iniziativa Covip riguarda l’avvio di una procedura di pubblica consultazione sul nuovo Manuale delle Segnalazioni statistiche e di vigilanza sugli investimenti delle Casse professionali. Le nuove Segnalazioni, che in una prima versione nei mesi scorsi erano già state presentate agli Enti interessati e sulla cui evoluzione la Covip ha tenuto sempre aggiornati i Ministeri del Lavoro e dell’Economia, consentiranno di far compiere un importante salto qualitativo di conoscenza nel dettaglio del patrimonio detenuto dagli Enti di previdenza e degli investimenti realizzati. “A tutto vantaggio – si legge nel comunicato Covip – della sana e prudente gestione che deve caratterizzarne l’attività a tutela dei loro iscritti, tanto più trattandosi di Enti che gestiscono risparmio previdenziale di base e di natura obbligatoria. A distanza di oramai quasi dieci anni dall’attribuzione alla Covip delle competenze in materia di controlli sulle Casse professionali, l’iniziativa è volta ad accrescere la trasparenza e la completezza delle informazioni e rafforzare la funzione di vigilanza previdenziale da parte delle Amministrazioni competenti. Un percorso in linea con quanto già da tempo è stato realizzato con successo da Covip per i Fondi pensione”. L’iniziativa di Covip persegue l’obiettivo di maggiore vigilanza sulle Casse: richiesta che si fa da tempo manifesta, adducendo l’assenza del già citato decreto “emanando”, che difatto alleggerirebbe i controlli del servizio che presentiamo questa sera. Ma in questo vuoto normativo per Covip si determina il disallineamento delle norme di controllo, che finiscono per essere più cogenti per i Fondi pensione rispetto a quello che opera sulle Casse. Per Covip il Manuale sottoposto a consultazione pubblica descrive “un sistema più evoluto, dunque, destinato a fornire numerosi e importanti vantaggi: consentire una più puntuale e articolata rappresentazione delle informazioni trasmesse dagli Enti, accrescere il livello di automazione del sistema e la flessibilità nel suo utilizzo, incrementare la qualità dei dati grazie allo sviluppo di controlli automatici, attenuando i rischi di incorrere in errori operativi tipici di procedure connotate da un minor livello di automazione”. Inoltre il sistema di segnalazioni, che presenta tra gli altri l’importante elemento di novità costituito dalla richiesta di informazioni per singolo strumento finanziario e singolo attivo detenuto, potrà mettere in moto un processo virtuoso che, in prospettiva, consentirà alle Casse professionali una migliore conoscenza delle caratteristiche dei propri portafogli, con effetti positivi sulla gestione delle risorse.
(ITALPRESS/WEWELFARE.IT).