Da Assoprevidenza e Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili – CNDCEC nasce il “Centro di tutela dei diritti degli azionisti istituzionali”. Obiettivo: contribuire alla promozione, al coordinamento e allo sviluppo della partecipazione attiva degli investitori previdenziali e assistenziali nella vita corporativa delle società quotate in cui investono, un’attività che si collega direttamente anche all’applicazione dei criteri ESG. Associazione senza fini di lucro costituita con scrittura privata il 23 gennaio scorso dai due Soci Fondatori e presentata ufficialmente ai giornalisti a Milano presso la sede di Neuberger Berman SpA nel corso di un incontro cui hanno preso parte per Assoprevidenza il Presidente Sergio Corbello con Alessandro Baldi e Ivonne Forno e per il CNDCEC il Segretario Achille Coppola con Simona Bonomelli e Massimo Scotton. Il Centro, che ha sede a Roma in Piazza della Repubblica 59, si rivolge agli azionisti istituzionali aventi finalità previdenziali e assistenziali, mirando a coinvolgere nella propria attività centri studi, organizzazioni e istituti di ricerca, in primo luogo universitari. Conta di raggiungere i propri obiettivi con il supporto professionale degli esponenti di Assoprevidenza e CNDCEC e delle altre realtà che vorranno affiancare i Fondatori nel prosieguo.
La qualifica di Soci Fondatori del Centro, potrà essere attribuita anche ad altre entità che desiderino sostenerlo e profondervi un impegno operativo. “Sarà avviata ogni utile forma di dialogo e collaborazione – ha dichiarato il Presidente di Assoprevidenza Sergio Corbello – con Assogestioni e con l’importante iniziativa di aggregazione che ha visto recentemente protagonista il comparto delle casse professionali di primo pilastro con la nascita di Assodire-Associazione degli Investitori Responsabili”. Il Centro informerà gli investitori previdenziali e assistenziali sui “diritti amministrativi” legati all’investimento azionario e della loro modalità di esercizio; formerà i componenti degli organi di governo e di direzione degli investitori previdenziali e assistenziali sui temi-chiave dell’informativa finanziaria, dell’investimento consapevole, del rischio inerente alle forme di governo societario e alla loro conseguente effettiva applicazione in seno agli emittenti; fornirà agli investitori previdenziali e assistenziali, attraverso la predisposizione di studi e analisi, riepilogati in una serie di indicatori, un supporto per l’esercizio consapevole e informato del diritto di voto; favorirà l’aggregazione sia per l’attività di engagement sia per realizzare il processo di voto per delega; promuoverà l’adozione del voto elettronico in assemblea quale elemento di democrazia economica; svilupperà la rappresentanza diretta attraverso la candidatura di consiglieri indipendenti; curerà la pubblicazione di studi e ricerche sull’azionariato attivo e sullo sviluppo delle attività reali quali attività strategiche delle istituzioni previdenziali e assistenziali. “La diffusione dello strumento del voto elettronico nelle assemblee – ha fatto sapere Massimo Mion, presidente del CNDCEC – diverrà la prima cartina al tornasole dell’effettiva volontà delle società quotate di aprirsi alla reale partecipazione dei soci al governo dell’impresa”. Il Centro promuoverà un Decalogo che consenta all’investitore previdenziale e assistenziale di definire la propria strategia in materia di esercizio dei diritti di voto tenendo conto dei seguenti aspetti fondamentali della gestione della società in cui è azionista: 1) azionariato e rappresentanza (promozione di iniziative volte alla partecipazione delle minoranze; rapporto tra azionariato di investitori istituzionali e di maggioranza); 2) sistemi di governo; 3) esistenza di programmi di board induction, board review e trasparenza dei risultati (azioni correttive incluse); 4) attività di autovalutazione effettuate con il supporto di soggetti professionali e di advisor (dotati di requisiti di autonomia e di indipendenza); 5) composizione di consigli di amministrazione, comitati e alta direzione; 6) applicazione del principio di genere; 7) livello di internazionalizzazione; 8) livello culturale e professionale eterogeneo; 9) funzionamento dei consigli di amministrazione, dei comitati e di altri organi e funzioni; 10) proposte e relazioni dei comitati al consiglio di amministrazione: completezza, presenza nei comitati e loro composizione con soggetti differenti, numero di riunioni dei comitati; 11) remunerazione e incentivazione dei componenti dei consigli di amministrazione e dell’alta direzione; 12) determinazione e trasparenza su incentivi di lungo termine e definizione paymix. (ITALPRESS/WEWELFARE.IT).
Assoprevidenza e Cndcec a tutela diritti azionisti istituzionali
Il welfare ecosostenibile che ripaga
G.D di Bologna è leader nelle macchine per la produzione e confezionamento di sigarette, produzione di filtri, altri prodotti del tabacco e prodotti speciali, con un fatturato di circa 700 milioni di euro, con sede centrale a Bologna e altre 15 filiali e presente in 14 paesi. L’obiettivo di G.D premia il comportamento virtuoso e ecosostenibile esplicitato in un approccio decisamente innovativo al tema della mobilità aziendale e degli spostamenti casa-lavoro. La sperimentazione dell’azienda prevede il lancio nel corso di questi primi mesi del 2020 di un’app per smartphone e tablet grazie alla quale gli oltre 2.600 dipendenti che raggiungono il posto di lavoro a piedi, in bicicletta, a bordo di auto condivisa con altri colleghi (car pooling) oppure grazie a mezzi pubblici (bus, treno) potranno accumulare punti che potranno essere convertiti, ogni 2000, in un bonus di 200 euro.
La piattaforma di welfare aziendale alla quale attingere è quella di Easy Welfare dove è possibile acquistare prodotti previdenziali, sanitari, di fitness ecc. in base agli accordi dell’azienda con la piattaforma. Il premio comprende anche un contributo aziendale per l’acquisto dell’abbonamento annuale ai mezzi pubblici (Tper) che passa, infatti, dal contributo aziendale del 10% del 2019 al 70% per il 2020, che diventa 80% se l’abbonamento viene confermato nel 2021, fino alla totale gratuità.
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Zurich4care, il nuovo business per la mutualità
Zurich Italia lancia Zurich4Care, un modello di business assicurativo basato su un nuovo approccio alla mutualità, per affrontare un problema che riguarda milioni di italiani: la non autosufficienza. Zurich4Care è una piattaforma per l’acquisto di soluzioni assicurative destinata a gruppi di colleghi (appartenenti a grandi aziende con almeno 1.000 dipendenti o associazioni) che, uniti in un “gruppo d’acquisto”, hanno la possibilità di beneficiare di condizioni economiche non ottenibili individualmente. All’interno del gruppo i rischi sono preventivamente selezionati (età, sicurezza sul lavoro, controlli sanitari). Dario Moltrasio, Amministratore Delegato di Zurich Investments Life, ha affermato: “Con Zurich4Care vogliamo avere un ruolo attivo nell’indirizzare il tema della non autosufficienza attraverso una soluzione innovativa e semplice. Vogliamo dare una risposta concreta ad un problema sociale, lo facciamo con un modello assicurativo mai visto sul mercato che fa della condivisione la sua forza”.
La prima soluzione disponibile nella piattaforma Zurich4Care è una copertura LTC (Long Term Care) sottoscrivibile ad un costo irrisorio, 10 euro al mese – il 90% in meno rispetto alle tradizionali LTC individuali – che garantisce una rendita vitalizia mensile di 1000 euro in caso di sopraggiunta non autosufficienza, causata da invecchiamento, infortunio o malattia. Zurich4care non prevede alcuna visita medica preventiva. Nel mese pilota sono già 6.000 gli utenti raggiunti dalla piattaforma e entro fine 2020, Zurich punta a raggiungere 1 milione di persone con la soluzione LTC di Zurich4care. Potenzialmente, in 3 anni, il numero degli individui coperti con un’assicurazione LTC in Italia potrebbe raddoppiare, grazie a questo nuovo modello assicurativo. 4 milioni di persone in Italia oggi sono non autosufficienti a causa di infortuni, malattie e invecchiamento e, si stima, che nel 2030 i soli anziani non autosufficienti saranno più di 5 milioni. A fronte di queste evidenze, il welfare pubblico fatica a rispondere alle crescenti esigenze della popolazione dovute principalmente all’innalzamento dell’età media.
Gli italiani sono preoccupati più dalla non autosufficienza (80%) che dalla morte stessa (54%) ma, nonostante questo, meno del 3% della popolazione ha ad oggi sottoscritto una polizza LTC, che garantisce una rendita mensile alla perdita dell’autosufficienza. Le ragioni di questa tendenza alla sottoassicurazione dipendono principalmente dal costo delle tradizionali soluzioni assicurative oggi sul mercato. Da uno studio Zurich emerge che il 53,4% della popolazione decide di non sottoscrivere polizze LTC poiché le considera troppo care. Al di là della copertura assicurativa, il costo della non autosufficienza è molto elevato, lo Stato non riesce a farsene carico, e, nella quasi totalità dei casi, grava sul bilancio familiare per un importo che varia da 1.500 euro (badante) a 4.000 euro (struttura) al mese. Zurich4Care riduce i costi sociali della non autosufficienza consentendo a chiunque di pensare con serenità al futuro, proprio e dei familiari, sfruttando i vantaggi della condivisione e l’affidabilità di Zurich.
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Buoni pasto, Anseb “Nelle gare Consip meno peso agli sconti”
ANSEB, Associazione Nazionale Società Emettitrici Buoni Pasto, dichiara soddisfazione per la recente nota diramata da CONSIP in cui viene dichiarato l’avvio della ricognizione sul meccanismo di funzionamento dei buoni pasto. ANSEB, a seguito della nota, ribadisce tuttavia l’esigenza che nel confronto siano coinvolti al tavolo tutti gli attori del sistema: emettitori, esercenti e lavoratori. Allo stato attuale, ANSEB ricorda che CONSIP, da parte sua, potrebbe da subito indire gare che limitano la scontistica, come già fanno molte amministrazioni pubbliche che indicono autonomamente le gare per il servizio sostitutivo di mensa. Sempre al fine di tutelare tutti gli attori del sistema, ANSEB, da quando è stato riformato il Codice dei contratti pubblici propone alcuni emendamenti all’articolo 144 utili a: verificare la solidità degli emettitori, a garanzia del committente pubblico e, soprattutto, degli esercenti convenzionati; incrementare la trasparenza del mercato, vietando la duplicazione dei soggetti: l’azienda assegnataria dell’incarico deve essere la stessa che rimborsa la filiera una volta che i dipendenti pubblici hanno utilizzato i buoni pasto; istituire una commissione nazionale partecipata da tutti i portatori di interesse in grado di monitorare l’andamento del mercato e intervenire tempestivamente sulle anomalie che si registrassero nella esecuzione delle gare pubbliche.
La posizione di ANSEB, esplicitata anche in dettagliate ipotesi di modifiche normative, è stata ribadita in molteplici occasioni, non ultime gli Stati Generali del Buono Pasto (2018), la Consultazione pubblica sul Codice dei Contratti Pubblici indetta dal Ministero dei Trasporti (2018), l’audizione in Commissione Lavori Pubblici del Senato a marzo 2019, il confronto parlamentare sul cosiddetto decreto concretezza (2019) e anche nella lettera inviata a CONSIP il 3 aprile 2018 in reazione alla indizione di Gara 8, dove, tra le altre notazioni, si segnalava proprio il meccanismo dell’offerta economicamente più vantaggiosa come elemento negativo per il mercato.
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Assodire, l’unione delle casse a difesa degli investitori
Cassa Forense, Enpam e Inarcassa sono i tre soci fondatori di ASSODIRE, Associazione degli investitori responsabili, costituita a Roma nei giorni scorsi a difesa degli interessi dei professionisti e a sostegno dell’economia e del mercato finanziario.
Con ASSODIRE i tre soci fondatori intendono, in particolare, conseguire una partecipazione attiva, mediante l’esercizio dei diritti di voto e di monitoraggio sui temi gestionali che, di volta in volta, saranno rilevanti per il contesto di riferimento dell’Associazione. Si prefiggono inoltre di sviluppare la consapevolezza del mercato, dei regolatori e delle altre funzioni istituzionali e non, riguardo al ruolo che gli investitori di matrice previdenziale hanno esercitato e possono esercitare a supporto e sviluppo del Paese.
L’Associazione dunque promuoverà studi e ricerche sui temi di interesse generale degli associati nella loro qualità di investitori responsabili, azioni di comunicazione verso gli stakeholder degli obiettivi qualitativi che la stessa persegue nello sviluppo della governance societaria, nel rispetto delle buone pratiche di gestione, delle politiche di remunerazione, di rispetto dell’ambiente e delle diversità di genere. Produrrà la definizione di policy di riferimento per gli associati e di best practice, al fine di emanare giudizi in ordine al grado di allineamento alle policy; proposte nella presentazione e tutela dei diritti di voto delle minoranze; definizione di policy per gli amministratori indipendenti, ma espressione delle minoranze rappresentate; la promozione della partecipazione informata alla vita delle società nelle quali è investito il patrimonio degli associati a prescindere dalle rituali scadenze assembleari. L’Associazione, volontaria e senza scopo di lucro, è aperta alla partecipazione futura delle altre Casse, società o enti che perseguano, sotto qualsiasi forma, interessi primari di previdenza ed assistenza dei propri iscritti.
“Abbiamo deciso, con Assodire, – ha dichiarato il presidente di Inarcassa Giuseppe Santoro – di far valere una popolazione di 800.000 professionisti e un patrimonio che, per le tre Casse insieme, misura circa 50 miliardi di euro, a difesa del diritto di voto nella partecipazione delle attività quotate nel nostro Paese. È un investimento responsabile, è la difesa di un percorso virtuoso che riteniamo sempre più condivisibile”.
“Assodire è un’associazione aperta alle altre Casse previdenziali e a tutti gli operatori – dichiara il Presidente di Enpam, Alberto Oliveti – in un settore che vuole rappresentare i legittimi interessi dei propri iscritti nel mondo delle grandi società italiane, potendo portare avanti quelli che sono i nostri vessilli: l’importanza della tutela del futuro, dello sviluppo del lavoro, della copertura sociale. Perché – continuo a ribadire – non vi può essere innovazione, sviluppo e crescita se non vi è anche contemporaneamente un progresso in termini di coesione e condivisione sociale”.
“Insieme ad Enpam e Inarcassa, – conclude il Presidente di Cassa Forense, Nunzio Luciano – tuteleremo gli interessi previdenziali dei nostri iscritti e faremo valere quelli che sono i nostri diritti. Indirizzeremo queste grandi società e le controlleremo nelle politiche di ESG e, insieme, anche questa volta, saremo protagonisti del sistema paese”.
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Itinerari previdenziali, una pensione e mezza per ogni pensionato
Le singole prestazioni sotto i mille euro sono circa 14,9 milioni, pari al 65,4% delle prestazioni in pagamento, ma i pensionati che le ricevono sono circa 6,4 milioni ossia il 40% del totale, peraltro in tutto o in parte assistiti dalla fiscalità: fondamentale nell’analisi delle distribuzioni per classi di reddito far riferimento ai pensionati, che spesso percepiscono più prestazioni (previdenziali e assistenziali). Relativamente alle pensioni previdenziali IVS, il gap pensionistico tra uomini e donne è di 7.757 euro annui; considerando anche prestazioni assistenziali e indennitarie il gap si riduce a 5.976 euro annui: fondamentale quindi migliorare la condizione lavorativa femminile per superare il gap previdenziale tra i generi. Sono alcune delle evidenze emerse dall’ultimo Rapporto sulle pensioni curato da Itinerari Previdenziali. Evidenze che sfatano alcuni luoghi comuni sul tema.
Oltre la metà delle pensioni è di importo inferiore a 1.000 euro al mese e le donne ricevono, in media, assegni di gran lunga più bassi rispetto a quelli degli uomini: sono questi due dei principali luoghi comuni in materia di pensioni. I dati raccolti dal Casellario Centrale dei pensionati INPS ed elaborati dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali nel Settimo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano dimostrano come, in realtà, queste convinzioni diffuse siano falsi miti da sfatare, in quanto scorrette sia dal punto di vista sostanziale dell’analisi sia sotto il profilo della comunicazione, in particolare nei confronti delle giovani generazioni.
Nel 2018 su un totale di 22.785.711 prestazioni erogate, quelle di importo fino a una volta il minimo (507,42 euro mensili) sono poco meno di 7,9 milioni, ma i pensionati che poi ricevono effettivamente un reddito pensionistico fino a una volta il minimo sono circa 2,3 milioni su 16 milioni di pensionati totali. Anche alla successiva classe di importo (da 507,43 euro a 1.014,84 euro lordi mensili) appartengono circa 6,99 milioni di prestazioni, ma ne beneficiano solo 4,15 milioni di pensionati. Il fenomeno dipende dal fatto che un soggetto può essere beneficiario di più prestazioni (ad esempio, una pensione di importo medio-alto e uno o più trattamenti più bassi come un’indennità di accompagnamento o una pensione di reversibilità) che si cumulano tra loro, facendo sì che il pensionato si collochi in una classe di reddito più elevata rispetto a quella più bassa in cui si erano posizionate le singole prestazioni o pensioni.
Dal rapporto tra numero di prestazioni su pensionati emerge infatti che, in media, ogni pensionato percepisce 1,424 pensioni, quasi una pensione e mezza per ciascun pensionato. Nel dettaglio, nel 2018 il 67,2% dei pensionati percepisce 1 prestazione, il 24,8% dei pensionati percepisce 2 prestazioni, il 6,7% 3 prestazioni e l’1,3% 4 o più prestazioni.«È certamente vero che le singole prestazioni sotto i mille euro sono circa 14,9 milioni, pari al 65,4% delle pensioni in pagamento, ma i pensionati che le ricevono – spiega il Professor Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali – sono circa 6,4 milioni, ovvero il 40,8% del totale pensionati, peraltro quasi tutti con pensioni in tutto o in parte assistenziali, ossia senza contribuzione o integrate al minimo. Si tratta quindi di soggetti che nella loro vita attiva hanno versato pochi o zero contributi (e parallelamente poche o nessuna imposta) e che sono a carico della collettività». Sostenere che oltre la metà delle pensioni è inferiore a 1.000 euro al mese non è dunque corretto né dal punto di vista tecnico né sotto il profilo comunicativo.
«Dal punto di vista sostanziale, come abbiamo visto, quando si analizzano le distribuzioni per classi di reddito – precisa Brambilla – si dovrebbe far riferimento ai pensionati, cioè ai soggetti fisici che percepiscono una o più prestazioni, e non alle singole pensioni. Se si calcola l’importo medio della pensione sul numero totale delle prestazioni, si ottengono 12.874 euro annui lordi (990 euro lordi al mese in 13 mensilità), ma facendo riferimento al totale dei pensionati, il reddito pensionistico medio pro-capite risulta pari a 18.328 euro annui lordi (15.109 euro annui netti), quindi 1.409 euro lordi mensili (1.162 euro mensili netti). Eppure, il dato più diffuso è proprio il primo, che divide impropriamente il monte pensioni (293,334 miliardi di euro) per il numero delle prestazioni, e non per il numero dei pensionati».
Come evidenziato dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, inoltre, nel calcolo degli importi medi dei singoli trattamenti pensionistici, bisognerebbe procedere per tipologia e analizzare separatamente le medie delle prestazioni assistenziali, delle rendite indennitarie, delle prestazioni dirette e di quelle ai superstiti, per evitare di mischiare prestazioni di natura non omogenea. «Nel calcolo delle medie occorrerebbe eliminare dal computo le prestazioni assistenziali in quanto parzialmente o totalmente a carico della fiscalità generale, come ad esempio pensioni o assegni sociali, pensioni integrate al trattamento minimo, ex milione al mese, invalidità civili, assegni di accompagnamento o le rendite indennitarie Inail. O, ancora, appare poco ragionevole calcolare l’importo medio tra pensioni dirette e pensioni ai superstiti quando queste ultime nel Casellario INPS sono frazionate nelle aliquote di reversibilità spettanti a ciascun contitolare, che variano tra il 20% (aliquota del figlio contitolare) e il 30-60% (aliquote del coniuge che variano a seconda del reddito) dell’importo della pensione diretta», commenta Brambilla nel sottolineare le ragioni per cui sarebbe più corretto analizzare questi dati separatamente.Provando a escludere le prime due classi di reddito pensionistico (fino a due volte il minimo, 1.014,84 euro mensili lordi), che sono principalmente assistenziali per un totale di 6,4 milioni di pensionati, il reddito previdenziale medio (supportato da contributi) dei restanti 9,6 pensionati ammonterebbe a 25.590,43 euro annui lordi (contro gli ufficiali 18.329 euro lordi) pari a circa 20.373 euro annui netti. «È sempre vero che, come abbiamo visto, il 40% dei pensionati ha redditi pensionistici inferiori a 1.014,84 euro lordi al mese, ma non sono strettamente pensioni, quanto piuttosto prevalentemente prestazioni assistenziali», precisa Brambilla.
Inoltre, come rilevato nel Rapporto, in questa riclassificazione del reddito pensionistico medio occorrerebbe poi tener conto dell’età anagrafica del beneficiario, così da escludere circa 643mila pensionati con meno di 39 anni (orfani minori, invalidi o superstiti), che percepiscono oltre 968mila trattamenti, in media 1,5 trattamenti pro-capite.
Passando all’altro luogo comune, ovvero il cosiddetto “gender gap pensionistico”, il Settimo Rapporto evidenzia che nel 2018 le donne rappresentano il 52,2% dei pensionati, ma percepiscono il 44,1% dell’importo lordo complessivamente pagato per le pensioni (129.364 milioni di euro pagati alle donne contro i 163.980 milioni di euro corrisposti agli uomini). Sul totale delle prestazioni erogate, il reddito pensionistico annuo delle donne è pari a 11.550 euro mentre quello degli uomini arriva a 19.307 euro.
Il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali invita tuttavia anche a valutare le motivazioni alla base di questo divario: innanzitutto, le donne registrano un maggior numero di pensioni pro-capite, in media 1,51 prestazioni a testa, a fronte dell’1,33 degli uomini. Le donne rappresentano infatti il 58,6% dei titolari di 2 pensioni, il 68,9% dei titolari di 3 pensioni e il 71,7% dei percettori di 4 e più trattamenti; inoltre, prevalgono tra i percettori di pensioni ai superstiti (86,5% del totale) e nelle prestazioni prodotte da “contribuzione volontaria”, che normalmente sono di modesto importo a causa di livelli contributivi molto bassi. Per tutti questi motivi, la maggior parte delle pensionate beneficia dell’importo aggiuntivo, delle maggiorazioni sociali e della quattordicesima mensilità.
Inoltre, occorre considerare che le pensioni di reversibilità (superstiti) dei pensionati di vecchiaia dei lavoratori autonomi o dipendenti con prestazioni integrate al minimo andranno a percepire al massimo il 60% della pensione diretta e quindi prestazioni molto basse.
«Affermare dunque, in modo non analitico ma con elementare operazione di divisione, che le donne ricevono una prestazione di gran lunga minore rispetto agli uomini è sì corretto dal punto di vista formale ma non da quello sostanziale. Va inoltre considerato – sottolinea il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali – che questa situazione riflette l’andamento del mercato del lavoro italiano; infatti, nel nostro Paese sia i tassi di occupazione femminile (49,5% contro il 67,6% degli uomini nel 2018) – soprattutto al Sud (32,8% contro 56,4%) – sia i livelli di carriera, i livelli retributivi a parità di mansioni e le carriere più discontinue hanno visto e continuano a vedere purtroppo le donne sfavorite». Se si guardano i redditi pensionistici complessivi delle donne e degli uomini, comprensivi delle prestazioni assistenziali, di invalidità e di quelle ai superstiti, le donne recuperano il gap previdenziale che si riduce a 5.976 euro annui. Occorre quindi migliorare oggi la condizione lavorativa femminile, anche tramite servizi all’infanzia che riducano la discontinuità del lavoro, per superare in futuro questo gap previdenziale tra i generi.
«L’errore più grave – conclude il Professore – riguarda la comunicazione di questi dati scorretti, che scatena una serie di reazioni negative dal punto di vista sia della disuguaglianza percepita tra i tanti pensionati che ricevono un assegno basso e i pochi che stanno bene, sia del senso di sfiducia che genera nei giovani, i quali potrebbero lecitamente chiedersi con quale scopo versare i contributi se poi le prestazioni che riceveranno saranno così basse».
(ITALPRESS/WEWELFARE.IT).
È l’assistenza la vera emergenza del Welfare
Benché in leggera crescita, la spesa pensionistica è sotto controllo: nel 2018, ha raggiunto i 225,593 miliardi (contro i 220,843 del 2017); sempre più insostenibile appare invece il costo delle attività assistenziali a carico della fiscalità generale: 105,666 miliardi di euro nel 2018, con un tasso di crescita annuo dal 2008 pari al 4,3%. È uno dei dati emersi oggi alla presentazione alla Camera dei Deputati del Settimo Rapporto sul Bilancio Previdenziale italiano, a cura del Centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali. Per finanziare il generoso sistema di welfare italiano, sono occorsi 462,114 miliardi, vale a dire tutti i contributi sociali e di scopo (quando previsti), tutta l’IRPEF, tutta l’IRES, tutta l’IRAP e quasi tutta l’ISOS: sempre più residue dunque le risorse da destinare a crescita e sviluppo del Paese. Un accorto monitoraggio della spesa assistenziale, anche attraverso l’istituzione di un casellario centrale, e il contrasto dell’evasione fiscale e contributiva le questioni più urgenti ai fini della sostenibilità del sistema.
Continua ad aumentare il numero degli occupati (23.215.000 a fine 2018), mentre decresce rispetto al 2017 quello dei pensionati (16.004.503, il più basso degli ultimi 22 anni): il rapporto attivi/pensionati si assesta dunque per il 2018 a quota 1,4505, anche in questo caso miglior risultato degli ultimi 22 anni e soprattutto valore molto prossimo a quell’1,5 che potrebbe garantire la sostenibilità di medio e lungo periodo del sistema. Il tutto mentre l’andamento della spesa per prestazioni di natura previdenziale si conferma tutto sommato sotto controllo: nel 2018, ha raggiunto i 225,593 miliardi (contro i 220,843 del 2017); l’incidenza sul PIL è pari al 12,86% (l’11,72% al netto dell’assistenza), mentre l’aumento medio annuo dal 2010 risulta inferiore all’1,3%, dunque sostanzialmente in linea con il tasso di inflazione. Se la spesa pensionistica non preoccupa, è ancora una volta la spesa per assistenza a confermarsi il vero punto debole del sistema di protezione sociale italiano. Nel 2018, l’insieme delle sole prestazioni assistenziali (prestazioni per invalidi civili, indennità di accompagnamento, pensioni e assegni sociali e pensioni di guerra) totalmente a carico della fiscalità generale ha riguardato 4.121.039 soggetti, 38.163 in più rispetto allo scorso anno, per un costo complessivo di 22,350 miliardi, importo in costante aumento nel corso degli ultimi 8 anni.
E benché le altre prestazioni assistenziali (integrazioni al minimo, maggiorazioni sociali e importo aggiuntivo) si riducano, con la sola eccezione della quattordicesima mensilità, i beneficiari di prestazioni totalmente o parzialmente assistite sono 7.889.693, vale a dire il 49,3% dei pensionati totali. «Fa oggettivamente riflettere che un Paese appartenente al G7 come l’Italia abbia quasi il 50% di pensionati totalmente o parzialmente assistiti (soggetti che in 66 anni di vita non sono riusciti a versare neppure 15/17 anni di contributi regolari) – ha commentato Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali – perché questa situazione non sembra corrispondere alle effettive condizioni economiche italiane, tanto più che, a differenza delle pensioni finanziate da imposte e contributi, queste prestazioni gravano per 33,4 miliardi sulla fiscalità generale e non sono neppure soggette a imposizione fiscale. Il nocciolo del problema è che mentre le prestazioni previdenziali sono state ridotte a mezzo di stringenti riforme che hanno comunque colto l’obiettivo di stabilizzare la spesa, quelle assistenziali continuano ad aumentare sia per le continue “promesse” politiche sia per l’inefficienza della macchina organizzativa, priva di un’anagrafe centralizzata e di un adeguato sistema di controlli».
Il “peso” del welfare nel bilancio statale – Sono tre in particolare i rapporti che danno l’idea dell’incidenza del welfare sulla vita economica del Paese: quello sul PIL, che supera il 26%; quello sul totale delle entrate contributive e fiscali, arrivato al 56,62%; e quello sulla spesa totale, che si attesta al 54,14%: in buona sostanza, al welfare è destinato un quarto di quanto si produce o più della metà sia di quanto si incassa sia di quanto si spende in totale. Dati che, secondo Alberto Brambilla, vale la pena rimarcare per almeno due ordini di ragioni: «Innanzitutto perché, trascinata soprattutto dalla spesa per assistenza, la spesa sociale continua a crescere a un ritmo che tuttavia sarà difficilmente sostenibile negli anni a venire. E, in secondo luogo, perché si tratta comunque di un valore che ci consente di sfatare uno dei tanti luoghi comuni sull’Italia, quello secondo cui il nostro Paese spederebbe poco per il welfare».
Nel dettaglio, secondo le rilevazioni del Settimo Rapporto a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, il costo delle attività assistenziali a carico della fiscalità generale è ammontato nel 2018 a 105,666 miliardi di euro: nel 2008 i trasferimenti a carico della fiscalità erano 73 miliardi, il che significa che nell’ultimo decennio di rilevazione il tasso di crescita annuo è stato del 4,3%, molto al di sopra del PIL, dell’inflazione e soprattutto di ben 3 volte superiore all’incremento della spesa per pensioni. Una spesa che vale il 67,96% del costo delle pensioni al netto dell’IRPEF e che incide sul PIL per il 4,56%. «Già nei Rapporti precedenti abbiamo più volte sottolineato – ricorda Brambilla – come dalla riclassificazione della spesa sociale emerga che l’incidenza della spesa pensionistica IVS sul PIL sia assolutamente in linea con quella europea. Ed è così anche per il 2018, essendo pari, al netto della quota assistenziale, all’11,72%. Considerando anche la parte assistenziale l’incidenza aumenta al 12,86% senza la GIAS e al 14,9%, GIAS inclusa. Ora, vien da sé che la corretta determinazione e comunicazione di questi dati è fondamentale per evitare che eventuali sovrastime convincano l’Unione Europea e le agenzie di rating a pretendere tagli e riforme del sistema pensionistico, quando il problema – tutto italiano – è l’esplosione di forme assistenziali messe sotto il capitolo pensioni».
Altro punto critico da rimarcare è poi quello del finanziamento di questo sistema di welfare, tanto generoso quanto vulnerabile: per la spesa per previdenza, sanità e assistenza nel 2018 sono stati necessari 462,114 miliardi, vale a dire che si è dovuto attingere a tutti i contributi sociali e di scopo quando previsti, a tutta l’IRPEF (finanziata peraltro in parte dagli stessi pensionati), tutta l’IRES, tutta l’IRAP e quasi tutta l’ISOS. «Quindi, per finanziare il resto della spesa pubblica (istruzione, giustizia, infrastrutture, etc), non rimangono che le residue imposte indirette, le altre entrate e soprattutto non resta che fare nuovo “debito”», chiosa il Prof. Brambilla. Prospettive di breve e medio-lungo periodo – Pur ribadendo quindi la necessità di una separazione tra previdenza e assistenza e rivelando proprio in quest’ultima le maggiori criticità, lo stesso Rapporto nel delineare le prospettive future del sistema previdenziale rileva qualche possibile ombra, dovuta in particolar modo alle modifiche introdotte dal decreto legge 4/2019 (tra cui anche il pensionamento anticipato con Quota 100).
«Malgrado un incremento del tasso di occupazione complessivo, sicuramente Quota 100 porterà a un incremento delle pensioni in pagamento e quindi all’interruzione di un trend di miglioramento del rapporto attivi/pensionati che durava orma da diversi anni. Se, come auspicabile – ha aggiunto Brambilla – non ci saranno però altre agevolazioni o forme di anticipo – la riduzione delle pensioni dovrebbe proseguire anche nel prossimo decennio, grazie ai due stabilizzatori automatici della spesa (adeguamento alla speranza di vita dell’età pensionabile e dei coefficienti di trasformazione) e alla progressiva cancellazione delle prestazioni di lungo corso che, con decorrenza superiore ai 38 anni, erano addirittura 653mila al 31 dicembre 2018». Secondo il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali questo tuttavia non significa che non sia ancora necessario mettere mano al sistema il quale, anzi, avrebbe bisogno di una revisione strutturale e più coraggiosa, dopo anni di salvaguardie e provvedimenti a tempo che hanno tutelato ora questa ora quella categoria di lavoratori, senza garantire stabilità ed equità. Muovendo dunque dal presupposto che Quota 100 è stata una risposta incompleta e costosa a un problema reale, il Prof. Brambilla individua dunque 3 principali criticità sulle quali intervenire con altrettanti strumenti di semplificazione del sistema: 1. la totale equiparazione delle regole e delle tutele (integrazione al minimo) per i giovani contributivi che hanno iniziato a lavorare dall’1/1/1996 e l’istituzione di un “fondo pensione” per i contributivi, alimentato da subito con 500 milioni l’anno proprio per finanziare le tutele che oggi i cosiddetti contributivi puri non hanno a disposizione, a partire dal 2036; 2. il blocco dell’adeguamento alla speranza di vita del requisito di anzianità contributiva richiesto per la pensione anticipata, con ulteriori sconti per precoci e lavoratrici madri; 3. l’utilizzo dei fondi esubero per lavoratori con problemi e la reintroduzione delle forme di flessibilità già previste dalla riforma Dini/Treu, consentendo quindi il pensionamento con 64 anni di età e 37/38 di contributi. «Un buon compromesso – secondo Brambilla – tra l’esigenza di flessibilizzare il nostro sistema pensionistico e di garantirne al contempo la sostenibilità di lungo termine».
(ITALPRESS/NUOVA ENERGIA)
Spazio Aperto Servizi “Ci vuole il Welfare Manager”
In attesa della 5a edizione del Welfare Index PMI 2020, abbiamo incontrato alcune delle realtà che si sono contraddistinte come Welfare Champion nell’edizione 2019. Intervista a Fabiana Amelini Responsabile Comunicazione, Fundraising e Rapporti Istituzionali per Spazio Aperto Servizi, impresa sociale nata a Milano nel 1993, con l’obiettivo di prendersi cura delle persone che vivono in situazioni di fragilità.
La vostra realtà imprenditoriale in che modo investe sui propri dipendenti (benefit, assistenza, smartworking)?
I lavoratori impiegati in Spazio Aperto Servizi risultano complessivamente 678 e il nostro valore della produzione nel 2018 è stato pari a € 17.001.306. Per Spazio Aperto Servizi, il tema del benessere dei lavoratori e delle lavoratrici è di cruciale importanza, e strettamente connesso ai bisogni di conciliazione vita-lavoro, di pari opportunità e ai bisogni socio sanitari del lavoratore e del suo nucleo familiare. Spazio Aperto Servizi sviluppa la propria policy nella valorizzazione di molteplici leve strategiche organizzative, culturali, finanziarie e dei servizi. Leve che si esplicano in accordi, convenzioni, collaborazioni, servizi, attività, opportunità e sperimentazioni quotidiane. Le aree su cui la cooperativa ha sperimentato, sviluppato, e/o implementato la sua progettazione e azioni di welfare sono: 1. Previdenza integrativa; 2. Servizi di assistenza Conciliazione vita e lavoro; 3. Sostegno ai genitori; 4. Formazione per i dipendenti; 5. Cultura e tempo libero; 6. Sicurezza e prevenzione degli incidenti; 7. Sanità integrativa; 8. Polizze assicurative; 9. Sostegno economico ai dipendenti; 10. Sostegno ai soggetti deboli e integrazione sociale; 11. Welfare allargato alla comunità.
Quanto ha inciso per voi il riconoscimento da parte del Welfare Index PMI e quanto è importante per la vostra reputazione aziendale?
Il Welfare Index PMI ha certamente contribuito a migliorare la nostra reputazione sia nell’ambito del Terzo Settore, sia con partner aziendali con cui ci confrontiamo attivamente. È un riconoscimento, infatti, che ci ha aiutato a posizionarci non soltanto come organizzazione attenta al benessere dei propri lavoratori, ma anche come soggetto promotore e fornitore di servizi di welfare per aziende. Ultimamente si parla molto di community relation, ovvero l’interesse verso l’ambiente di riferimento nel quale lavora l’individuo e il tessuto relazionale da potervi costruire al suo interno.
Attraverso quali strumenti ascoltate le comunità (dipendenti, realtà associative, enti) che vi gravita attorno?
Crediamo fortemente nella necessità di conoscere l’ambiente di riferimento per costruire al meglio le azioni di welfare. Le nostre iniziative di welfare si muovono infatti su un doppio livello: guardano da un lato al benessere diretto del lavoratore, dall’altro ai contesti in cui è inserito e dove operiamo quotidianamente. Servizi di prossimità, laboratori sociali, attività di coesione e rigenerazione urbana diventano per noi osservatori privilegiati e dunque strumenti per intercettare bisogni esistenti ed emergenti, con l’obiettivo di trovare risposte personalizzate a beneficio non solo dei singoli cittadini ma dell’intera comunità. Lavoriamo in rete con le diverse parti istituzionali, sociali, sanitarie, economiche, soggetti privati, organizzazioni del mercato for profit e del terzo settore, partecipando a tavoli informali e tecnici, commissioni, gruppi di lavoro, incontri con la cittadinanza.
Per i vostri piani di welfare, vi appoggiate a un provider e/o a realtà associative di categoria? In base a quali fattori li scegliete?
Dopo un lungo percorso di formazione, anche nell’ambito del nostro Consorzio di appartenenza ci siamo strutturati internamente. Spazio Aperto Servizi nell’attribuire importanza strategica al welfare aziendale e con l’obiettivo di generare benessere per i propri lavoratori e le comunità, ha introdotto – nella gestione delle Risorse Umane – la funzione aziendale del Welfare Manager.
Welfare aziendale e territorio: il terzo Settore può diventare un competitor nella fornitura di piani e servizi di welfare aziendale?
Il Terzo Settore, per sua natura e per il ruolo che svolge, può sicuramente giocare un ruolo fondamentale nel panorama del welfare, non tanto come “competitor” ma come soggetto capace di completare l’offerta. Il Terzo Settore può, infatti, intercettare in maniera ancor più efficace ed efficiente i bisogni delle persone, elaborando risposte “cucite” su misura. È il senso stesso del nostro impegno quotidiano su tutti i territori in cui operiamo.
(ITALPRESS/WEWELFARE.IT).









