Home ITALPRESS con il SUD: Fare impresa sociale nel Mezzogiorno

Agricola Mpidusa, orti sostenibili per il rilancio dell’isola

0

La cooperativa di comunità Agricola Mpidusa è nata a Lampedusa nell’ambito del progetto Lampedusa Eco Farm. E’ un veicolo di inserimento socio-lavorativo di giovani anche con disabilità e al tempo stesso un innovativo modo di affrontare partendo dal denominatore comune della terra la complessità dell’isola – che è fortemente esposta agli effetti del cambiamento climatico ma soprattutto crocevia di migrazioni e culture e di questioni sociali ed ecologiche. A parlarne è Daniele Caucci, coordinatore dei progetti dell’associazione Terra!

Come nasce il progetto?

“L’idea di avviare una cooperativa agricola sociale di comunità a Lampedusa ci è venuta dopo aver condotto per cinque anni un progetto di orti comunitari a Lampedusa. Abbiamo così pensato di espanderla e rafforzare la componente agricola ed ecologica. Lampedusa è infatti un’isola dove coltivare è sempre stata un’impresa per via dei suoli in desertificazione e del forte vento. Ad oggi non c’è quasi nessuno che lavora la terra e la grande maggioranza del cibo viene importato con le navi. Agricola Mpidusa nasce proprio per dimostrare che si può fare qualcosa di diverso, che anche in tempi di crisi climatica l’agricoltura ecologica può fiorire in zone di frontiera, dare lavoro e prospettive alle comunità locali. A questa idea hanno creduto i numerosi partner del progetto e i soci della neonata cooperativa, tra cui la famiglia di uno degli ultimi agricoltori lampedusani che ha messo a disposizione le sue terre. Con il sostegno della Fondazione con il Sud e di Open Society Foundations, abbiamo potuto cominciare le attività”.

Siete una cooperativa giovane, nata ufficialmente il 9 marzo, ma prima di quella data avevate già un passato…

“Lo scorso marzo abbiamo brindato – con le dovute distanze – alla questa nuova avventura, che rappresenta una evoluzione del progetto di orti comunitari “P’Orto di Lampedusa”, avviato nel 2015. Per cinque anni abbiamo curato un lembo di terra nel centro abitato dell’isola, che avevamo chiesto al Comune e dalla Soprintendenza per riqualificare un’area degradata. Là dove si accumulavano erbacce e spazzatura abbiamo creato un giardino con erbe aromatiche, un semenzaio, particelle coltivate dai cittadini e aree dedicate ai più piccoli. La conquista più grande è stata l’aver coinvolto gli utenti del Centro diurno dell’isola, un gruppo di persone con disabilità psico-intellettive che grazie a P’Orto di Lampedusa hanno trovato un luogo di aggregazione aperto e a contatto con la comunità, uscendo da una condizione di emarginazione. L’esperienza degli orti ci ha inoltre messi in contatto con gli ultimi agricoltori di Lampedusa e Linosa, dai quali abbiamo ricevuto in dono sementi antiche e rare. Tenerle in vita è ormai una missione, insieme allo sforzo per riportare l’agricoltura su una terra da cui stava sparendo. Tutto questo ci ha spinti a realizzare Agricola Mpidusa, un progetto di rilancio dell’agricoltura locale, di lotta al cambiamento climatico attraverso l’agroecologia, d’inclusione di persone con fragilità e coinvolgimento della comunità intorno alle sue tradizioni agricole e alimentari”.

Cosa avete messo in campo ora?

“Semine e trapianti sono stati fatti a novembre per la prima volta. Abbiamo infatti dovuto prima preparare i terreni ad ospitare l’attività agricola. Per lunghe settimane abbiamo tagliato sterpi, tolto pietre, ristrutturato il pozzo e installato il sistema di irrigazione. Useremo un impianto ad “ala gocciolante”, ideato per consumare poca acqua e raggiungere in maniera capillare tutte le piante sul terreno. In zone semi-desertiche come Lampedusa, è fondamentale utilizzare tecniche ecologiche per ottimizzare le risorse e ridurre gli sprechi. A seguito di queste lavorazioni strutturali, abbiamo messo a dimora i primi prodotti. Presto arriveranno le insalate e gli ortaggi invernali: cavoli, broccoli, cavolfiori, verze, cipolle e barbabietole, oltre alle verdure a foglia verde come bieta e cicoria. Seguiremo il ritmo della natura, mettendo a dimora volta per volta i prodotti di stagione, stando attenti a fare poche lavorazioni sul suolo e molte rotazioni, in modo da arricchirlo di sostanza organica. La terra di Lampedusa è infatti interessata dalla desertificazione: una agricoltura ecologica può però fermare questo trend e riportare vita nei suoli”.

Avete il proposito di coltivare altri prodotti?

“Coltiviamo ortaggi e verdure di stagione. Oltre a tutte quelle invernali che abbiamo elencato, nelle altre stagioni troveremo insalate, pomodori, melanzane, peperoni, erbe aromatiche… ma la cosa più importante sarà il rilancio della produzione di varietà locali quasi estinte come il cappero, la lenticchia e la fava nera”.

Avete incontrato difficoltà lungo il vostro percorso?

“Con una battuta, potremmo dire che abbiamo sempre difficoltà. Lampedusa è distante dalla terraferma e dalla Sicilia e l’agricoltura è stata quasi abbandonata in favore del turismo e della pesca. Questo significa che non ci sono attrezzi agricoli da acquistare o chiedere in prestito sul territorio, ma bisogna ordinare tutto da fuori con tempi di attesa piuttosto lunghi, che con la pandemia si sono anche dilatati. C’è poi la difficoltà di trovare fertilizzante naturale come il letame, perché l’isola non è abitata da animali domestici. Sarà importante, per il futuro, progettare una compostiera di comunità, che raccolga scarti alimentari e altri residui vegetali per dar vita a un compost ricco di sostanza organica da spargere poi sui terreni. Anche il clima è un ostacolo all’agricoltura: Lampedusa è un’isola battuta dal vento e soffre, come tutta l’area mediterranea, di un aumento delle temperature medie. Siamo nel cuore di quello che gli scienziati chiamano un “hot spot climatico”, dove gli effetti del riscaldamento globale sono più evidenti. Anche per questo abbiamo voluto accettare la sfida di rilanciare la produzione del cibo sul territorio”.

La pandemia ha creato problemi?

“Questo 2020 è stato un anno difficile da tutti i punti di vista. Cominciare un’attività agricola è già di per sé una piccola impresa: farlo in piena pandemia ha rappresentato una sfida doppiamente impegnativa. Ritardi nelle forniture, difficoltà di movimento, preoccupazioni personali e ansia sociale sono i principali ostacoli che ci siamo trovati di fronte. Qualche settimana fa è arrivata perfino la grandine a distruggere una parte dei raccolti. Quasi nessuno si ricordava l’ultima grandinata a Lampedusa: abbiamo assistito ad un evento eccezionale di cui, probabilmente, possiamo incolpare il cambiamento climatico. Noi, come tanti altri agricoltori in tutto il mondo, facciamo parte del settore più esposto a questo aumento di frequenza e intensità degli eventi estremi: con questo progetto vogliamo dimostrare che l’agricoltura, invece di contribuire alle emissioni, può essere parte della soluzione”.

(ITALPRESS).

Servizi welfare territoriali, imprese sociali al Sud

ROMA (ITALPRESS) – L’infrastrutturazione sociale passa anche attraverso i servizi di welfare territoriali, quei servizi sociali e socio-sanitari così necessari specie al Sud: assistenza a persone in situazione emergenziale, con problemi di salute o di fragilità. E’ questo uno dei motivi per cui sono nate, sostenute anche dalla Fondazione con il Sud, molte imprese sociali che si occupano di tali problematiche. Stiamo parlando di realtà che legano in maniera quasi inscindibile il pubblico e il privato e che possono essere risolutive per gli utenti e fonte di lavoro per tanti operatori specializzati.
Ma talvolta (spesso) non tutto va per il verso giusto, ci sono disparità tra nord e Sud e tante imprese sociali nate con le migliori prospettive si trovano in oggettive difficoltà, non riuscendo a svolgere come vorrebbero il loro lavoro, giungendo al paradosso che quello che potrebbe essere un settore in via di sviluppo – basti pensare a quante persone necessitano di aiuto dagli anziani, alle persone con problemi fisici o psichici tra gli altri – trova ancora in difficoltà a crescere come dovrebbe e potrebbe. Ne parliamo con alcune imprese sociali, protagoniste in differenti regioni di questo tipo di attività, a ciascuna di esse sono state poste le stesse domande per avere un quadro quanto più omogeneo. A don Giacomo Panizza, presidente della Comunità Progetto Sud di Lamezia Terme è affidato un commento conclusivo.
(ITALPRESS).

Restart!, nell’ennese progetto per donne vittime di violenza

ROMA (ITALPRESS) – La Cooperativa Sociale Etnos di Caltanissetta la Cooperativa Agricola Colli Erei, l’Università di Catania e la Fondazione Exodus di Don Mazzi hanno recuperato, attraverso il progetto ‘ReStart!’ e con il sostegno della Fondazione con il Sud un fondo agricolo di 11 ettari con annesso un caseggiato per ospitare donne vittime di violenza che arrivano da ogni parte di Italia. Fondo e caseggiato si trovano nel comune di Centuripe (EN) e sono stati donati dalla famiglia Romano per essere utilizzati come struttura di accoglienza e recupero. Restart punta anche a rivitalizzare il territorio attraverso la Rete degli Eroi della Terrà per la promozione e commercializzazione delle produzioni agricole di qualità. Ne parliamo con Fabio Ruvolo, presidente della Cooperativa Sociale Etnos capofila del progetto.
Come nasce Restart!?
‘Restart! nasce dal dramma della famiglia Romano che ha perso la figlia Rosanna in modo traumatico e per mantenere vivo il suo ricordo ha donato il casale che oggi porta il suo nome in cui si svolgono le attività progettuali. Dal dolore di questa meravigliosa famiglia, rinasce oggi la speranza per tantissime altre donne vittime di violenza e per i loro figli.
Restart! per noi è un dono che Fondazione con il Sud e Fondazione Enel Cuore hanno fatto al nostro territorio e di cui noi siamo i custodi. Grazie a questo intervento abbiamo potuto dimostrare che anche nella zona più depressa dell’entroterra siciliano è possibile immaginare un modello di impresa sociale innovativa, strutturata per sviluppare nuove forme di economia non legate all’assistenzialismo, come purtroppo succede troppo spesso nel terzo settore a queste latitudini, ma che punta ad essere economicamente indipendente e sostenibile nel lungo periodò.
Come opera?
‘Il progetto ha due importanti matrici: una di tipo sociale e una di tipo agricolo, che sono inscindibilmente legate tra loro. La matrice sociale ha visto la realizzazione della casa per donne vittime di violenza denominata Casa Rosanna e accreditata presso i competenti servizi regionali. Grazie al progetto Restart! oggi la casa rifugio ad indirizzo segreto ospita fino a 13 donne vittime di violenza ed i loro figli provvedendo totalmente ai loro bisogni e gestendo il complesso mondo della prassi burocratica legata alla loro vicenda giudiziaria.
Grazie ad uno staff assolutamente professionale che è stato formato con il determinante supporto della Professoressa De Caroli e del Professore Licciardello dell’Università di Catania, sono state migliorate le modalità di approccio ai comportamenti problema e la gestione delle emergenze così come della quotidianità. In questo quadro, uno degli elementi terapeutici più rilevanti è l’attività occupazionale svolta sia nei terreni del casale, sia nei laboratori di trasformazione per i prodotti agricoli, sia nelle serrè.
‘Questo elemento ci riporta alla seconda matrice di progetto: l’attività agricola. Grazie alla Cooperativa Colli Erei sono stati completati con largo anticipo di lavori di recupero e piantumazione del fondo, la realizzazione delle serre e l’attivazione dei laboratori di trasformazione. L’aver precorso i tempi progettuali in questo settore ha consentito nonostante il COVID 19 di poter aggregare al progetto una nuova realtà agricola, la Cooperativa Iride, nata dallo spirito d’intraprendenza del territorio, che si occuperà dell’allevamento di asini, della realizzazione di un ovile per l’allevamento di caprette e di un pollaio per la produzione di uova bio provenienti da galline allevate a terra. Iride è stata inoltre la prima entità ad aderire alla ‘Rete degli Eroi della Terrà, una rete d’imprese agricole legate al territorio che si propone come obiettivo il favorire la valorizzazione delle eccellenze locali rappresentate da prodotti sani e sostenibili, la loro commercializzazione e il recupero delle antiche tradizioni riportando occupazione e ricchezza in un territorio ormai depressò.
Quali prospettive vedete per le vostre ospiti?
‘Il progetto si caratterizza per obiettivi di grande respiro umano e sociale che implicano notevoli livelli di complessità perchè si tratta di supportare la ricostruzione del futuro delle nostre ospiti. Con il nostro aiuto cerchiamo di far recuperare loro l’identità, la fiducia in se stesse e nel tessuto sociale. E’ chiaro che questo è un percorso davvero complesso in quanto le vite delle nostre donne sono state sconvolte da esperienze negative che le hanno portate ad avere una visione del mondo in cui dominano l’insicurezza, la sfiducia, la rabbia e molto spesso la rassegnazione di non poter mutare la propria condizione. Il processo da noi messo in atto, che potremmo definire riabilitativo, investe sostanzialmente l’intera progettualità di vita e l’identità personale e sociale di donne che hanno sperimentato relazioni socio – affettive fortemente negative con effetti devastanti sull’immagine di sè e sulla propria autostima. Tali donne vivono una proiezione negativa sia con riferimento al proprio futuro sia al tipo di aspettative nei confronti del mondo delle persone con le quali possono venire a contatto. Per opporsi a questa dimensione distruttiva interiore, il progetto, punta a realizzare interventi di tipo psico-socio-relazionale, ed è ispirato ai principi della ‘comunità educantè, mira inoltre a creare le condizioni funzionali al recupero dell’autonomia, sia economico – lavorativa sia relativamente all’autodeterminazione ed alla positiva progettualità futura, ivi compresa la funzione genitoriale. In sostanza, vogliamo riuscire a far recuperare alle nostre ospiti la sospirata ‘normalità’ persa a causa dei traumi subitì.
Quale valenza ha avuto il sostegno della Fondazione con il Sud?
‘Il sostegno di Fondazione con il Sud e Fondazione Enel Cuore ONLUS è stato a dir poco determinante nella creazione delle condizioni che hanno permesso la piena operatività del progetto. Senza Fondazione con il Sud, nessuna delle cose che sono state realizzate sarebbe stata possibile: Restart! nasce all’interno di uno dei territori più depressi economicamente parlando dell’intera Italia, la provincia di Enna, in cui i tassi di disoccupazione sono ai massimi a livello nazionale, il tasso di mortalità delle imprese è altissimo, ma fattore ancor più preoccupante è il numero di giovani che ogni anno emigra per trovare lavoro. In queste condizioni sarebbe stato impossibile recuperare capitali privati per la realizzazione di un investimento così importante sia in termini economici che in termini di impatto sociale. Grazie al sostegno di fondazione con il sud sono stati creati circa 13 posti di lavoro ‘verì a lungo termine, retribuiti secondo i contratti collettivi nazionali di categoria ed è stato generato per il territorio un indotto importantissimo sia in termini di volumi sia in termini di segnale di ripartenza. Sono valori non scontati a certe latitudinì.
Nel vostro percorso avete incontrato difficoltà? Ne state incontrando ancora? Quali?
‘Sarebbe poco realistico dire che non abbiamo avuto difficoltà, anzi ogni giorno ne incontriamo sul nostro cammino. Queste derivano dalle diverse estrazioni culturali degli attori di progetto, dalle differenti visioni e dalle problematiche legate alla burocrazià.
Quale è la relazione con l’Ente Pubblico? Come dovrebbe essere e/o vorreste che fosse?
‘Gli Enti locali convenzionati hanno dei ritardi nei pagamenti che possono arrivare fino ad oltre un anno dalla data prevista questo mette le strutture in una condizione di stress finanziario pur essendo economicamente sane perchè chiaramente la struttura riuscirebbe a gestire il budget che dovrebbe incamerare ma in realtà ha difficoltà poi a potersi interfacciare con i suoi obblighi di natura economica senza dover integrare le risorse previste dalle convenzioni firmate degli enti locali, è un problema che non è limitato esclusivamente al nostro specifico progetto ma purtroppo è un problema che si manifesta con tutte le pubbliche amministrazioni e molto spesso anche sui progetti europeì.
La vostra azione oltre a sostenere le ospiti serve anche a sostenere voi stessi. Ritenete ci sarebbe spazio per ampliamenti dell’attività e persino per la creazione di nuove imprese sociali simili nella vostra area?
‘E’ assolutamente auspicabile che a seguito di questa progettazione il territorio trovi l’ispirazione per promuovere iniziative sostenibili dal punto di vista economico ed ambientale per la rivitalizzazione del tessuto imprenditoriale locale. Il nostro impegno è volto a garantire, per quanto ci è possibile, che vengano messi a disposizione delle imprese esistenti e delle nuove start up i servizi di rete di cui disponiamo, ovvero il supporto in termini di commercializzazione e promozione dei prodotti: il fulcro di questa azione progettuale sarà la rete degli Eroi della Terra. La nostra speranza è che il territorio, seguendo il nostro esempio, si affranchi completamente da una mentalità che purtroppo, fin troppo spesso, è legata a logiche di sudditanza, sia economica che politica. Vi sono enormi margini per ampliare la nostra iniziativa progettuale con nuove opportunità che stiamo già valutando ma che dovremo adattare al nuovo contesto post pandemia. Per il territorio siamo altrettanto positivi: sviluppo e crescita sana e sostenibile, due principi su cui si basa Restart!, potranno portare l’intero comprensorio a rivitalizzare il tessuto produttivo attirando talenti e fermando l’emorragia di giovani e imprese. Siamo e saremo al fianco di tutti coloro i quali vorranno scommettere sulle proprie competenze e capacità perchè vogliamo restituire quanto di buono è stato fatto per noi e per la nostra iniziativa da Fondazione con il Sud e Fondazione Enel Cuorè.
(ITALPRESS).

Nel leccese comunità di Capodarco per bimbi con autismo

ROMA (ITALPRESS) – A San Nicola, in provincia di Lecce la Comunità di Capodarco padre Gigi Movia è uno dei pochissimi centri del Sud Italia per bambini con autismo ed è anche uno dei pochi che opera con un metodo che privilegia il “lavoro” sul singolo, ottenendo maggiori risultati. Ciò comporta anche un grande numero di richieste a cui non riesce a far fronte. E’ un centro accreditato presso la regione, che copre le rette degli utenti ma con importi molto bassi tanto che, nonostante anche i genitori integrino in base alle possibilità, alla fine il centro ci rimette. Il rapporto con le istituzioni varia al variare dei loro rappresentanti e molte volte oltre alle questioni di tipo economico comporta anche questione di carattere professionale e organizzativo. Ce ne parla Anna Pizzeleo psicologa e psicoterapeuta, responsabile del centro diurno di Chiesanuova – sezione autismo – della Comunità di Capodarco di Nardò.
Come nasce la vostra struttura? E perchè (quali problemi/ carenze vuole risolvere)?
“Il nostro Centro Diurno con sede a Chiesanuova (LE), nasce con la missione di offrire servizi specialistici ed altamente qualificati per minori affetti da disturbo dello spettro autistico e disturbi correlati. L’offerta si rivolge soprattutto a minori appartenenti a famiglie che versano in condizioni economiche svantaggiate. Questa scelta è stata fatta per due motivi molto semplici: perchè i servizi per l’autismo nel nostro territorio sono ancora pochi e non coprono il fabbisogno sociale e perchè dai pochi servizi offerti restano fuori le famiglie più svantaggiate, economicamente più deboli, che non riescono a contribuire alla retta per assicurare un intervento intensivo e precoce ai loro figli”.
Avete incontrato difficoltà? Ne state incontrando ancora? Quali?
“Dallo scorso anno le Asl non intervengono più per contribuire economicamente alla frequenza del centro diurno per i minori di 6 anni. Ciò è particolarmente grave in quanto è proprio in questa fascia di età che l’intervento dovrebbe essere più intensivo e precoce per assicurare lo sviluppo di tutte le abilità dei bambini e ridurre i loro comportamenti problema. Se questi ultimi non vengono “trattati”, essi si cristallizzano, col tempo diventano invalidanti e sono di ostacolo all’inserimento sociale della persona”.
Quale è la relazione con l’ente pubblico e come dovrebbe essere/ vorreste fosse?
“Le Istituzioni non contribuiscono con reti di salvaguardia e con rette adeguate alla presa in carico nei centri come il nostro. Le attuali normative regionali prevedono che la retta venga calcolata per assicurare un assistente ogni cinque bambini con disabilità. in realtà, se si vuole fare un lavoro serio sulle persone, c’è bisogno di un educatore specializzato per ogni bambino preso in carico. A ciò si aggiungono i costi del materiale didattico necessario alla terapia che va cambiato quotidianamente perchè i bambini con autismo hanno bisogno sempre di nuovi stimoli rinforzanti per tenere alta l’attenzione. La maggiore difficoltà che stiamo incontrando in questo momento è proprio questa: far passare il concetto della diagnosi precoce e il lavoro individualizzato (uno a uno)”.
“Questo modello – prosegue – non è compatibile con l’equilibrio economico calcolato dalla Regione e sostanziato nelle rette corrisposte. Ciò sta pesando sulle economie della Comunità che è chiamata continuamente a riequilibrare il conto economico sottraendo risorse alle altre strutture operanti sul territorio per finanziare l’autismo. Tale impegno finanziario sta ovviamente rallentando lo sviluppo di nuovi progetti innovativi.
Paradossalmente il modello di welfare in cui operiamo sembra che sia stato implementato per “istituzionalizzare” i problemi ma non per risolverli. I bisogni delle persone e le strutture che si occupano di servizi molto spesso sono visti come controparti e non come partner di un sistema integrato volto a migliorare la qualità della vita specialmente delle persone più svantaggiate”.
Ritenete ci sarebbe spazio per ampliamenti dell’attività e persino per la creazione di nuove imprese sociali simili nella vostra area? Quali prospettive vedete per vostri ospiti e quali in generale per la struttura?
“La Comunità di Capodarco padre Gigi Movia – aggiunge – opera al momento su tre ambiti: la Disabilità grave (adulti), l’autismo (Bambini da zero a 14 anni), l’inserimento sociale e la dispersione scolastica. Abbiamo aperto reti di collaborazione importanti con Università per sviluppare la ricerca e con associazioni che operano a livello nazionale nel campo del reinserimento sociale: il futuro lo immaginiamo proprio in quest’ultimo campo anche attraverso una scuola di formazione. Facciamo anche parte del progetto “No Neet” realizzato insieme ad altre realtà di sei regioni e sostenuto, nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, da Con i Bambini, l’impresa sociale interamente partecipata dalla Fondazione con il Sud, per offrire alternative a tanti giovani che non studiano e non lavorano. Per mantenere in vita tutta la struttura che al momento occupa 30 giovani c’è bisogno di creare sinergie positive sul territorio e nuovi canali di finanziamento per i progetti. Per dare continuità educativa, supporto sociale ed una casa che rappresenti il futuro ai nostri ospiti ci stiamo guardando attorno per creare una struttura residenziale che possa accogliere i ragazzi che giornalmente frequentano i nostri centri. I costi al momento sono fuori della nostra portata ma stiamo cercando persone disposte ad investire che credano in noi”.
(ITALPRESS).

Abitare le relazioni, a Foggia progetto di housing sociale

ROMA (ITALPRESS) – Abitare le Relazioni è un progetto di housing sociale realizzato a Foggia dalla Fondazione Siniscalco Ceci-Emmaus insieme con Comunità sulla strada di Emmaus, SMILE, Mestieri Puglia e Consorzio Aranea per dare, nelle masserie di proprietà della Fondazione, ospitalità e sostegno a famiglie e singoli, come i padri separati, italiani e stranieri. E’ sostenuto da Fondazione con il Sud. Ce ne parla Anna Valerio, responsabile del progetto.
Come nasce Abitare le relazioni? E perchè (quali problemi/carenze vuole risolvere)?
‘Alla base del progetto c’è la convinzione che l’individuo e le sue relazioni siano al centro di un nuovo modello legato al concetto ‘dell’abitarè che abbia come obiettivo il riscatto umano, lavorativo e sociale. Abitare le Relazioni interviene in un’area geografica, quella di Foggia e della sua provincia, fortemente interessata da nuovi e vecchi bisogni legati alla povertà, alla mancanza di integrazione, al disagio del singolo e delle famiglie. Sono 46 i posti letto previsti dal progetto, individuati nelle masserie della Fondazione Siniscalco Ceci-Emmaus e nei villaggi Emmaus e Don Bosco, alcuni interessati da lavori di ristrutturazione. Migranti, lavoratori stagionali, persone che hanno concluso positivamente percorsi di recupero dalle dipendenze, neomaggiorenni fuoriusciti dai servizi sociali, famiglie in situazioni di disagio economico: questi i destinatari dell’intervento. A lavorare al progetto, oltre alle aziende coinvolte nei tirocini, tanti volontari, professionisti e membri delle comunità già attive sul territoriò.
Come opera?
‘Alla soluzione abitativa dignitosa da offrire ai destinatari – al centro del progetto di housing – si aggiungono interventi di accoglienza e di accompagnamento psicologico, burocratico, formativo e lavorativo, favorendo il reinserimento dei soggetti in contesti economici e sociali idonei, senza tralasciare momenti di scambio attraverso la realizzazione di eventi aperti al territorio. L’idea non è solo quella di offrire un tetto a chi ne ha bisogno, ma anche di accogliere e valorizzare ciò che il singolo può dare alla comunità: più che housing, dunque, l’obiettivo principale è il co-housing, una co-abitazione e condivisione di spazi, risorse e momenti quanto più possibile solidi e duraturi, in grado poi di tradursi in percorsi di autonomia. Raccogliendo le segnalazioni delle realtà che operano nel sociale, Abitare le Relazioni accoglie le istanze di quelle persone alla ricerca di un riscatto che passi, anzitutto, attraverso la casa: la soluzione abitativa è solo la tappa iniziale di un iter che si conclude con l’affrancamento dal progettò.
Avete incontrato difficoltà? Ne state incontrando ancora? Quali?
‘La difficoltà più importante è quella di rendere autonomi i beneficiari del progetto, facendo in modo che trovino la loro strada entro i 18 mesi previsti per ognuno, superati i quali è necessario lasciare il posto a chi ne ha bisogno. Dopo un anno e mezzo di lavoro, molti sono coloro i quali si sono resi autonomi, beneficiando del progetto soltanto per i mesi necessari a ripartire, talora anche soltanto a fare il punto della situazione. Ad oggi, da maggio 2019 a novembre 2020, sono 18 gli uomini e le donne che si sono resi del tutto autonomi grazie a reinserimenti in contesti lavorativi sicuri, in grado di garantire loro una rendita dignitosa e, di conseguenza, una soluzione abitativa propria. Più complicato è per i lavoratori stagionali che, nei mesi cosiddetti morti, incontrano difficoltà: in un caso o nell’altro, anche superati i 18 mesi, l’intento di Abitare le Relazioni è comunque quello di prevedere per loro percorsi alternativi, cercando il sostegno di altre realtà già operantì.
Quale valenza ha avuto il sostegno della Fondazione con il Sud?
‘Il sostegno economico è stato fondamentale, soprattutto perchè è servito per ristrutturare alcuni edifici che hanno prodotto soluzioni abitative nuove e confortevoli. Masseria ‘Vaccarellà, in agro di Lucera, ad esempio, è stata interessata da lavori di ristrutturazione importantissimi, in grado di produrre più appartamenti all’interno di uno stesso stabile, in pieno co-housing. Stessa cosa anche per quanto riguarda gli alloggi dello storico Villaggio Emmaus, nella medesima zona. Inoltre, il sostegno della Fondazione ha permesso l’inserimento lavorativo di risorse umane da dedicare interamente ai beneficiari del progetto: l’accompagnamento di persone in difficoltà, infatti, non si fa a distanza, ma è qualcosa di molto concreto e umano, che trova incidenza nell’azione quotidianà.
Quale è la relazione con l’ente pubblico e come dovrebbe essere/ vorreste che fosse?
‘Con l’ente pubblico di riferimento siamo ancora lontani da una reale e proficua collaborazione. Spesso siamo stati interpellati in riferimento all’emergenza abitativa, ma Abitare le Relazioni non è (e non deve essere) questo che, anzi, compete esclusivamente alle istituzioni. L’idea, piuttosto, è quella di creare una collaborazione che non sia solo emergenziale, ma incanalata in un’ottica di prospettiva: l’emergenza non è un punto di partenza, è una condizione temporale da cui non può scaturire alcuna progettualità. L’umanità che incontriamo durante il nostro cammino vive e soffre, più di ogni altra cosa, la precarietà, l’incertezza. E’ questo che l’ente pubblico deve capirè.
La vostra azione oltre a sostenere gli ospiti serve anche a sostenere voi stessi. Ritenete ci sia spazio per ampliamenti dell’attività e persino per la creazione di nuove imprese sociali simili nella vostra area?
‘Abitare le Relazioni è un progetto che incuriosisce molto e che va incontro alle persone, svolgendo un ruolo importante contro nuove e vecchie forme di solitudini. Nella zona, e non solo, ha attirato tanta curiosità e potrebbe anche creare situazioni omologhe nel corso degli anni, rispondendo a una domanda tutt’altro che trascurabile. E’ innovativo, poi, perchè esce dai confini del mero assistenzialismo, producendo relazioni che, superata la fase progettuale, possono poi tradursi in qualcosa di concreto, con ricadute sul territorio. La falsariga può essere proprio questa: favorire, grazie a vincenti esperienze di co-housing, azioni cooperative comuni che possano occupare spazi cruciali in questo territorio. Si pensi a quello agricolo oppure a quello dei servizi: piccole imprese sociali che possano continuare ad orbitare attorno al progetto e, al contempo, trovare la forza di agire in modo indipendentè.
Quali prospettive vedete per i vostri ospiti e quali in generale per Abitare le Relazioni?
‘Il progetto funziona, lo confermano anche gli indicatori di riferimento: dopo un anno e mezzo di lavoro, infatti, quelli fissati ai nastri di partenza sono stati ampiamente assolti e superati. Ciò ci consente di guardare con positività anche al futuro, soprattutto per i nostri ospiti: per molti di loro, pertanto, Abitare le Relazioni è qualcosa che già appartiene al passato e la cosa ci riempie di orgoglio perchè vuol dire che sta funzionando come tappa formativa e sociale. E’ ciò che deve essere, soprattutto. La prospettiva è quella di essere sempre di più al centro di un triangolo di fattori che metta insieme il lavoro, la casa e il ricongiungimento familiare, un elemento, quest’ultimo, che non riguarda più soltanto i cittadini di origine straniera. Tra le finalità del progetto c’è la realizzazione e il consolidamento di un network stabile e duraturo, in grado di lavorare in rete per il benessere della cittadinanzà.
L’emergenza sanitaria come è stata affrontata all’interno del progetto?
‘Le esperienze di co-housing hanno risentito, nel bene e nel male, della situazione emergenziale. Alcune forme di collaborazioni semplici (fare la spesa, cucinare insieme, mangiare insieme, condividere i turni della lavanderia), al pari di altre più vaste (partecipazione a incontri formativi, feste, visione di spettacoli teatrali/film, eventi di vario tipo) hanno subito un rallentamento, in favore però di forme di mutuo-aiuto basilari attivate proprio per fronteggiare i rischi di isolamento dovuti alle restrizioni dei vari Dpcm (servizio navetta per gli ospiti delle strutture, ad esempio). Inoltre, abbiamo dovuto supportare una nostra utente che, lavorando presso una struttura residenziale per anziani, è risultata positiva al COVID-19. Pertanto, il nostro impegno è stato quello di collocare le altre donne, conviventi, presso altri luoghi, e di sostenere l’utente in ogni necessità (spesa, farmaci), effettuando anche un sostegno telefonico di tipo psicologicò.
(ITALPRESS).

Capovolti, cooperativa salernitana per persone con disabilità psichica

ROMA (ITALPRESS) – Capovolti è una cooperativa sociale del salernitano il cui claim è “un altro modo di vivere la salute mentale”. Nata con il sostegno della Fondazione con il Sud, gestisce una casa alloggio, un centro diurno e un gruppo appartamento, dove sono ospitate persone con disabilità psichica che vengono formate al lavoro in ambito agricolo. Ce ne parla il presidente Francesco Napoli.
Come nasce la Cooperativa Capovolti? E perchè? (quali problemi/carenze vuole risolvere)
“La nostra Cooperativa nasce dall’entusiasmo e dalle competenze di un gruppo di giovani professionisti che, nel 2012, hanno deciso di investire nell’Agricoltura Sociale con l’iniziale obiettivo di sostenere alcune famiglie di persone con disabilità mentale. Oggi conta diciannove soci lavoratori. Sin dall’inizio abbiamo operato per rispondere ad un bisogno troppo spesso disatteso: l’autodeterminazione e la dignità delle persone con disabilità mentale. Ciò significa sostenere una presa in carico globale a partire dai bisogni di cura, percorsi di formazione e lavoro, di autonomia e di concreto inserimento sociale, ripartendo dalle comunità, superando l’assistenzialismo e oltrepassando il confine esclusivamente sanitario, psichiatrico e farmacologico, della presa in carico delle disabilità mentali, provando quindi a scardinare lo stigma, il pregiudizio, l’esclusione sociale”.
Avete incontrato difficoltà? Ne state incontrando ancora? Quali?
“All’inizio di questa avventura eravamo pochi e il contesto era poco incline a riconoscere l’Agricoltura Sociale come strumento di crescita umana ed economica. Oggi l’atteggiamento è molto cambiato, complice anche la nuova sensibilità sul tema dei cambiamenti climatici: oggi sono numerose le realtà che vi operano, a dimostrazione che essa è un luogo produttivo, qualitativo, di crescita, formazione e riabilitazione, esperienze, relazioni, competenze condivise, autodeterminazione e dignità per tutti. Purtroppo oggi è ancora difficile operare – specie se l’Agricoltura Sociale viene applicata alla salute mentale – senza incappare nei vincoli e nei limiti attuativi di una stratificazione di norme, e ciò nonostante una normativa nazionale e regionale di riferimento. Vediamo urgente un profondo rinnovamento innanzitutto nella mentalità del legislatore ad ogni livello per giungere ad una condivisione e costruzione di percorsi e strumenti che vadano verso il pieno riconoscimento della funzione sociale ed economico dell’Agricoltura Sociale quale strumento di welfare generativo e di prossimità. Fondamentale in tal senso il ruolo di organizzazioni come il Forum Nazionale dell’Agricoltura Sociale e le sue articolazioni regionali”.
Quale valenza ha avuto il sostegno della Fondazione con il Sud?
“Il sostegno di Fondazione CON IL SUD è stato determinante. La fiducia che abbiamo ricevuto, l’accompagnamento nel nostro percorso di crescita, l’investimento di risorse importanti sulle nostre idee e capacità, ci rendono grati e dimostrano anche che la nostra idea iniziale era vincente. Volevamo dar vita a una scintilla che potesse innescare un processo di innovazione e crescita orientato ad una visione sistemica fortemente radicata nella comunità e di lungo respiro”.
Quale è la relazione con la Pubblica amministrazione e come dovrebbe essere/ vorreste fosse?
“A fasi alterne la relazione con l’ente pubblico si è distinta da un lato per un forte slancio collaborativo e propositivo, dall’altro per grandi e assordanti assenze e distanze. Un esempio è il Budget di Salute, strumento prioritario attraverso il quale svincolare la presa in carico delle persone con disabilità mentale dall’assistenzialismo e dall’isolamento sociale e occupazionale ancora disatteso e inapplicato sul nostro territorio. Ritengo però che il ruolo della cooperazione si giochi su questo terreno: da un lato non derogare o delegare il nostro ruolo politico in senso ampio e dall’altro sentire come prioritaria la nostra funzione educativa e di accompagnamento delle comunità e dunque delle istituzioni che le rappresentano ad una acquisizione di competenze, strumenti e visioni che ci consentano di superare ritardi e visioni obsolete”.
La vostra attività oltre a sostenere gli ospiti serve anche a sostenere voi stessi. Ritenete ci sarebbe spazio per ampliamenti dell’attività e persino per la creazione di nuove imprese sociali simili nella vostra area?
“Noi puntiamo sempre a sostenere, nella logica di sistema che ci contraddistingue, una rete ampia e variegata di soggetti del territorio con cui lavoriamo da tempo ed altri che speriamo incontrare sul nostro cammino. In questi anni siamo cresciuti : abbiamo consolidato la nostra piccola azienda agricola, produciamo olio extravergine biologico apprezzato ovunque, abbiamo una Fattoria Didattica, servizi residenziali e semi residenziali per la salute mentale con una Casa Alloggio, un Centro Polifunzionale e un Gruppo Appartamento. Siamo cresciuti attraverso la politica dei piccoli passi, della costruzione di competenze e di strumenti, nella centralità delle persone e delle comunità. Pensiamo di essere tra i tanti che ogni giorno ci provano: in questi anni abbiamo collaborato con decine di cooperative, di imprese profit, istituzioni e enti territoriali, facendoci portatori nel nostro piccoli di una visione multidimensionale e multiattoriale delle iniziative di welfare e di impresa, convinti che solo riconoscendo il valore dell’interdipendenza si possa davvero orientare risorse e competenze ad una crescita stabile e qualificante delle comunità, con le comunità e per le comunità. Ciò significa anche porsi in una logica di accompagnamento e di incubatore di nuove realtà”.
Quali prospettive vedete per i vostri ospiti e quali in generale per Capovolti?
“Capovolti nasce dalle famiglie ed è una piccola grande famiglia. Insieme l’abbiamo pensata e voluta, abbiamo gioito e sofferto, come una comunità di persone innanzitutto, dove lo steccato tra sano e malato non può e non deve esistere, pur nel riconoscimento e nel rispetto dei limiti e dei bisogni di ciascuno In questo quadro la prossima importante sfida è il Progetto Co.Meta, l’Ecoparco naturalistico che sta sorgendo, grazie al sostegno di Fondazione CON IL SUD, nel cuore dei Monti Picentini in provincia di Salerno. Sette ettari di terreni riqualificati e riportati a nuova vita dove stiamo realizzando uno spazio produttivo, didattico, ludico, turistico a servizio dei beneficiari e di tutta la comunità. Creeremo un’area di accoglienza per camper e tende, un oliveto ed un frutteto, percorsi di trekking e biking, percorsi e strumenti per persone con mobilità ridotta; un’area dedicata alla salvaguardia delle api, una alla pet therapy, e un’area pic-nic nel un belvedere affacciato sul Golfo di Salerno, asine per attività riabilitative, percorsi didattici e, naturalmente, un’area interamente dedicata alla produzione agricola con un insediamento dell’Orto Quadrato; tutto finalizzato all’inserimento formativo e lavorativo di persone con fragilità, anche grazie all’attivazione di tirocini formativi”.
(ITALPRESS).

Don Giacomo Panizza (Progetto Sud)”Partire da relazioni con i singoli”

ROMA (ITALPRESS) – Don Giacomo Panizza, 73 anni, bresciano, un passato da operaio metalmeccanico, ha fondato nel 1976 a Lamezia Terme “Progetto sud”, comunità del movimento di Capodarco nata come gruppo autogestito, di convivenza tra persone con disabilità e no, con gli intenti di fare comunità e di costruire alternative vivibili alle forme di istituzionalizzazione e di emarginazione esistenti. Col tempo la Comunità – di cui don Panizza è presidente – ha affrontato altre problematiche sociali (minori, tossicodipendenti, disagio giovanile, Aids, immigrati, Rom) dando vita ad un insieme di gruppi diversificati nelle finalità e sempre tendenti al rispetto dei principi della legalità, della giustizia e dei diritti umani. Nel corso degli anni la Comunità Progetto Sud si è fortemente radicata nel territorio lametino e calabrese con la creazione di servizi innovativi che hanno portato don Panizza a scelte ed azioni difficili e forti, al punto che Da quasi venti anni vive sotto protezione.
Oggi Comunità Progetto Sud è un gruppo di gruppi e di reti, e fa a sua volta parte della rete www.primalacomunita.it, associazione-movimento culturale-rete di reti costituitosi ufficialmente nel luglio 2020 dopo un percorso di riflessione a forte valenza politica sul tema della salute durante il quale sono state realizzate pubblicazioni, appelli, documenti, incontri e seminari, iniziative legislative durato oltre 5 anni. A Primalacomunità fanno capo centinaia di associazioni tutte tese alla promozione dell’idea di salute intesa come bene comune.
A don Giacomo Panizza abbiamo chiesto quale relazione positiva si possa attivare con l'”Ente pubblico” per cercare di sviluppare al meglio progetti e iniziative che sono di servizio agli utenti e potenziali posti di lavoro per gli operatori. I suggerimenti che offre nascono dalla sua lunga e articolata esperienza di dialogo (e anche scontro) con gli enti pubblici, le Istituzioni, la pubblica amministrazione calabrese ad ogni livello.
“In Calabria – spiega – ci sono regolamenti differenti da altre Regioni: basti pensare che la legge 328 qui non è stata ancora recepita o meglio mancano ancora i decreti attuativi e quindi mancano i piani di zona, un tema che sto affrontando proprio in questi giorni. Ogni zona, ogni comune, ogni piccolo paese non ha mai avuto un’esperienza di programmazione dei servizi e di programmazione degli stessi tra pubblico e privato sociale. La maggior parte dei servizi sociosanitari sono quindi ancora in mano al privato profit. Inoltre molti comuni sono stati sciolti per mafia e ci sono quindi difficoltà oggettive: e ancora talvolta c’è un assessore bravo, oppure un dirigente o un impiegato bravi, ma vengono ostacolati dai colleghi. E così molto spesso funzionano meglio le relazioni con i singoli dirigenti, con chi vuole costruire e aiutarci a farlo. E’ più funzionale quindi creare relazioni partendo dalle singole persone, anzichè dagli uffici, senza vedere l’Ente pubblico come un tutt’uno, un ostacolo insormontabile ma operare per costruire insieme. I passi sono possibili, ma incrementandoli lentamente, perchè non c’è alcun piano che disegni come fare insieme e che ci obblighi tutti, non c’è un piano sociale che detta le linee e quindi il percorso da seguire è quello di creare lentamente insieme”.
(ITALPRESS).

Cervelli al Sud, da Manchester a Bari per la ricerca sulle malattie neuromuscolari

ROMA (ITALPRESS) – Ornella Cappellari, proveniente dall’Università di Manchester, UK sta sviluppando il progetto “Optogenetic engineered artificial muscle” presso il Dipartimento di Farmacia e Scienze del Farmaco dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro.
La dottoressa Cappellari è nata a Varese 36 anni fa. “Mi sono laureata in Biologia applicata alla ricerca Biomedica all’Università degli studi di Milano” racconta. “Durante l’anno di tesi sperimentale, eseguita nel laboratorio del professor Giulio Cossu all’ospedale San Raffaele, mi sono appassionata alla ricerca, e ho deciso di continuare con un dottorato nel medesimo laboratorio. Il laboratorio del professor Cossu si è poi trasferito in Inghilterra, a Londra, e successivamente a Manchester. Ho seguito il professor Cossu a Londra, ma nel momento del trasferimento a Manchester ho cambiato laboratorio e ho svolto un post-dottorato nel laboratorio del prof. Wells al Royal Veterinary College rimanendo all’estero quasi dieci anni.
Quale il suo ambito di ricerca?
Ho sempre lavorato sulle malattie neuromuscolari in particolare sulla distrofia muscolare di Duchenne, una patologia neuromuscolare degenerativa. Durante gli anni londinesi ho iniziato a sviluppare l’idea di un muscolo artificiale che potesse “snellire” la sperimentazione preclinica per le malattie neuromuscolari.
La ricerca che sto effettuando intende sviluppare un muscolo artificiale tridimensionale interamente in vitro, da utilizzare come modello per la caratterizzazione della Distrofia Muscolare di Duchenne e di altre patologie legate al muscolo scheletrico. Inoltre, il muscolo artificiale potrà essere utilizzato per diversi test farmacologici, utili all’individuazione di terapie personalizzate per curare le malattie del muscolo. L’utilizzo di tecniche innovative consentirà al muscolo artificiale di contrarsi se sottoposto a stimolo luminoso (al posto del più consolidato ma molto meno efficiente stimolo elettrico) simulandone la funzionalità. I vantaggi saranno sia sul piano etico, dovuto all’abbattimento del numero degli animali nella ricerca, sia sul piano economico, grazie alla diminuzione dei costi per i test farmacologici, sia a livello di tempistiche, in quanto questo potrebbe ridurre notevolmente la durata della parte preclinica.
Perchè ha scelto di partecipare al bando e quindi di rientrare in Italia?
Svariati sono motivi per cui ho deciso di tornare in Italia. Dal punto di vista lavorativo, il laboratorio ospite, quello della professoressa De Luca al dipartimento di Farmacia Scienze del Farmaco dell’università di Bari, rappresenta un’eccellenza nel campo della distrofia muscolare in Italia e a livello internazionale. Inoltre, le precedenti collaborazioni con questo gruppo e la validità dei ricercatori mi hanno spinto a voler portare la mia esperienza estera in Italia. Fondazione con il Sud offre un’opportunità unica ai ricercatori che vogliono rientrare dall’estero, in particolare nel Sud Italia, finanziando progetti innovativi e ambiziosi in modo trasparente: permette ai “cervelli in fuga” di tornare, valorizzando quindi il capitale umano.

Quali i risvolti di questa scelta a livello personale e lavorativo?
A livello lavorativo è sempre appagante riuscire a lavorare nel proprio Paese seppur con le difficoltà esistenti e che tutti conosciamo, anche se, dopo quasi 10 anni fuori, ho trovato un Italia migliore di quella che ho lasciato. Inoltre il team del laboratorio ospite e il loro expertise saranno fondamentali per lo sviluppo ottimale del progetto. L’aver vinto un finanziamento importante e competitivo, porta un valore aggiunto notevole al curriculum. Sul piano personale ci sono diversi vantaggi, sia io che il mio compagno siamo italiani, e dopo un pò, qualora le condizioni lo permettano, ha senso tornare nel proprio Paese.
Quali relazioni ha mantenuto con l’Università all’estero?
Con le due università inglesi nelle quali ho lavorato il rapporto di collaborazione è rimasto attivo e spero rimanga tale anche nel futuro visto che nella ricerca lo scambio e il confronto sono necessari, se non indispensabili.
Che futuro immagina?
Spero in un futuro dove la mobilità dei ricercatori sia più facile. Spero anche che l’apparato burocratico italiano si rinnovi permettendo così a ricercatori dall’estero di venire in Italia a fare ricerca in maniera più agile. Ritengo che questo sia uno degli scogli fondamentali da superare nel nostro Paese per cominciare ad essere un pò più internazionali.
(ITALPRESS).

ITALPRESS con il SUD: Fare impresa sociale nel Mezzogiorno su Twitter