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In Italia il fumo di sigaretta causa 93mila decessi all’anno

ROMA (ITALPRESS) – Il fumo nuoce gravemente alla salute, eppure i fumatori in Italia sono 12,4 milioni: il 24,2% della popolazione (Campania, Umbria e Abruzzo sono le regioni dove si fuma di più).
Gli uomini fumano di più tra i 25 e i 44 anni, le donne fumano maggiormente tra i 45 ed i 64 anni. Tra i maschi il 25,6% di chi fuma supera le 20 sigarette al giorno, mentre le grandi fumatrici donne sono circa 13,4%. Inoltre, nell’ultimo anno si è registrato un aumento di 800 mila unità rispetto al dato del 2019, che trova spiegazione anche nell’effetto pandemia Covid, visto che rispetto al 2021, nel 2022 si osserva una diminuzione di due punti percentuali della prevalenza del fumo di sigaretta. Il Ministero della Salute stima in 93 mila all’anno i decessi dipendenti dal fumo in Italia e questi dati hanno riportato all’attenzione degli studiosi e dei media la questione del fumo di sigaretta. Si è dibattuto di questo durante l’evento: “Riduzione del rischio come strategia di salute pubblica nell’eliminazione del fumo di sigaretta”, realizzato da Motore Sanità con il contributo liberale di PMI Science.
“Il fattore di rischio più importante per i tumori è il fumo delle sigarette, che bruciano e che emettono 60-70 sostanze cancerogene – dice Umberto Tirelli, direttore sanitario e Scientifico Clinica Tirelli Medical Group, Past Primario Oncologo Istituto Nazionale Tumori di Aviano -. Non è la nicotina la principale causa delle malattie correlate, ma le sostanze cancerogene che ci sono nel fumo delle sigarette che bruciano. Smettere di fumare e non iniziare è sempre la soluzione migliore, ma smettere per molti è difficile, per questi fumatori passare a prodotti privi di combustione – come viene suggerito in Gran Bretagna e in Nuova Zelanda dalle autorità sanitarie perchè ritenuto potenzialmente meno dannoso – sarebbe consigliabile rispetto a continuare a fumare sigarette”.
“E’ un dato di fatto che in Italia ci sono milioni di fumatori che non vogliono o che non riescono a smettere”, conferma Riccardo Polosa, Professore Ordinario Medicina Interna, direttore Scuola di Specializzazione Reumatologia e fondatore e direttore Centro per la Prevenzione e Cura del Tabagismo Università degli Studi di Catania – Direttore UOC Medicina Interna e d’Urgenza, AOU “Policlinico-V. Emanuele”, Catania, Fondatore CoEHAR (Centro di Ricerca per la Riduzione del Danno da Fumo). “Non accettano di essere medicalizzati per via della loro abitudine tabagica. In Italia, ancora oggi, non abbiamo una politica sanitaria che si prenda carico di queste persone – aggiunge -. La riduzione del rischio rappresenta la soluzione, un’opportunità straordinaria di cambiamento e di accelerazione in termini di salute individuale e pubblica. Ritengo grave insistere nel nascondere ai cittadini le reali opportunità offerte dagli strumenti a potenziale rischio ridotto, addirittura additandoli come pericolosi al pari delle sigarette convenzionali. Bisogna smetterla di enfatizzare i rischi senza considerarne i benefici. L’Italia deve riaccendere i riflettori sulla sensibilizzazione antifumo, integrando il principio di precauzione con quello del rischio ridotto”.
Fabio Beatrice, Primario Emerito di Otorinolaringoiatria a Torino, Fondatore del Centro Antifumo Ospedale SG. Bosco di Torino e direttore scientifico del Board di MOHRE, ha portato l’attenzione sui Centri Antifumo, considerati “l’approccio migliore del Sistema Sanitario nella lotta al fumo di sigaretta”, ma questi sono diminuiti e “attualmente sono 223. La Regione con più Centri Antifumo è il Piemonte. Purtroppo l’affluenza nei Centri Antifumo è molto bassa e i fumatori che tendono a cercare di smettere da soli in gran parte falliscono. Inoltre non riesce a smettere oltre il 50% dei fumatori che si rivolge ai Centri Antifumo, pur in osservanza delle linee guida. Si ritiene che sia necessario interrogarsi sugli insuccessi, rivedendo più in generale le politiche di contrasto al tabagismo e le politiche di prevenzione per prevenire l’iniziazione delle nuove generazioni”.
Purtroppo, la cessazione del fumo tende ad essere vista come un problema personale, legato alla sola forza di volontà. Parola di Fabio Lugoboni, direttore USO Medicina delle Dipendenze AOU Integrata Verona, Professore Psichiatria e Docente Scuola di Specializzazione di Psichiatria e Medicina Interna, Università di Verona. “Il fumo è invece una dipendenza legalizzata, e necessita di supporto e terapia specifici, pena un’alta percentuale di insuccesso – ha detto Lugoboni -. Gli auto-tentativi tendono a fallire nell’80% dei casi entro la prima settimana. Ogni medico, ogni operatore di salute deve fare la sua parte, ma questo non sta accadendo, anche perchè in Italia fuma un medico su 4, contro il 3% di medici fumatori di Gran Bretagna e USA”.
Francesco Saverio Mennini, professore di Economia sanitaria e Economia politica e presidente della Società Italiana di Heatlh Technology Assessment, ha aggiunto: “E’ inoltre necessario far comprendere ai decisori i costi del fumo di sigaretta sostenuti dal sistema nel suo complesso, in termini di ricoveri, visite specialistiche e test diagnostici, disabilità e perdita di produttività. Sarebbe quindi ideale creare uno studio che analizzi a 360° il risparmio economico se i fumatori passassero completamente ai sistemi smoke free”.
Ha inoltre partecipato alla tavola rotonda, portando i saluti istituzionali, il senatore Francesco Zaffini, presidente della Commissione Affari sociali e Sanità del Senato, secondo cui “è opportuno vagliare la strategia di riduzione del danno, insieme ad una più ampia strategia di prevenzione delle dipendenze”.

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A Roma il 1° congresso nazionale degli assistenti sanitari

ROMA (ITALPRESS) – La prevenzione al centro del primo Congresso nazionale degli Assistenti sanitari, in programma a Roma, presso l’Hotel The Building, sabato 19 novembre 2022.
L’evento, dal titolo “Orizzonti paralleli di prevenzione”, è organizzato dalla Commissione di albo nazionale degli Assistenti sanitari della FNO TSRM e PSTRP. Per l’occasione sono attesi nella Capitale più di 200 assistenti sanitari provenienti da tutta Italia e sarà l’occasione per discutere di prevenzione e promozione della Salute in un’ottica moderna, come elemento imprescindibile del presente per migliorare lo stato di salute di domani.
“Gli sssistenti sanitari sono, da sempre, parte attiva e propulsori di promozione della salute, “interfaccia” tra i vari attori che intervengono in questo nuovo mondo; interpreti, mediatori e fautori della Planetary Health e del benessere dei cittadini”, si legge in una nota della FNO TSRM e PSTRP.
“Il futuro influenza il presente tanto quanto il passato” è l’aforisma del filosofo Nietzche che è stato scelto dagli organizzatori, come elemento di incontro per questo evento, come spiega Maria Cavallo, Presidente della Commissione di albo nazionale degli Assistenti sanitari: “Il futuro non può essere un miraggio o un’ idea da realizzare, ma un impegno da prendere, abbiamo una grande responsabilità nei confronti delle prossime generazioni – continua la Presidente -. Ciò vale per la salute e in particolare per la prevenzione, in quanto il domani sarà la somma delle azioni che avremo eseguito e delle iniziative che avremo avuto la forza e il coraggio di intraprendere”.
“Alla base, dunque, un nuovo paradigma, frutto di sinergie e condivisioni interprofessionali, in cui la tecnologia, unita a strategie vaccinali innovative e modelli organizzativi più funzionali supporteranno le sfide delle cronicità, disabilità e diseguaglianze – prosegue la nota -. Innovatori della cultura sanitaria in tutti i luoghi di vita. Gli assistenti sanitari si pongono a guida trainante di questo percorso, che pone al centro i meccanismi di prevenzione, attraverso la loro visione scientificamente olistica dei bisogni sociosanitari, la trasversalità in tutte le fasi della vita umana”.
Prevenzione nel PNRR e DM 77, vaccinazioni, promozione della salute Sanità digitale e telemedicina sono solo alcuni degli argomenti su cui gli assistenti sanitari si troveranno a discutere.
“Il primo Congresso nazionale degli Assistenti sanitari vuole guardare al futuro pensando al presente, l’evento intende offrire uno spaccato di scenari innovativi che questi professionisti della salute contribuiranno a realizzare, anche attraverso lo spirito deontologico che da oltre un secolo li motiva nel nostro Paese”, conclude la Presidente Cavallo.
Tra gli interventi previsti, Silvio Brusaferro, Pier Luigi Lopalco, Filippo Anelli, Giancarlo Icardi, Emanuele Montomoli, Vincenzo Baldo, Giovanni Gabutti, Enrico Di Rosa, Teresa Calandra.

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4 medici su 10 pronti a lasciare il Ssn per lavorare con le cooperative

ROMA (ITALPRESS) – Quanti sono i medici pronti a lasciare il posto fisso in ospedale per lavorare come gettonisti? Circa 4 su 10. E’ il risultato emerso da un sondaggio flash proposto dalla Federazione Cimo-Fesmed ad un campione di 1000 medici: di questi, il 37,6% ha dichiarato di essere pronto a dimettersi da dipendente del Servizio sanitario nazionale per lavorare con una cooperativa. Percentuali che risultano maggiori tra i camici bianchi più giovani (è disposto a lavorare per le coop il 50% di chi ha meno di 35 anni ed il 45% dei dottori tra i 36 ed i 45 anni) e che comprensibilmente si riducono tra i medici più anziani, più vicini alla pensione: “solo” il 28% degli over 55 infatti preferirebbe lavorare a gettone. Interessanti anche le differenze registrate sulla base dei reparti di appartenenza: a sorpresa, i più desiderosi di fuggire verso le cooperative sono i medici che lavorano nell’area dei servizi (che rappresentano il 46% di coloro che dichiarano di voler lavorare come gettonisti), seguiti da chi lavora in emergenza (42%), dai chirurghi (40%) e, infine, dall’area medica (32%).
“Il quadro emerso dal sondaggio non può non destare preoccupazione – commenta Guido Quici, presidente della Federazione CIMO-FESMED che riunisce le sigle ANPO-ASCOTI, CIMO, CIMOP e FESMED -. E’ la rappresentazione plastica del disagio dei medici dipendenti del Servizio sanitario nazionale che iniziano a vedere nelle coop l’unica ancora di salvezza per uscire da un sistema e da un’organizzazione del lavoro ormai insopportabili. Ma se queste percentuali dovessero trasformarsi in dimissioni reali, ci ritroveremmo dinanzi al tramonto definitivo del Servizio sanitario nazionale, svuotato di molte delle sue professionalità e affidato in buona parte a società private che nessuno regola nè controlla”.
Sono numerose infatti le criticità relative alle cooperative che la Federazione CIMO-FESMED, aderente a CIDA, denuncia da tempo: l’assenza di trasparenza in merito al percorso formativo dei medici proposti, che spesso sono neolaureati senza alcuna specializzazione; l’impossibilità di controllare il rispetto della normativa sull’orario di lavoro ed il riposo obbligatorio tra un turno e l’altro, che mette a rischio la sicurezza delle cure e, quindi, i pazienti; la difficoltà di inserirsi in un contesto lavorativo ogni volta diverso, che segue regole, protocolli e un’organizzazione che solo un dipendente può conoscere bene e rispettare; l’ingiustizia di far guadagnare al gettonista anche il triplo di quello che guadagna un dipendente nel corso del medesimo turno di servizio, avendo inoltre un carico di responsabilità inferiore.
Sebbene l’aspetto retributivo, e quindi la possibilità offerta dalle cooperative di guadagnare molto di più lavorando molto di meno, sia uno dei motivi principali che spinge sempre più medici verso le prestazioni a gettone, in realtà per il 52,4% dei medici che hanno risposto al sondaggio sono altri gli aspetti che inducono a valutare la possibilità di lavorare con le coop: primo fra tutti, la certezza di poter gestire meglio il proprio tempo, di migliorare la qualità della propria vita, di avere maggiore autonomia e flessibilità, di dover svolgere una quantità minore di compiti burocratici.
“Lo ripeto ancora una volta – conclude Quici -: se non si valorizza la professione medica, adeguando gli stipendi alla media europea, migliorando le condizioni di lavoro in ospedale e dando concrete possibilità di carriera, tra pochi anni dovremo celebrare il funerale del Servizio sanitario nazionale. Occorre intervenire subito, perchè forse è già troppo tardi”.

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Tumore al pancreas, ricerca e terapie mirate per combattere la malattia

MILANO (ITALPRESS) – Tumore al pancreas, una neoplasia difficile da diagnosticare, la cui incidenza è in crescita in Italia. Il 17 novembre ricorre la Giornata Mondiale del Tumore al Pancreas, un’occasione per riflettere sui numeri della malattia e alzare il livello di consapevolezza. Secondo gli ultimi dati del Ministero della Salute, che di recente ha anche istituito un tavolo tecnico, chi riceve una diagnosi di questo tipo ha speranze ridotte di vita: il tasso di sopravvivenza a 5 anni è dell’11% per gli uomini e del 12% per le donne. Il numero dei casi poi è in crescita: nel 2020 le nuove diagnosi sono state 14.300, contro le 12.500 del 2015. Dietro questi numeri ci sono diverse concause, fra queste lo stile di vita scorretto, un’alimentazione non equilibrata, agenti inquinanti, compreso il fumo. C’è da tenere presente poi l’influenza di una componente genetica che incide nel 10% dei casi.
Il professor Alessandro Zerbi, responsabile della Chirurgia Pancreatica all’IRCCS Humanitas e docente di Humanitas University così ha spiegato, al microfono di Italpress, le motivazioni per le quali il tumore al pancreas, e in particolare il carcinoma al pancreas, è considerato uno dei big killer dell’oncologia: “E’ una delle neoplasie solide con la prognosi peggiore. Ciò è dovuto al fatto – ha spiegato Zerbi – che la diagnosi spesso è tardiva. I sintomi sono aspecifici e vengono sottovalutati, quando poi si fanno indagini diagnostiche strumentali, si fa fatica a visualizzare il pancreas, che è un organo molto profondo. Per la sua collocazione anatomica poi, i tumori al pancreas frequentemente si espandono nei tessuti circostanti e in altri organi. Solo una piccola percentuale dei pazienti inoltre è operabile. C’è da aggiungere purtroppo il fatto che, dal punto di vista biologico, sono anche tumori che rispondono poco ai trattamenti chemioterapici”.
Istituto Clinico Humanitas, ogni anno, si occupa di oltre 1000 pazienti affetti da carcinoma del pancreas, oltre ad altri 250 pazienti che devono affrontare tumori neuroendocrini. L’ospedale si è dotato quindi di una Pancreas Unit. “La Pancreas Unit – ha raccontato ancora Zerbi – è fondamentale perchè è sinonimo di approccio multidisciplinare al tumore al pancreas. E’ condizione irrinunciabile per poterlo curare in modo efficace. Soltanto con una equipe multidisciplinare si possono prendere decisioni corrette, paziente per paziente. Fanno parte della Pancreas Unit tutti gli attori della cura, quindi chirurgo, oncologo, radioterapista, gastroenterologo, endoscopista, anatomopatologo e anche nutrizionista, psicologo, diabetologo. Queste sono le figure che sono fondamentali per un approccio completo a questo tipo di tumore”.
La ricerca gioca poi un ruolo fondamentale per arrivare a una diagnosi precoce, a capire meglio la terapia adatta a ogni paziente e a predire eventuali complicazioni post operatorie. Sono molti i fronti sui quali IRCCS Istituto Clinico Humanitas sta lavorando, anche grazie alla collaborazione e al sostegno di Fondazione Humanitas per la Ricerca, di Humanitas University e del Politecnico di Milano. “La ricerca lavora per rispondere a due principali domande: una domanda su diagnosi, dobbiamo intervenire più precocemente e una domanda su terapie. Dobbiamo identificare terapie più mirate per i nostri pazienti. Fondazione Humanitas per la Ricerca è molto attiva, in particolare portiamo avanti progetti che mirano a una migliore profilazione dei pazienti per identificare marcatori di diagnosi e di terapia”, ha detto a Italpress Federica Marchesi, professoressa di patologia generale all’Università degli Studi di Milano e ricercatrice nei laboratori di IRCCS Istituto Clinico Humanitas.
L’aiuto delle nuove tecnologie porta speranza ai malati di tumore al pancreas. In particolare, sotto la direzione del professor Zerbi, è nato un laboratorio in collaborazione con il Politecnico di Milano per la caratterizzazione biomeccanica del tessuto del pancreas, allo scopo di creare un modello fisico dell’organo in materiale artificiale, sia per il training di chirurghi e specializzandi, sia per individuare strumenti specifici per la chirurgia pancreatica. E anche l’uso di algoritmi di intelligenza artificiale aiuta a ottimizzare il percorso di diagnosi e a prevedere l’andamento della terapia o il decorso post operatorio.
Per la Giornata Mondiale del Tumore al Pancreas, Humanitas ha realizzato un video che racconta il dietro le quinte della caccia al big killer dell’oncologia, attraverso le parole di medici, chirurghi, ricercatori e infermieri. Il video sarà disponibile su Youtube, Instagram e Facebook di Humanitas dal 17 novembre.

– foto ufficio stampa Lab Humanitas-Politecnico pancreas artificiale –
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Sui farmaci generici pesa il costo di produzione

ROMA (ITALPRESS) – A parità di merce prodotta e a parità di materiali e risorse utilizzate per la produzione, nel 2022 i costi totali di produzione dei medicinali generici in Italia sono cresciuti rispetto al 2021 del 21%, per una cifra pari a circa 937 milioni. E’ quanto emerge dall’Osservatorio Nomisma sul “Sistema dei farmaci generici in Italia”, la cui edizione 2022 è stata presentata da Nomisma e Egualia. Dai dati di analisi emerge un rialzo dei prezzi continuo e trasversale di tutte le componenti durante il triennio con la voce per l’utilizzo di fonti energetiche che già nel 2021 inizia a impostarsi al rialzo: per tutte e voci il rincaro complessivo nei tre anni è compreso tra il 31% e il 51%. Dai dati risulta evidente che i principi attivi (API) rappresentano solo una piccola porzione dei costi necessari per l’immissione di un farmaco sul mercato: fatto 100 il costo di produzione, a pesare maggiormente è il costo dei materiali di confezionamento, che nel triennio fanno registrare un’incidenza attorno al 20%, mentre principi attivi ed eccipienti rappresentano rispettivamente il 14% 1e il 10% circa del totale. Particolare riferimento va a tutti i materiali di confezionamento primario e secondario, su cui variazioni di prezzo persistenti possono creare condizioni di grande difficoltà per le imprese che ne fanno uso estensivo, incidendo di fatto per circa un quinto del totale dei costi. Casi eclatanti l’alluminio, arrivato a costare nel I semestre 2022 il 37% i più rispetto allo stesso periodo del 2021 (+60% rispetto al I semestre 2019); il polietilene e il vetro, cresciuti del 9% nello stesso periodo.
“Il rapporto evidenzia alcune criticità del momento che sono di doppia natura, la prima è relativa all’incremento dei costi, la seconda nella reperibilità dei principi attivi”, afferma Enrique Hàusermann, presidente di Egualia. “Oggi, inoltre, mancano determinati farmaci perchè non c’è stata dopo il 2020 un’adeguata politica industriale per riportare le produzioni di determinati principi attivi in Europa”, conclude Hausermann.
Per Lucio Poma, chief economist di Nomisma e coordinatore scientifico dello studio, “tutta la trasmutazione in atto può essere riassunta nel termine ‘incertezzà. Le aziende sono costrette – senza averne gli strumenti – a passare da un’organizzazione basata sulla gestione del rischio a un sistema basato sulla gestione dell’incertezza. Per questo sono indispensabili policy di sostegno che aiutino le imprese ad intraprendere una nuova traiettoria organizzativa”.
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I-Com, a rischio la competitività del Sistema sanitario nazionale

ROMA (ITALPRESS) – Il meccanismo dei tetti per la spesa farmaceutica, il payback, la difficoltà di trovare modelli finanziari adeguati, la mancata preparazione all’applicazione del nuovo Regolamento europeo sulle sperimentazioni cliniche e il lento e difficoltoso iter di approvazione degli studi. Sono questi alcuni dei fattori di freno al processo innovativo del Sistema Sanitario Nazionale secondo il rapporto annuale sul settore salute dal titolo “Salute e competitività. Strategie ed investimenti per vincere le sfide del recovery e della crescita” pubblicato dall’Istituto per la Competitività (I-Com), il think tank guidato dall’economista Stefano da Empoli con base a Roma e Bruxelles. Lo studio, curato dal direttore dell’area Innovazione I-Com Eleonora Mazzoni, è stato presentato oggi a Roma nel corso di un convegno pubblico realizzato con il contributo non condizionante di Daiichi Sankyo, Eli Lilly, Gilead, Gsk, Janssen, Roche, Sanofi e Servier e al quale hanno preso parte oltre venti relatori tra accademici, esperti e rappresentanti delle istituzioni, della politica e del mondo delle imprese.
Alla luce delle profonde modificazioni introdotte dalla pandemia di Covid-19, uno dei colli di bottiglia più evidenti per la competitività dell’Italia è sicuramente il meccanismo dei vincoli di spesa, il cui sfondamento è ormai un vizio strutturale, che unito a quello del payback (che obbliga le aziende a pagare il 50% dello sforamento dei tetti) e a modelli finanziari ormai troppo rigidi rispetto alla crescente innovazione scientifica, rallentano l’adozione di soluzioni diverse per l’accesso veloce ed equo alle cure da parte dei cittadini. ‘La possibilità di trovare modelli finanziari adeguati è anche legata alla configurazione della spesa sanitaria, nel Bilancio di Stato – dichiara il direttore dell’area Innovazione I-Com Eleonora Mazzoni -. Questo rinforza una riflessione strutturale: il perdurare dei silos di spesa non impatta solamente sul comparto farmaceutico, ma sull’intera filiera della salute, soprattutto ora che dobbiamo pensare a come rendere sostenibile il SSN dopo gli investimenti del PNRR’.
Infatti, aggiunge il direttore, “le modalità sostanziali in cui verrà organizzata l’assistenza sanitaria dovranno poi essere sostenute e finanziate in modo strutturale negli anni a venire. Per questo è urgente programmare il fabbisogno di fattori produttivi (capitale e lavoro) ma anche pianificarlo e, cioè, prevederne l’allocazione all’interno del rinnovato setting assistenziale in modo funzionale. Anche perchè, non dimentichiamo, lo spettro della recessione economica, unito alla crisi dei prezzi delle materie prime, pesa sull’intera filiera della salute”.
A far riflettere è anche il finanziamento stesso della sanità. La legge di bilancio 2022, sottolinea il rapporto I-Com, ha previsto un aumento del fabbisogno sanitario nazionale pari all’1,5% per il 2022, al 3,4% per il 2023 e al 5,1% per il 2024. Tuttavia, poichè l’incidenza sul PIL della spesa sanitaria arriverebbe a valere il 6,3% del PIL nel 2024 (una percentuale inferiore a quella del 2019), l’aumento delle risorse per il finanziamento del fabbisogno nazionale standard non sembra dare luogo ad un effettivo rafforzamento strutturale del SSN, ma piuttosto confermare la precedente dinamica di allocazione delle risorse.
La nota di aggiornamento al documento di programmazione economica (NADEF), approvata recentemente dal Governo, conferma queste preoccupazioni con una nuova previsione dell’incidenza della spesa sanitaria sul Pil che si riduce al 7% nel 2022 fino al 6% nel 2025. Inoltre, nel 2021 la spesa farmaceutica totale è stata pari a 32,2 miliardi di euro, in aumento del 3,5% rispetto al 2020 e corrispondente all’1,9% del PIL. L’Italia è lo stato in cui la spesa farmaceutica, in proporzione alla spesa sanitaria totale, è maggiore tra i grandi paesi UE (17,9% nel 2020). Tuttavia, lo scorso anno il comparto pubblico ha coperto poco meno del 70%, seppur con un incremento del 2,6% rispetto al 2020. Contestualmente è aumentata più che proporzionalmente la spesa farmaceutica a carico dei privati (+6,3%).
Secondo lo studio, un altro fattore di freno allo sviluppo è un impianto normativo e regolatorio non adeguato alle necessità del settore. Ne è un esempio il processo (non concluso) di allineamento al Regolamento europeo in materia di sperimentazioni cliniche, entro gennaio 2025.
Alcune nazioni si sono preparate attraverso una profonda revisione e semplificazione del proprio apparato regolatorio, mentre lo stesso non è accaduto per l’Italia. Qui la precedente Direttiva ha infatti portato a una serie di decreti ministeriali e di atti legislativi difficili da sistematizzare, dando vita ad un lungo processo di riorganizzazione legislativa, che avviato con la cosiddetta Legge Lorenzin è ancora lontano dall’essere completato. Di fatto, dopo otto anni dalla deliberazione della nuova normativa europea, l’Italia non ha ancora emanato i necessari decreti attuativi. Questo si inserisce in un quadro italiano in cui la spesa per Ricerca e Sviluppo rispetto al PIL è dell’1,86%, decisamente inferiore rispetto a quella dei principali paesi europei (con il Belgio al 3,68%, la Germania al 3,64%, la Francia al 2,59%, i Paesi Bassi al 2,46%), e i trial clinici avviati per 100.000 abitanti nel 2021 sono 3,14, nettamente al di sotto della media EU27 (5,43).
L’età media e le patologie croniche diventano un tema di sempre maggiore rilevanza. Nonostante la prevalenza di queste ultime tra 2014 e 2019 si sia complessivamente ridotta, appare oggi maggiormente diffuso il fenomeno della comorbidità: l’essere soggetti a due o più malattie croniche è una condizione che riguarda ormai il 13% della popolazione over 75 e il 3% della popolazione complessiva. Per quanto riguarda il personale sanitario pubblico, il dato più evidente è che il numero di professionisti che lavorano negli ospedali pubblici e quello dei medici di base è in calo. Per le professioni infermieristiche, nel 2022 il 26% dei posti resta scoperto, contro il 19% del 2013. Nel 2021 oltre 2.800 i medici si sono licenziati dal SSN, ovvero il 2,9% del personale ospedaliero. Inoltre, la quota di medici di medicina generale (MMG) su 10.000 abitanti è calata del 5% dal 2015.
Anche per questo, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza gioca un ruolo cruciale, destinando alla Missione 6 “Salute” risorse pari a 15,6 miliardi di euro e prevedendo pure all’interno delle altre Missioni importanti interventi nell’ambito del settore delle life sciences.
Lo studio evidenzia come risulti però prioritario intervenire definendo il fabbisogno dei fattori produttivi (capitale e lavoro) necessari alla tenuta del PNRR. Solo così sarà sensato stimare la spesa sanitaria pubblica corrente che, a regime, dovrà essere allocata per finanziare in modo strutturale l’attività del Servizio Sanitario Nazionale. Questo risponde, d’altra parte, alla necessità di rilanciare la riforma del SSN in un’ottica di medicina di popolazione, dichiaratamente voluta dalla riforma dell’assistenza sanitaria territoriale e non solo.
Dalle interviste condotte da I-Com ad un gruppo di aziende del settore il giudizio sugli interventi relativi alla Missione 6 è nel complesso positivo, pure se non a tutti viene riconosciuta la stessa capacità di avere effetti sugli obiettivi dichiarati dal Piano. Permangono inoltre, secondo le imprese, alcuni ostacoli agli investimenti.
Sul podio dei cinque driver più critici per l’attrattività del sistema paese si trovano il grado di industrializzazione, la domanda interna, la dinamica del PIL, gli investimenti privati in Ricerca e Sviluppo e le infrastrutture fisiche. Un miglioramento più significativo negli ultimi dieci anni è stato registrato per le politiche fiscali, i tempi della giustizia, i tempi e la trasparenza della pubblica amministrazione, le infrastrutture fisiche e la stabilità del Governo. In generale, è opinione comune che il PNRR avrà un impatto positivo sul sistema della ricerca, sulle infrastrutture fisiche e sulle politiche fiscali. Non viene riconosciuta però agli interventi previsti la capacità di influenzare la stabilità e la certezza del quadro normativo e regolatorio, così come l’efficienza dei processi della pubblica amministrazione. Preoccupano inoltre gli effetti sulla filiera della salute derivanti dall’aumento dei costi energetici e delle materie prime, oltre allo spettro della recessione economica.
In riferimento al mondo del farmaco e nell’ottica del legame sempre più forte con il mondo del digitale e dei dispositivi medici, nel rapporto vengono messi in luce anche i modelli e le buone pratiche che in questi anni hanno supportato gli investimenti in ricerca e sviluppo e l’accesso dei pazienti alle terapie. Ne è un esempio la rolling review, strumento normativo di stampo europeo che può essere utilizzato in caso di emergenze legate alla salute pubblica per accelerare la valutazione di un trattamento promettente. Di impatto notevole sulle tempistiche di accesso, se divenisse una pratica standard potrebbe portare ad una riduzione media delle tempistiche totali per l’accesso del 10% nei Paesi UE.

– foto ufficio stampa I-Com –
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Malattie infiammatorie croniche intestinali, ultimi studi su nutrizione

BOLOGNA (ITALPRESS) – L’alimentazione è un elemento importante nella genesi di tante malattie intestinali, fra cui le Malattie Infiammatorie Croniche dell’Intestino (MICI) e per questo motivo è sempre più oggetto di interesse scientifico. Inoltre, è importante garantire un adeguato supporto nutrizionale per migliorare la risposta dell’organismo ad eventuali malattie. La valutazione dello stato nutrizionale del paziente, quindi, richiede una particolare attenzione, soprattutto nel bambino a cui deve essere garantita una crescita ed uno sviluppo adeguati.
‘L’educazione alimentare rappresenta il primo e più efficace strumento di prevenzione a tutela della salute – sottolinea Giuseppe Coppolino, Presidente AMICI Italia – L’aumento dell’incidenza delle Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali nei paesi industrializzati ha coinciso con abitudini alimentari sempre più occidentalizzate: questa è una delle prove più eclatanti dell’influenza dei fattori ambientali nell’insorgenza di queste patologie. In soggetti geneticamente predisposti l’alimentazione può facilitare lo sviluppo della malattia, interferendo sull’equilibrio del microbiota intestinale, sulla funzione di barriera della mucosa e sulla funzione del sistema immunitario intestinale. L’interesse dei pazienti affetti da MICI per la dieta è sempre alto e conoscere cosa e come mangiare rappresenta un bisogno reale. Quando la malattia si è sviluppata, l’alimentazione e la nutrizione accompagnano costantemente le terapie mediche e chirurgiche, nell’ambito di una gestione globale del paziente. Quest’ultima deve essere affiancata da una presa in carico del paziente completa attraverso un approccio multidisciplinare e da un’informazione da parte del personale sanitario e dell’Associazione dei pazientì.
Il tema della nutrizione nei pazienti affetti da Malattia di Crohn e Colite Ulcerosa è stato al centro del convegno organizzato a Bologna da AMICI Italia, Associazione nazionale per le Malattie Infiammatorie Croniche dell’Intestino. Durante l’evento, che ha ottenuto il Patrocinio di Regione Emilia-Romagna, IG-IBD, Fondazione AMICI Italia, Policlinico Sant’Orsola, SIGE, SIGENP e SINPE, sono stati approfonditi i temi specifici legati alla dieta e alla terapia nutrizionale lungo il percorso di malattia ed è stato presentato e distribuito gratuitamente un opuscolo sull’alimentazione e nutrizione nelle Malattie Infiammatorie Croniche dell’Intestino.
‘Nel 2018 AMICI ha promosso un’indagine per valutare le abitudini alimentari delle persone con Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali, l’eventuale presenza di intolleranze alimentari e le modalità con cui ciascun paziente cerca di gestire i sintomi della malattia attraverso l’alimentazione – spiega Salvo Leone, Direttore Generale AMICI Italia – Dalle risposte di più di mille pazienti si evinceva che solo la metà di loro aveva ricevuto indicazioni sul regime alimentare da seguire. Da qui è nata l’esigenza di realizzare un’iniziativa su questo tema rivolta soprattutto ai pazienti. Durante questo convegno sono stati approfonditi tutti i temi specifici legati alla dieta e alla terapia nutrizionale. Vogliamo rendere consapevoli coloro che sono affetti da Malattia di Crohn o Colite Ulcerosa del ruolo fondamentale dell’alimentazione, tenendo conto delle difficoltà che comportano le rinunce alimentari, che si aggiungono a quelle già presenti nella vita sociale: per questo è necessario verificare l’impatto dell’alimentazione sul benessere psicologico, sulla qualità di vita e sul coinvolgimento attivo nella gestione della malattià.

‘Oggigiorno, in fatto di ricerca, l’aspetto più interessante riguarda il versante pediatrico, con la nutrizione enterale considerata ormai primaria nei casi lievi e moderati di malattia di Crohn e con la dieta di esclusione – dichiara Loris Pironi, Direttore della Scuola di Specializzazione in Scienza dell’Alimentazione e Dietetica dell’Università di Bologna – Poche le novità, invece, in tema di alimentazione come terapia per i pazienti adulti, ancora da confermare con studi appropriati. Durante l’appuntamento organizzato da AMICI si sono anche approfonditi il ruolo della alimentazione come fattore ambientale che nei soggetti predisposti può contribuire a sviluppare la malattia, nonchè il tipo di alimentazione da eseguire nei pazienti con malattia ma senza complicanzè.
‘Durante l’incontro – dichiara Paolo Gionchetti Direttore della SSD Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali Centro di Riferimento Regione Emilia-Romagna per le Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali IRCCS Policlinico di Sant’Orsola – è stato approfondito e valutato sotto diversi aspetti il tema della dieta nei pazienti affetti da Malattia di Crohn e Colite Ulcerosa. Dal confronto sono emersi diversi spunti che saranno utili non solo per i pazienti ma soprattutto per i medici che li curano. E’ chiaro – conclude Gionchetti – che c’è ancora molto da fare in quest’ambito e considerando che i pazienti non sono mai uguali tra loro, sarà in futuro necessario personalizzare il nostro intervento considerando anche l’importanza della dieta come elemento integrante dell’aspetto terapeuticò.
E’ ormai consolidato l’utilizzo, nei casi pediatrici di malattia di Crohn ad attività lieve-moderata, secondo quanto indicato dalle linee guida internazionali, della nutrizione enterale esclusiva, una formula polimerica con una consistenza simile a quella del latte, che deve essere impiegata in sostituzione della normale alimentazione per 8 settimane. Non possono essere assunti altri alimenti durante questo periodo. La nutrizione enterale esclusiva, che può essere assunta per bocca, è in grado di indurre una remissione della malattia, con la scomparsa dei sintomi e può guarire la mucosa intestinale. Gli studi riportano una quota di successo in circa il 75% dei casi pediatrici. Tale nutrizione può poi essere ancora utilizzata nella cosiddetta fase di mantenimento, ossia quando è necessario mantenere la remissione di malattia, coprendo circa il 50% delle calorie totali quotidiane.
‘Tra le novità presentate durante questo appuntamento – aggiunge Patrizia Alvisi, Dirigente Medico di Pediatria Responsabile di Programma di Gastroenterologia Pediatrica presso AUSL Bologna – vi è anche un nuovo filone di ricerca che riguarda le diete: nella fattispecie, la dieta di esclusione per la malattia di Crohn, conosciuta come CDED, ideata da un gruppo israeliano, che propone una dieta priva di alimenti tipici della dieta occidentale, come cibi raffinati, soprattutto se ricchi di zuccheri semplici, riduce l’introito di proteine animali (soprattutto carne rossa) ed esclude emulsionanti, additivi. Tale dieta avrebbe secondo quanto pubblicato recentemente dallo stesso gruppo, un’efficacia pari a quella della nutrizione enterale esclusiva. Gli studi sono tuttavia ancora pochi, necessitano di altre validazioni, ma comunque molto promettentì.
Secondo un recente studio realizzato dalla Società italiana di Gastroenterologia, Epatologia e Nutrizione Pediatrica – SIGENP, l’incidenza che potremmo definire minima (è desunta infatti dal registro nazionale della società scientifica che è aggiornato dai centri su base volontaria) delle MICI pediatriche, nell’ultimo decennio è praticamente raddoppiata, attestandosi attorno al 2/100.000 abitanti di età inferiore di 18 anni. Da un ulteriore aggiornamento che è in corso, tale dato sarebbe ulteriormente aumentato nell’ultimo triennio, raggiungendo valori vicini al attorno al 4/100.000 abitanti di età inferiore 18 anni.
Questi dati trovano riscontro con quelli di altri studi realizzati nei paesi del Nord Europa e Nord America, dove l’incidenza è molto più alta rispetto a quella della fascia mediterranea, con un’incidenza che si attesta attorno a 10/100.000 abitanti di età inferiore di 18 anni. Anche la dieta potrebbe forse avere un ruolo nel giustificare tali differenze.
‘La dieta mediterranea, ricca di fibre, frutta e verdura, e che utilizza ad esempio come fonte di lipidi olio extravergine di oliva può forse essere uno dei fattori che giustificano questa incidenza più bassa delle MICI pediatriche in Italia – conclude la Dott.ssa Alvisi – Ancora non abbiamo dati definitivi in merito a questo, così come abbiamo bisogno di ulteriori studi che confermino la validità della dieta nel trattamento della malattia di Crohn. Sono in corso diverse ricerche, proposte anche da gruppi italiani, che vedono l’utilizzo della dieta nel trattamento pediatrico al momento limitata alla malattia di Crohn. Si tratta di studi preliminari, ma dalla valenza importantè.
L’aumento della incidenza delle MICI in Paesi recentemente industrializzati, nei quali negli ultimi decenni si è assistito a una modifica delle abitudini alimentari verso stili sempre più ‘occidentalizzatì, rappresenta una delle prove più eclatanti dell’influenza di fattori ambientali, tra i quali l’alimentazione, nella patogenesi delle MICI. In soggetti geneticamente predisposti, l’alimentazione può probabilmente facilitare lo sviluppo della malattia interferendo sull’equilibrio del microbiota intestinale, sulla funzione di barriera della mucosa e sulla funzione del sistema immunitario intestinale.
Negli scorsi anni AMICI ha realizzato un’indagine sul rapporto con l’alimentazione nei pazienti con Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali (MICI) condotta dal centro ricerche EngageMinds-HUB dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. L’obiettivo principale era approfondire come il rapporto con il cibo nei pazienti affetti da MICI influenzi le loro scelte alimentari e la qualità di vita. Dalle interviste, è emerso che ciascun paziente instaura un rapporto molto personale con il cibo, principalmente ancorato alla strategia dell’evitamento di certi alimenti. Il ruolo del paziente nel riconoscere quali alimenti possono portare a sviluppare sintomi è certamente importante ed è fondamentale una presa in carico un approccio multidisciplinare, che preveda la valutazione delle diete utilizzate soprattutto se ‘di esclusionè, da parte del medico gastroenterologo e dal nutrizionista o dal pediatra, con l’aiuto di una dietista esperta o meglio ancora se dedicata alle MICI.
La salute del paziente con MICI, pertanto, non può e non deve dipendere solo dalle cure mediche, ma deve prevedere uno stile di vita corretto ed un’alimentazione sana. Seguire un regime di alimentazione sana ed equilibrata è uno dei modi più efficaci per salvaguardare la salute, e forse controllare la malattia. L’interesse dei pazienti per la dieta, da intendere non come una privazione ma come uno stile di vita, è sempre molto alto e rappresenta un bisogno poter conoscere cosa e come mangiare. La realizzazione di ricette dedicate può contribuire ad alleggerire il peso della rinuncia di quegli alimenti che la malattia a volte non concede di assumere, con un occhio di riguardo al gusto e alla qualità, che influiscono sull’umore e le condizioni generali dell’organismo. Perchè indipendentemente da eventuali limitazioni, mangiare con gusto è sempre possibile, più facile di quello che sembra e migliora la qualità della vita. Compito dell’Associazione è contribuire grazie ad esperti in materia ad aumentare la diffusione delle informazioni corrette che possono essere di aiuto nella vita di tutti i giorni di pazienti troppo spesso disorientati.
– foto ufficio stampa AMICI Italia
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Atp Finals, Intesa Sanpaolo e Fprc insieme contro i tumori maschili

TORINO (ITALPRESS) – In occasione delle ATP Finals di Torino, Intesa Sanpaolo, Host Partner dell’evento, e la Fondazione Piemontese per la Ricerca sul Cancro scendono nuovamente in campo insieme per raccogliere fondi per la lotta contro il cancro e in particolare per la prevenzione dei tumori maschili, cui è dedicato a livello internazionale il mese di novembre. A questo scopo la Fondazione ha lanciato la campagna di sensibilizzazione LIFE is BLU.
Intesa Sanpaolo contribuirà al progetto donando 100 euro per ogni Ace segnato dai campioni nel torneo singolare, fino ad un massimo di 25 mila euro.
Insieme alla Fondazione, la Banca ha lanciato una raccolta fondi attraverso For Funding, la piattaforma digitale di crowdfunding di Intesa Sanpaolo. Fino al 31 dicembre chiunque potrà contribuire al raggiungimento del traguardo di 300.000 euro, facendo una donazione per questo progetto su:
https://www.forfunding.intesasanpaolo.com/DonationPlatform-ISP/nav/progetto/ricerca-cancro-prostata.
Quanto raccolto contribuirà all’acquisto di un ecografo 3D da donare all’Istituto di Candiolo IRCCS, macchinario in grado di unire le immagini della risonanza magnetica con quelle ecografiche per eseguire la Fusion Biopsy della prostata.
Questo metodo innovativo permette di avere un controllo sulla qualità del prelievo che, grazie alla visione del tessuto tumorale differenziato dal tessuto sano, esegue una chiara mappatura dell’organo e di conseguenza migliora la precisione dei prelievi necessari ad una corretta diagnosi. La biopsia con fusione, concentrando i prelievi sulle zone sospette, aumenta significativamente l’accuratezza diagnostica ed evita esami inutili.
In occasione delle Atp Finals di Torino si ribadisce, dunque, il legame tra sport e salute: in particolare l’esercizio fisico è un grande alleato contro il cancro perchè stimola e sostiene il sistema immunitario.

– foto Intesa Sanpaolo-Fondazione Piemontese per la Ricerca sul Cancro –

(ITALPRESS).